Storm
(Parte
1, Spin-off)
______________________________
Shirt,
Kanassa, 2005.
When
the night has come
And
the land is dark
Shirt, tagliata in due dall’equatore, poggiava le sue
chiappe sfiancate sull’arida terra di Kanassa, in cui l’unica brezza era
probabilmente quella prodotta dallo sbattere di ali di una mosca, grassa e unta
come lo strato di sudore sul palmo della mano di chi l’aveva appena
schiacciata, Dodoria.
E il caldo gli si era appicciato addosso, grondante dalla pelata
che, quel fazzoletto liso tra le dita, non avrebbe asciugato del tutto. «Sono
stufo, ti dico, davvero stufo!» Attaccò con voce lamentosa, «Ogni volta quel
Freezer e il suo cazzetto di mediatore riescono a soffiarci i clienti da
sotto il naso, ed ecco che siamo costretti a sudare come maiali per nulla in
cambio.» Si tamponò ancora la fronte e ordinò l’ennesimo rum al barista,
intento ad asciugare bicchieri dietro ad un bancone polveroso.
And the moon
is the only light we’ll see
No I won’t be afraid…
Il socio, dotato dei più bei lineamenti che ogni donna avrebbe voluto
baciare, rispose solo dopo un’attenta analisi dei suoi capelli lunghi e una
volta sicuro di non avere doppie punte. «È perché gioca sporco. Ma so io come
giocare ancora più sporco!»
«Che intendi dire?»
«Intendo che…» Lasciò la sua spiegazione sospesa nell’aria stantia
del bar, considerò che il tavolino non fosse troppo sporco da poggiarci i
gomiti, fasciati da una costosa giacca di lino, e continuò: «C’è un certo Jaco,
credo sia un infiltrato non troppo segreto del governo e che…»
«Non troppo segreto?» Lo interruppe Dodoria sudato come un maiale.
Zarbon sospirò paziente, e dopo aver chiesto al barista di alzare il volume
della radio per coprire meglio le loro chiacchiere, riprese da dove aveva
interrotto. «Uno di quelli mandati per fingere che i governi facciano qualcosa
per controllare il traffico d’armi, lui ovviamente non lo sa ma il suo lavoro è
di rispedire a casa almeno un paio di noi per far tutti contenti, mi spiego?» Just
as long as you stand, stand by me…
«Non molto, cosa vorresti fare, denunciare Freezer per caso?»
«Freezer è troppo potente!» Sbottò l’atro, stringendo i pugni.
«Anche se lo denunciassimo, non è detto che lo manderebbero al fresco…
tuttavia, potremmo lasciarci sfuggire qualche informazione non proprio
riservata riguardo il suo mediatore, quel Vegeta.»
«E mentre saranno tutti impegnati a dissipare il polverone…»
Continuò adesso Dodoria, con gli occhi porcini che brillavano di cattiveria,
sulla stessa pagina del compagno.
Stan by me, ooooh stand, by me…«Noi avremmo abbastanza
tempo per concludere l’affare con Tai Pai al posto suo.» Concluse il più bello
dei due sfoggiando un sorriso mellifluo. Nel frattempo una cameriera pettoruta
e dai capelli viola aveva portato loro da bere e ricevette, come mancia, una
volgare pacca sul sedere dal più brutto.
«Ma come facciamo ad esser sicuri sia un infiltrato?» Domandò
quest’ultimo e poggiò al bicchiere le labbra carnose.
«Ho sentito gli scagnozzi di Crasher che ne parlavano, stanno
giusto cercando qualcuno da sacrificare e ho intenzione di dire a Kakao di aver
trovato quello giusto.»
I due si scambiarono uno sguardo di complice malevolenza, prima di
gioire della geniale risoluzione che li avrebbe aiutati a concludere un
vantaggioso contratto e a sbarazzarsi di quel cazzetto moscio di
Vegeta.
If the
sky that we look upon
Should
tumble and fall
All the mountains should crumble to the sea, «Cosa vuoi che me ne importi?» Rispose
Vegeta all’autista che gli aveva chiesto di poter alzare il volume. Tra il
caldo, le mosche e le zanzare che non lasciavano tregua, ascoltare musica alla
radio era davvero l’ultimo dei suoi pensieri.
