Anime & Manga > TSUBASA RESERVoir CHRoNiCLE / xxxHOLiC
Segui la storia  |       
Autore: steffirah    26/08/2015    1 recensioni
Si tratta di una serie di One-shot per la Shaosaku week (che cadeva dal 20 al 26 luglio). Alcune sono AU, altre riguardano i viaggi nelle varie dimensioni, seguendo il tema di quel giorno.
Sette date, otto mondi fantastici in cui vivere esperienze straordinarie.
Genere: Angst, Avventura, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sakura, Syaoran, Un po' tutti
Note: AU, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Day 6 – MOMENT THAT MADE YOU SAD
 
Issho ni ~
 
 
Allungai un braccio alla mia destra, convinta di trovarvi Shaoran. Tastai al buio il cuscino, trovandolo freddo e vuoto. Sbattei gli occhi, perplessa, e mi alzai, sgusciando fuori dal sacco a pelo e indossando il grosso giubbino di piume, di due taglie più grandi. Rimisi gli stivali alti imbottiti di pelliccia, ricordando sciarpa, guanti e cappello di lana, prima di aprire la tenda e affacciarmi all'esterno. Vagai con lo sguardo nella grotta, ma nemmeno lì c'era traccia di lui. Scossi la testa e uscii, richiudendomi la cerniera alle spalle. Mi avviai verso l'imboccatura della piccola cavità in cui ci eravamo rifugiati e abbassai la testa per uscire, preparandomi psicologicamente per il gelido impatto che avrei subito all'aria aperta. Sorprendentemente, non arrivò neppure una folata di vento. E io che mi aspettavo una bufera di neve. Mi diedi della ridicola mentre mi guardavo intorno, aguzzando la vista, cercando di abituarmi al buio e intravidi un'ombra. Ero lontana, ma mi sembrava lui, così corsi alla velocità concessami dalla neve e mi arrampicai sulle rocce, congiungendomi a lui. Mi sedetti alla sua sinistra, ricevendomi così un'occhiataccia.
«Sakura.», disse soltanto, in tono esasperato.
«Shaoran.», sorrisi innocentemente.
Lui chiuse gli occhi e sospirò, prima di allungare un braccio e stringermi a sé. Mi accoccolai contro il suo petto, approfittando del calore del suo corpo per riscaldarmi, e lui mi massaggiò la schiena, con movimenti lenti e regolari.
«Non hai freddo?», chiese premuroso e io scossi la testa in risposta, rilassandomi tra le sue braccia.
«Tu, invece, che ci fai qui fuori?»
Nemmeno lui mi rispose, ma si limitò ad indicarmi davanti a sé. Seguii la traiettoria tracciata dal suo dito e spalancai occhi e bocca, senza fiato. Da dove ci trovavamo riuscivamo a scorgere un braccio della montagna che ci ospitava momentaneamente, totalmente nera rispetto al bianco azzurrognolo che la circondava. Al di là di essa vi era un'altra catena montuosa innevata che ci impediva di vedere più lontano, ma la vera meraviglia stava nel cielo al di sopra di essa. Nonostante fosse piena notte era talmente chiaro che sembrava illuminato da numerosi fari posizionati sulla Terra, quasi come se fossimo noi a donare luce all'universo e non il contrario. Le stelle splendevano, come dei fuochi fatui, e creavano un torrente sregolato, mostrandoci la Via Lattea. Questa scorreva su delle nubi larghe, blu notte e grigie, che parevano onde del mare, densi raggi celesti che si estendevano verso di noi, come se volessero crearci un cammino per attraversare lo spazio e bagnarci nel fiume del cielo. Ma nemmeno questo era ciò che mi sorprendeva davvero. Estasiata, i miei occhi non riuscirono più a staccarsi dagli squarci verdi del cielo, che sembravano stendersi sull’esosfera come crema, dai contorni smeraldo e l'origine cinabro.
«È bellissimo.», sussurrai, allontanandomi da Shaoran per farmi più avanti, quasi come se così potessi raggiungere l'eternità più facilmente.
Lui annuì rumorosamente, prendendomi una mano e stringendola nella sua.
«L'aurora boreale...», esordì, con voce roca. «Oggi ha lo stesso colore dei tuoi occhi.»
Il cuore mi sobbalzò nel petto, lieto per la sua constatazione, e sorrisi tra me, stringendo la sua mano. Abbassai gli occhi sul mio ventre, sfiorandolo con la mano libera, e lui se ne accorse quando mi si affiancò.
«Ti fa male la pancia?», domandò, subito allarmandosi, e io lo tranquillizzai mormorando:
«No, mi stavo soltanto chiedendo se riuscisse a vederlo anche lui.»