Così la jeep andava, incespicando tra le dune del deserto,
guidata da un poco di buono chiamato Yellow e più andava avanti più Vegeta
sentiva che l’affare stava andando troppo tranquillamente. Molto più del
solito. Non c’erano state le solite traversie al suo arrivo a Kanassa,
l’elicottero era atterrato come di consueto e una vettura era già pronta ad
attenderlo. Solitamente, c’era sempre stata una manciata di minuti di scarto
nello scambio tra i due vettori, per sincerarsi che nessuno del Governo stesse
seguendo la trattativa: o era incappato in una ben nota “botta di fortuna”
oppure qualcosa nell’aria puzzava di sospetto. Eppure, per una volta, sapendosi
nemico fidato di un destino sempre avverso, aveva voluto credere al sorriso
benevolo della fortuna, cantando, forse troppo presto, al proprio trionfo. Non
si diede dunque molto da pensare riguardo le circostanze fortuite a cui era andato,
e stava andando, incontro, persuadendosi che per una volta poteva semplicemente
essere stato fortunato.
Era sudato, accaldato e stanco e in cuor suo sperava stesse
andando come previsto da Freezer perché, al momento, non avrebbe voluto
fronteggiare altri problemi che quello di trovare un bar per bere una birra
fresca! Né gli era mai importato veramente della buona riuscita dei loschi
affari del parente: si vedeva come un mediatore e nient’altro, pieno d’odio per
il proprio principale piuttosto che per l’immoralità delle proprie azioni.
Stava imparando e, forse, un giorno avrebbe preso il posto di Freezer, mandando
qualcun altro a compiere il lavoro sporco piuttosto che dirigersi,
personalmente, su luoghi di guerra o limbi dalla fangosa giustizia.
E senz’altro la jeep, arrugginita ferraglia rossiccia,
carica di nuovi prototipi di armi, fermò al centro di un campo circondato da
tendaggi bianchi. Vegeta scese e avvertì la sensazione sgradevole di affondare
nella sabbia con le scarpe da ginnastica. I won't cry, I won't cry
No, I won't shed a tear
Just as long as you stand, stand by
me
«Insomma lo vuoi fare o no?» Si sollevò in ginocchio, e il
letto sobbalzò come il suo umore. Ed era già nudo, e così era lei, ad eccezione
degli slip che le biancheggiavano ancora sul ventre, del tutto asciutto.
Avevano iniziato come tante altre volte, prima degli ultimi,
sconquassanti eventi della loro brevi, già complicate vite. Diciotto distolse
lo sguardo. «Certo.» Scacciò dalla spalla una mosca immaginaria, voleva solo
coprirsi il piccolo seno svestito, affatto turgido come l’eccitazione
dell’altro. «Ma sbrigati!» Si lamentò, «Toglimi questi.» Gli indicò
quell’ultimo lembo di stoffa, non osava toccarsi, non osava toccarlo. Chiudendo
gli occhi, accolse, con una smorfia, l’esaudirsi della sua preghiera, mentre le
sua mani sudate le sfioravano i fianchi stretti. Spalancò gli occhi, per essere
sicura di avere proprio lui, Vegeta, e non l’altro, a tornarle sopra
pesante col suo corpo in fiamme. Si raccolsero a vicenda lo sguardo, dell’uno
confuso, dell’altra terrorizzato, nonostante nudi si conoscessero già.
Questa volta era però diversa: Diciotto sapeva che avrebbe dovuto
concedersi fino in fondo per sferzare l’amore infiacchito che Vegeta provava
(aveva provato?) per lei, persuaso di essere usato invece che amato di rimando.
Vegeta, infatti, aveva concimato la convinzione che la sua algida
ragazza non lo vedesse che come un simile, piuttosto che come un compagno.
Macchinosa, fulgida bellezza, Diciotto calcolava solo interessi materiali;
incapace di svelare i suoi problemi familiari, preferiva essere accolta in casa
di Vegeta, perché alla sua non poteva e non voleva assolutamente tornarci: era
in fuga. Concedersi sarebbe quindi stato il modo, ormai l’unico, per suggellare
il sacro patto, grazie al quale le veniva permesso di continuare una relazione
in cui nessuno dei due ormai credeva più, se non per convenienza, di lei, se
non per ossessione, di lui.
Temeva di baciarla, quasi temesse di restare attaccato a quelle
labbra di ghiaccio. Continuava a fissarla, a studiarla, chiedendosi se anche
lei fosse in grado di sentire il lambiccare del suo cuore nel petto muscoloso.
Il ricordo della già disastrosa volta scorsa gli pulsava nell’inguine, e non si
vergognava affatto di aver insistito tanto allora: proprio grazie a quel
ricordo, invigoriva la nuova voglia, pensando all’eccitante energia che lei
aveva impiegato per allontanarlo e che se non fosse stato per il doloroso morso
avrebbe di certo continuato. Tuttavia, adesso, non riceveva invece che
sospettosa arrendevolezza. Qualcosa era davvero cambiato.
Le sfregò la guancia, che sfrigolò ad un soffio dalle sue labbra.
Sorrise, maligno. «Non sei stata mai così arrendevole.»
«Adesso sono pronta.» Mentì, era pronta soltanto a non voler tornare
a casa. Lo sforzo che stava compiendo le stava riuscendo particolarmente
gravoso: mai sarebbe stata pronta, pensava, a farlo così. Eppure, oggi avrebbe
dovuto fingere di esserlo, perché se Vegeta avesse capito la vera ragione
(tenerselo stretto per proteggere se stessa) l’avrebbe cacciata per orgoglio,
né lei avrebbe mai trovato il coraggio, scevro da qualsivoglia imbarazzo, di
confessare di essere tutt’altro che illibata.
Fu lei a prendergli le labbra; gliele graffiò con un bacio veloce,
come se avesse baciato un disgustoso rospo, nel sospetto che non si sarebbe mai
tramutato in principe. «È il casino che viene da fuori, mi distrae, non mi
piace. Chiudi la finestra!» Tornò a lagnarsi, serrando le braccia, dalle
ascelle umide, ai fianchi.
Vegeta si sollevò per l’ennesima volta, sbuffando; a piedi scalzi,
raggiunse la finestra e lasciò fuori i fastidiosi festeggiamenti per l’elezione
del nuovo sindaco Satan.
«Scegli qualcosa alla radio.» Suggerì Diciotto, nel tentativo di
prendere tempo; si ficcò intanto sotto le coperte.
«Non posso, c’è Turble che dorme di là.» Si affievolì, a nominare
il fratello nel frangente della sua prima volta.
«Avrà preso i suoi sonniferi.»
«Ho detto che non mi va.»
«Allora spegni almeno la luce.» L’intimità con Vegeta non le era
mai parsa tanto penosa! Era tuttavia necessario accordarsi al suo bisogno
fisico di averla, altrimenti, lo sentiva, avrebbe perso l’opportunità di godere
dell’agio di stare lontana dal malfidato genitore.
Né di soldi ne aveva in abbondanza: la somma promessale,
all’inizio da suo padre, era andata via via diminuendosi (l’ennesimo, meschino
tentativo di farla tornare) tanto da non permetterle di pagarsi altro alloggio
che non fosse questo con Vegeta. Un albergo di terz’ordine rappresentava per
lei un incubo, e tutti suoi vestiti e tutte le sue scarpe che fine avrebbero
fatto?
Sobbalzò, quando Vegeta scostò le coperte per riprendere posto; il
suo corpo minuto, niveo, tremò tutto e lui lo notò. Le fu ancora sopra, non più
eccitato; iniziò a baciarla, a toccarla senza che lei si degnasse del minimo
movimento. Sembrava una bambola di gomma, in balia di una lampante repulsione.
Vegeta l’aveva capito, ma non riusciva a figurarsi il motivo, non il vero.
Continuava a metterla alla prova, per scoprire fino a che punto avrebbe retto.
Aveva poca fiducia, e in parte a ragione, per l’amore che Diciotto assumeva nei
suoi confronti: era convinto volesse solo approfittare di lui per poter
restare, quasi a gratis, presso di sé. Ed andarsene era esattamente ciò che la
ragazza desiderava evitare.
Tuttavia, pensava Vegeta, Diciotto non stava affatto facendo un
buon lavoro: trovava, infatti, che una maggiore partecipazione gli fosse
dovuta. E di certo quella non era ragazza da aver scrupoli, nell’andare a letto
con qualcuno che non gradiva del tutto. Scommetteva che, se l’avesse pagata,
Diciotto si sarebbe esibita in peripezie degne della prima attrice porno!
Magari avrebbe proprio dovuto pagarla.