Colsi una sua occhiata confusa e presi un respiro profondo, rendendomi conto che era giunto il momento di dirglielo. Feci per aprire bocca, ma non ce ne fu bisogno. Dai suoi occhi emerse la consapevolezza e mi fissò per un lungo istante, facendo scattare lo sguardo dal mio viso alla mano ancora posata sul mio ventre al mio viso e così via. Trascorse quasi un minuto e iniziai a convincermi d'averlo sconvolto, quando si aprì in un enorme sorriso. I suoi occhi si riempirono di lacrime mentre mi chiedeva, la voce impastata in un misto di meraviglia e incredulità: «Dici davvero?»
Annuii, energeticamente, e lui mi strinse la mano, avvicinandomisi. Una lacrima straripò dal suo occhio sinistro, scivolandogli sulla guancia, cadendo sul suo cuore, dove vi lasciò una piccola macchia bagnata.
«Ne sei sicura?» Stavolta la sua voce era accorata, ricca di emozione, e io risposi commossa:
«Sì. Aspetto un bambino, Shaoran.»
Lui mi abbracciò di slancio, piangendo tra i miei capelli, ripetendomi quanto fosse felice di diventare padre e quando si calmò un po' si allontanò per guardarmi negli occhi, intensamente.
«Diventerò padre.»
«Sì.»
«E tu sarai madre.»
«Sì.»
«Saremo genitori. Insieme.»
«Insieme.», ripetei, e calde lacrime sgorgarono anche dai miei occhi, mentre sorridevo, dolcemente. «Per sempre.»
«Per sempre.», mi fece eco, guardandomi con decisione e poi mi strinse di nuovo, con più delicatezza, facendomi appoggiare a lui e posando la sua mano sulla mia, carezzando dolcemente nostro figlio. Il nostro bambino. Intrecciammo le nostre dita, abbracciando il seme non ancora germogliato che portavo in me, facendo tintinnare le nostre fedi.
Il mattino dopo rimettemmo a posto i nostri effetti personali e, zaini in spalla, ci incamminammo verso il paese più vicino. Shaoran si riempì del carico più pesante, anche se mi rimproverò a lungo per non averglielo annunciato prima. Era insicuro circa la mia salute, cercava di tenermi - anzi, tenerci al più caldo possibile, divenendo a tratti paranoico.
«È un clima troppo rigido, non dovevamo venire.»
«Shaoran, non mi accadrà nulla. Sono soltanto quattro settimane, non sto così male. E poi, non potevamo rifiutare quest'offerta. Quante altre volte ti verrà chiesto di lavorare tra i ghiacciai? Pensaci.»
«Potevamo rifiutare, Sakura, non metto il lavoro davanti alla famiglia.»
«Nemmeno io, per questo ho deciso di seguirti, seppure conscia delle mie condizioni.»
«Ma se dovesse venirti una febbre? Se ti ammalassi? Se cominciassi a sentire dolori?»
«Basterà un po' di neve sulla fronte. Oh, insomma, ho pensato a tutto e ho portato tutte le medicine di cui potrei aver bisogno. Non preoccuparti per me, concentrati sulla tua missione.»
Era assurdo pensare che dopo tutti quegli anni trascorsi insieme era la prima volta che litigavamo, ma la verità era che non riusciva a capacitarsi del motivo per cui non gliel'avevo detto prima. Ad essere onesta, non avevo paura che si arrabbiasse o altro; semplicemente volevo prima esserne sicura, e poi sapevo che venendone a conoscenza avrebbe rinunciato alle ricerche. Mi sarei sentita troppo in colpa, non avrei mai potuto perdonarmelo. E poi, desideravo vederlo sul campo in un ambiente diverso.
Ciononostante, proprio quel giorno me lo impedì e mi impose di restare allo chalet, senza uscire per nessun motivo al mondo. Mi sedetti indispettita sul divano, davanti al fuoco, con le braccia incrociate, ma il mio umore migliorò quando feci amicizia con altre donne. Anche una di queste era incinta e mancava poco alla nascita, così scoprendo che anche io ero gravida mi informò un po' sulle cose positive, quelle negative, quelle da fare, quelle da evitare durante gli otto mesi rimanenti. Parlammo amabilmente per ore, sorseggiando del buon tè davanti ai ceppi d'un fuocherello allegro e scoppiettante, quando sentimmo il parquet tremare sotto i nostri piedi. Si trattò di un breve istante e mi convinsi che non fosse stato altro che un'illusione dei sensi. Dovevo averlo immaginato.
A disagio, mi misi più comoda sul divano, alzando le gambe, e rivolsi un'occhiata all'esterno dalla finestra che avevo di fronte. Sbiancai quando vidi una valanga di neve scivolare giù dalla montagna prossima all'albergo e correre inesorabilmente nella nostra direzione. Era silenziosa, come una biscia strisciava perfidamente verso di noi, allungando le zanne sulla nostra vita.