Sembrava la disgustasse, e più la baciava, più questa impressione
diventava forte. Eppure, non era sudato, aveva fatto una doccia, i denti li
aveva lavati… Probabile fosse ancora arrabbiata con lui, quando ad essere
sinceri, se non fosse stato morso, sarebbe arrivato a violentarla; ma se fosse
stato questo il motivo, lei, sì, proprio lei, non lo avrebbe mai invitato a
letto quel giorno!
Il motivo di quel distacco doveva essere un altro, lo ignorava.
Accese la luce. «Preferisco così.» Le disse, «Voglio vederti.» Avrebbe cercato
di leggerle nello sguardo ciò a cui non arrivava. Ma lei rimaneva immobile,
come una lucertola frastornata in attesa del colpo di grazia del gatto.
«Sento freddo.» E si coprì di nuovo con le lenzuola, e annodò le
esili gambe dai piedi ghiacciati a quelle robuste di Vegeta. Si agitò e trovò
un’altra scusa per spegnere la luce; venne accontentata ma lanciò un gridolino,
quando lui le prese una mano per farle rianimare una passione ormai smorta;
quella stessa mano, sgusciò subito via ad riaccendere la luce, come un pesce
disturbato nella sua tana sabbiosa. «Ho cambiato idea, preferisco vederti.»
«Lascia perdere, ho capito.» Decretò, rabbioso, Vegeta. Un
disastro!
Lo sgomento cadde sul viso di Diciotto, insieme alla luce che lo
illuminava. «Continuiamo!»
«Mi sembra evidente che tu non voglia.»
«Non è vero.»
«Magari preferisci il pelato.»
Oh no, non lo preferiva affatto; era dolce Crilin, ma solo perché
non sapeva, non la conosceva, Vegeta invece era come lei: cattivo. Non avrebbe
mai voluto essere guardata da Crilin come la guardava Vegeta, e sarebbe finita
così, pensava, se gli avesse dato la possibilità di conoscerla meglio.
Crilin era un balsamo per la sua autostima e non voleva smettesse
di considerarla perfetta! Vegeta, invece, aveva smesso da un pezzo; non avrebbe
avuto nulla da perdere, nemmeno lo amava più, a raccontargli la verità sul suo
conto, tranne che la propria dignità. L’orgoglio le impediva di compiere quel
passo e la paura di essere oggetto di un biasimo ancora maggiore.
«Preferisco te!»
«Allora dimostralo.»
Era struggente non riuscirci, non ingoiare quel groppo di
tristezza che le occludeva la gola, il terrore e il disprezzo di se stessa le
aveva inaridito il ventre. Forse, per sempre.
Decise di compiere l’ennesimo sforzo, timorosa di perdere Vegeta
oltre all’onore. Senza mai guardarlo negli occhi, restituì, toccandolo appena,
con grande sacrificio, tutte le attenzioni ricevute fino a quel punto, quasi
fosse un automa o una puttana in balia di un vecchio (il suo vecchio,
suo padre) molto poco attraente. Il disgusto che lei provava per se stessa
tornò ad assalirla e Vegeta lo interpretò rivolto a lui e quella rabbia divenne
sua, per la presa in giro ormai penosa. Involontariamente, Diciotto gli passò
la propria inadeguatezza, che corrose la sua sicurezza.
Convinto di non essere voluto, che lei, disinnamorata, continuasse
solo per avere una casa in cui vivere, Vegeta iniziò ad indispettirsi; scansò
la ragazza, e dopo aver giocato lui stesso contro la propria eccitazione
svogliata, decise che era giunto il momento di averla finita una volta per
tutte. «Mettimi il preservativo.» Ordinò, per calarla nel ruolo in cui voleva
prendesse parte, quella dell’amante! E alla luce dell’invadente lampadina, le
scrutava il viso, imbruttito e vinto dall’ennesima battaglia psicologica di cui
Vegeta ignorava l’esistenza.
Decisa a vincere almeno la guerra, l’algida C18 scartò con i denti
bianchissimi la protezione di lattice, gli occhi sfuggenti per l’imbarazzo e
per la paura dell’imminente fallimento: ogni tanto lanciava a Vegeta occhiate
furtive, il quale si dimostrava capace solo di fraintendere, una ad una, quelle
scorse fugaci. Non capiva, infatti, che Diciotto si era resa conto che i
piagnistei avrebbero dovuto finire quel giorno, non c’era in ballo solo la loro
prima volta, ma tutta la loro relazione, minata dall’ingombrante reato di cui
lei era stata macchiata. Se avesse continuato a non concedersi, se avesse
continuato a morderlo, avrebbe dovuto spiegare il motivo del suo rifiuto
psicologico e non voleva che lui la considerasse sporca. Allo stesso tempo,
però, desiderava arrivare con lui fino in fondo, per vincere il ripudio
maturato per se stessa. Eppure, sarebbe stato così semplice se gli avesse
spiegato tutto! O forse avrebbe complicato di più la situazione, non riusciva
proprio ad essere spensierata come quella Bulma. Non riusciva a decidersi e
dunque, restia, galleggiava nella sua farsa. Esaudito l’ordine, insolitamente
docile da sembrar colpevole, si stese di schiena, in attesa di accogliere
Vegeta nel suo ventre riarso e non illibato.
Vegeta, indeciso, la guardò ancora per un istante. Per come gli
appariva la questione, C18 sarebbe stata pronta a concedersi riluttante pur di
avere un posto in cui dormire. Ed era questo il genere di giochetti che lo
infastidiva; per l’ennesima volta, Diciotto aveva un problema e aveva preferito
tacere: non era pronta, non era più innamorata, voleva solo vivere lì? Ebbene,
perché non dirlo apertamente invece di prenderlo per i fondelli? Non era forse
questo il rispetto?
Infine, affondò con forza le proprie disillusioni, con spinte inesperte,
nell’inguine arido della ragazza, che lo accolse con dolore senza dirgli nulla.
Ed erano in due, ma Vegeta lo stava facendo da solo; iniziava già a spomparsi
per la passività di lei, finché riprese slancio non appena Diciotto spirò un
flebile, frastornante “basta”.
Vegeta non si fermò, piuttosto proseguì fino a soddisfarsi in
quella bambola di gomma, poi lascivo, ad un orecchio, poco prima di scivolare
via le sussurrò: «Mi fai davvero schifo!» Restandole addosso, le strinse il
mento tra pollice e indice. «A me non importa un accidenti dove dormi, ma le
prese in giro mi fanno davvero arrabbiare.» Si levò dal letto, scese a terra.
Perché, tra tutti i modi possibili, aveva deciso di trattarlo così? Allora,
davvero, avrebbe dovuto violentarla quella volta per tutte? E adesso, era forse
accaduto di averla violentata?
«Che cosa c’entra, cosa c’entra dove vivo io?» Balbettò lei,
cercando al contempo di pescare delle giustificazioni plausibili per quanto
appena successo. Talmente terrorizzata da dover spiegare tutto, non pensava ad
attribuire anche a Vegeta una fetta di torto.
«Fosse stato per soldi avrei capito, chissà ti venga meglio.»
Racimolò qualche spicciolo dalle tasche dei pantaloni, e insieme a qualche
vecchio scontrino accartocciato, gettò tutto sul letto. «Tieni, magari ti viene
più voglia.» Aggiunse con ironia.
Diciotto scansò le monetine, drappeggiandosi la coperta addosso,
si sollevò a mezzo busto. «Sei il solito poveraccio, prova a pagarmi di più, se
ci riesci!» Rispose all’insulto, tornando per un attimo la ragazza scontrosa di
sempre, contenta che la discussione avesse preso una piega diversa, nonostante
il bruciore tra le gambe.
«Vuoi scherzare? È esattamente quello che meriti. Non sei stata
nemmeno in grado di fingere, non vali nulla nemmeno come puttana!»
«E perché, allora, non l’hai fatto con la Brief? Sai già che ti
muore dietro ed è molto più puttana di me!»
Non era affatto quello il momento di tirare in discussione la
mocciosa di casa Brief, «Coraggio, non c’è motivo di essere invidiosi delle sue
qualità, Diciotto.» Un ghigno seguì il suo insulto. «Ti basterebbe tanto così
per raggiungere il suo livello!» Il ghigno venne a sua volta seguito da una
strana espressione uggiosa, indecifrabile, rivolta a chissà quali pensieri.
«Sai, è difficile riscaldarsi quando si finisce in tre minuti.» Lo
beccò Diciotto, riferendosi alla breve performance di Vegeta, che
sfilatosi e gettato il contraccettivo, iniziava già a raccogliere i propri
vestiti.
«Eri talmente asciutta che mi si stava screpolando!»
Avrebbero continuato a battibeccare per un bel pezzo, se Tarble
non avesse spalancato la porta sorprendendoli. Sentendoli discutere, non era
riuscito a resistere a quell’habit, proprio anche del fratello, di
origliare conversazioni di nascosto dietro una porta chiusa. Era rosso in viso,
quanto imbarazzati divennero anche Vegeta e Diciotto, seminudi, scoperti nella
loro intimità.
«Turble, ma che accidenti ti salta in mente!» Esclamò Vegeta, con
un filo strozzato di voce, indossando velocemente un paio di jeans.
Il ragazzino chiuse gli occhi, li riaprì, e chiuse di nuovo. «Cosa
le stavi facendo?» Strizzava uscio e porta tra le mani, grosse lacrime,
incastonate in quegli occhi neri, fissi sul fratello.
«Cosa non mi stava facendo, magari.» Mugolò Diciotto, per
colpire l’orgoglio di Vegeta, e c’era un nota dolorante nella sua voce.
«Né più né meno di quello che avrei fatto da solo.»
«Ti accontenti di poco.»
«Mi sono accontentato di te, infatti.» Sprezzante, agguantò poi il
fratello per una spalla e lo scaraventò sul letto. «Ma tranquilla, è arrivato
il tuo eroe, a faccenda finita, davvero tempestivo.» Non sapeva neanche più
cosa stesse dicendo, stizzito per l’intromissione del fratello, arrabbiato con
Diciotto, vomitava parole e insulti per distrarsi da quello che stava provando
in quel momento: schifo, di sé e di tutto il resto; aveva proprio colpito il
fondo, ed era stata una bella botta, perché si era lasciato prendere in giro.
«Coraggio, l’ho già pagata!» Lo esortò ancora, sferzando via le coperte con cui
Diciotto si stava coprendo. Le monetine tintinnarono a terra.
«Che fai?!» Gracchiò la ragazza, tirandogli un calcio, mentre
cercava di non perdere la presa sull’ultimo lembo di stoffa che riusciva a
malapena a coprirla.
«Smettila!» Riprese Tarble, «smettila, smettila!» E si gettò
contro Vegeta a pugni tesi, in lacrime: non ce la faceva proprio più a combattere,
era stanco ed era stanco di vedere il fratello così nervoso e di vedere Lazzuli maltrattata e maltrattarsi,
sempre più scontrosa ma, soprattutto, era stanco di essere un peso. Non aveva
avuto modo di conoscere Vegeta per bene, oltre le fugaci visite alla clinica e
gli riusciva difficile decifrare i suoi modi, ma era colpa sua se stava
perdendo giorni di scuola, se aveva smesso di nuotare, se dormiva poco per
reggere il passo con lo studio e, allo stesso tempo, era anche colpa di Vegeta
stesso che non riusciva a vincere le proprie noie per trovare equilibrio e
serenità.
Tuttavia, la sopportazione di Vegeta si era completamente
lacerata. Era stufo di quello stupido impertinente e dei suoi piagnistei. E
aveva in bocca il sapore del sangue, perché Turble l’aveva colpito alla
guancia, ferendogliela internamente con l’apparecchio. «Ma che cazzo!»
Si liberò della sua rabbia, e scaraventò il bambino fuori dalla stanza,
sbattendo la porta. Si rivolse a Diciotto, «Rivestiti, altrimenti te la
spacco.»
Il breve silenzio tra l’avvertimento di Vegeta e la risposta di
Diciotto, venne sconquassato dallo sbattere di un’altra porta, un tramestio, e
poi un’altra porta ancora: il portone di casa; Turble era fuggito.
E Vegeta corse via, trasportato dal vento di una decisione
fugace, inutile, sciocca. E l’idiota vestito da cowboy gli era già alle
calcagna, più abituato di lui a correre tre le dune del deserto, nonostante gli
speroni, che scintillavano al sole. Lui, invece, affondava nella sabbia come se
fosse mobile, arrancava, sotto i raggi cocenti di una giornata che avrebbe
segnato l’ennesima svolta nella sua vita e l’avrebbe ricordata per sempre, in
ogni suo piccolo particolare onirico. Come le caviglie all’improvviso bloccate
insieme, annodate da una fune con pesi alle estremità, delle bolas che
lo costrinsero a rotolare sulla sabbia bollente. Sputacchiando granelli,
strizzando gli occhi accecati dal riverbero, tentava di liberarsi quando due
ben noti stivaloni a punta riempirono il suo ridotto campo visivo, e dovette
arrendersi ad una pistola puntagli contro. «Sono Jaco Teirimentenpibosshi,
membro della P.G.S.CADASS.ILL, nientemeno che la Pattuglia governativa speciale
contro le armi d’assalto illegali. Non ti sorprende di avere avuto questo
privilegio?» Si presentò l’ometto dal volto coperto da un cappellaccio a falde
larghe.
«Di che diamine parli?» Chiese Vegeta, molto più preoccupato del
mirino a laser che ora punteggiava contro il suo petto, piuttosto che della
misera pistoletta in mano a quel gringo bislacco. Avrebbe dovuto
capirlo subito che il suo abbigliamento era troppo sospetto! Peccato che il
senno del poi arrivi sempre in ritardo.
Sollevò col pollice il bordo sudaticcio del cappello, unico segno
del caldo che stava sopportando con incredibile stoicità. «No dico, non ti
sorprende e allo stesso tempo inorgoglisce che proprio io, il migliore agente
che la Pattuglia governativa speciale contro le armi d’assalto illegali abbia
mai avuto, sia stato scomodato per scovare la tua intricata tratta mercantile?
Per la prima volta, grazie a me, siamo riusciti a coglierti sul fatto!»
«Quelle armi non sono nella lista del protocollo internazionale,
posso venderle a chi mi pare.» Rispose Vegeta, colpito dall’ometto di età
indefinita che lo fronteggiava. Cercava di mantenere la calma, conscio che
qualsiasi movimento falso gli sarebbe valso la vita.
«Allora perché sei scappato via, se credevi di essere nel giusto?»
Fu l’ovvia risposta di Jaco, che con un controllo sovrumano della situazione,
pareva nel bel mezzo di una normale conversazione.
«Perché hai iniziato a fare troppe domande.»
«Oh…» Jaco si grattò la testa. «Quindi credi che non saresti
scappato se non ci fossero state tante domande ad insospettirti? Insomma, avrei
potuto essere soltanto un compratore molto esigente. Ma in fin dei conti non mi
è dispiaciuto questo inseguimento, con questo sole che taglia l’orizzonte, è
stata una scena da film americano, anche se rivedrei il modo in cui sei caduto
a terra, di lato. Magari frontalmente, faccia alla sabbia, avrebbe aggiunto
quel tocco di comicità occidentale che non guasta mai.»
Le parole di Jaco, unico fiume nel deserto, si susseguivano
rapidamente, montando a Vegeta un gran mal di testa. E perché diavolo quel
tizio si era vestito da cowboy?
Mentre, incapace di accattare la sconfitta per mano di un
imbecille, iniziava a chiedersi se quanto stesse accadendo fosse vero o frutto
di una severa insolazione, quattro membri del Fiocco Rosso arrivarono a far da
ombra al folle del far-west e sollevarono Vegeta per le braccia.
«Aspettate, ragazzi, aspettate un attimo!» Li richiamò il
pattugliatore speciale, prendendo il cellulare dalla tasca del marsupio a
frange. Vegeta già si dimenava e tirava calci per scappare, perché sapeva che,
accerchiato da così tante persone, il cecchino che lo teneva sotto tiro non
avrebbe rischiato a colpirlo in quel momento. Avventato nelle sue decisioni,
con il raziocinio accecato dallo smacco subito, non pensava che, se anche fosse
riuscito a liberarsi dalla presa, il tiratore lo avrebbe comunque colpito in
seguito. Tuttavia, serbava la speranza di servire a loro vivo e non morto.
«Dite che c’è il tempo per una foto ricordo?» Blaterò Jaco, e fu
l’ultima cosa che Vegeta riuscì a sentire, prima di essere tramortito da un
colpo in testa.
Broth Street quella sera era tinteggiata dalle luci
della città in festa. Striscioni colorati serpeggiavano sulle pareti dei
palazzi e palloncini rossi, con su disegnata la facciona del nuovo sindaco,
volteggiavano qua e là dalle mani dei bimbini. Una calma piena di giubilo,
destinata a infrangersi in un tuffo nel canale dall’acqua nero pece.
«Aiuto, qualcuno si è buttato nel canale!» Gridarono alcune voci,
e la folla già ondeggiava curiosa verso il punto indicato, in cui quel qualcuno
nuotava come un forsennato nella melma gelida.
Un pezzetto di stoffa, una camicia bianca, galleggiava rigonfio
sulla superficie scura e frastagliata dalle bracciate di Vegeta. Il quale a
tratti risaliva, a tratti si immergeva per cercare il corpo di chi sperava di
trovare. Un tentativo davvero molto vano; tuttavia, risaliva e si immergeva e
risaliva ancora, maledicendo le esortazioni della gente, prendendo sempre meno
fiato di quanto ne avesse bisogno, finché non gli fu finalmente chiaro che
Tarble non sarebbe stato trovato.
Stringendo la camicia, nuotò fino al bordo; scansò l’aiuto di
quanti glielo offrivano, e si sollevò sulla strada, riemergendo dalle emozioni
contrastanti che gli smuovevano il cuore. Non c’era tristezza sul suo volto
bagnato, ma l’amarezza di aver infranto la promessa di proteggere il fratello,
e il sollievo di averlo perso per sempre?
«Cosa t’è saltato in mente? Volevi ammazzarti, forse?» Irruppe
Diciotto col fiatone, spintonando i presenti; indossava un vestito leggero
senza biancheria, per la fretta di dover correre fuori casa. Le gote erano
arrossate.
Vegeta le gettò addosso la camicia zuppa. «Quell’imbecille si è
buttato in acqua!» La informò, e scorse dei poliziotti venirgli incontro.
«Allora perché questa bravata? Proprio oggi, duranti i
festeggiamenti del nuovo sindaco.» Lo interrogarono.
«Turble, credo sia caduto in acqua. Non sono riuscito a trovarlo.»
«Accidenti! Non voglio saperne nulla, di questa storia!» Sbottò
Diciotto, accalorandosi, non tanto perché le importasse di Turble, quanto
perché non voleva essere coinvolta in altri problemi. «È tutta colpa tua,
Vegeta, non avresti dovuto parlargli in quel modo!» «E sta’ zitta
allora, chi ti ha chiesto niente?» Ruggì Vegeta, ma non chiedeva alla polizia
di salvare il fratello né di cercarlo. Le labbra, intanto, erano diventate
violacee per il freddo che grazie all’adrenalina non sentiva. Riprese ad
accusare Diciotto, con frasi sconnesse, e quella si difendeva, arrabbiandosi di
più e la polizia cercava di capire cosa fosse accaduto, chi dovessero cercare e
perché.
«È scappato per colpa tua!» L’accusò infine. «Se invece di fare
l’indisponente come tuo solito, ti fossi limitata a stare zitta, non avrei
alzato la voce e lui non si sarebbe spaventato!»
«Beh ovviamente è colpa mia! Chi l’ha scacciato, eh? Non io!»
Sopraggiunsero i paramedici, scortati dalle sirene dell’ambulanza,
diedero una coperta a Vegeta, e invitarono lui e Diciotto a calmarsi, che
avrebbero cercato presto il loro cane. «È mio fratello!» Esclamò,
esasperato, Vegeta. «Ho perso mio fratello.» Ripeté subito dopo, stavolta,
atono. Credendolo sotto shock, i paramedici gli controllarono le pupille, gli
sistemarono addosso la coperta che continuava a togliersi “assicurava di
sentirsi assolutamente bene”, a discapito del viso pallido e delle labbra
viola. Lo accerchiavano, come sarti intenti a cucire un abito ad un cliente
irrequieto. E lui ribadiva di stare bene, e Diciotto gli sputava addosso mille
improperi e lui le rispondeva, accusandola ora senza rabbia, ora con solerzia.
La confusione durò fino al momento in cui qualcun altro non fece
la propria apparizione. Il signor Freezer, vestito di bianco, incedette
rabbioso verso il proprio protetto, «Vegeta.»
Continua…
Ringrazio tutti di essere arrivati a leggere
fin qui, spero questo piccolo spin-off sia stato di vostro gradimento. E mi
scuso anche per il ritardo, ma in questo periodo sono davvero impegnatissima,
cercherò comunque di postare il prossimo capitolo appena possibile! :)
PS: una menzione speciale per Died, che mi ha suggerito il cowboy per
Jaco!