Balzai in piedi e senza neppure avere il tempo di pensare afferrai la mano della donna con cui stavo conversando e la condussi al piano superiore, per portarla in salvo. Una parte di me mi suggeriva di uscire il prima possibile, ma non mi sembrava una buona idea: avremmo soltanto accelerato la nostra fine. Corsi a perdifiato, salendo due gradini alla volta, gridando alle altre ospiti di cercare un riparo che potesse essere caldo e sicuro come coperte, piumoni o roba simile, ma loro si limitarono a guardarmi spaesate. Non c'era il tempo per spiegare loro che lo spirito del luogo stava reclamando le nostre anime e tutta quella calma mi snervava. Non aveva senso.
«Sbrigatevi, prima che sia troppo tardi!»
Spinsi la donna nel corridoio ma per la fretta, per l'impatto della neve contro le pareti di legno, per il cemento armato che ci minacciava, per il panico che mi attanagliava, per la paura che mi soffocava, persi l'equilibrio e caddi, rotolando giù lungo tutta la rampa di scale. Sbattei la testa contro qualcosa di rigido e appuntito, la mia visione divenne offuscata, come se stessi guardando il mondo dalle profondità dell'oceano, un liquido caldo e doloroso mi rigò il viso, raggiungendo la mia bocca, inghiottendo le mie tonsille, stritolando i miei polmoni, arrestandomi la mente. L'ultima cosa che ricordo è il suo viso, quello di Shaoran. E poi, il nulla.
 

Salutai i miei colleghi, sollevato che fosse finita, e raccolsi i miei attrezzi, pronto a tornare da loro. Da Sakura e dal nostro bambino. Mi sembrava ancora incredibile. Al solo pensiero affiorava un sorriso inconsapevole sulle mie labbra e ci avevo pensato talmente tante volte nell'arco della giornata che gli altri m'avevano preso in giro senza troppi complimenti. Alla fine dovetti arrendermi alla loro curiosità e spiegare il motivo di tanta felicità: ne gioirono insieme a me e si congratularono con gioia. Dopotutto, ci conoscevamo sin dai tempi dell'accademia e avevamo vissuto parecchie esperienze insieme, anche non lavorative. Erano come dei fratelli per me.
Tuttavia, mentre studiavamo e restauravamo quel nuovo reperto archeologico, così distante dalla società odierna, provai una brutta sensazione. Era come se qualcuno m'avesse pugnalato il cuore all'improvviso, cogliendomi alla sprovvista, privo di difese, e avesse rigirato la lama nel mio organo vitale ripetutamente, fino a crearvi un varco grondante sangue. Ero stato male e oltre che fisico, si trattava di un dolore nell'anima: riuscivo a vederla, dinanzi ai miei occhi, si librava a pochi centimetri dal suolo, tremava, gli occhi rispecchiavano un terrore puro, quando due grosse zampe mi afferrarono due lati della testa e la spaccarono a metà, continuando a tirare e strappare il resto in due parti uguali, facendo fuoriuscire tutta la mia essenza, facendola evaporare, risucchiandola in un vortice, derubandomi dell'esistenza. Persi coscienza, il mio sguardo divenne vacuo, e fu allora che sentii la voce di Sakura invocare disperatamente il mio nome.
Percepii, in me, che qualcosa di terribile era successo, ma non potevo muovermi dalla mia postazione - lei non me l'avrebbe mai perdonato - e oltretutto si trattava solo di un'altra mezz'oretta. Potevo farcela. Eppure ero distratto, in ansia per lei e per il bambino, così dissi ai miei colleghi che sarei tornato un po' prima per assicurarmi che stesse bene.
Corsi al fuoristrada e guidai come un pazzo, la testa che pareva scoppiarmi come tante bollicine, amplificando i rumori che mi circondavano, tanto che il suono delle sirene mi arrivò fin troppo chiaramente. Frenai di colpo, quel matto suono ritmato che si insinuava nel mio timpano, sfracassandolo, perforando la mia mente come un trapano. Le luci rosse e blu si alternavano davanti alle mie pupille, pungendole come aghi, il sordo rumore delle pale degli elicotteri scuoteva le mie ossa, rendendole di gesso, tanto che bastava grattarci con un'unghia per sgretolarle, sbriciolarle. No...
«No!!», gridai a pieni polmoni, le lacrime che mi offuscavano la visuale, mi si ghiacciavano sulle guance, mentre inseguivo quel pianto di dolore, sempre più vicino, sempre più vicino... Più vicino a lei... Più vicino a loro... E mi fermai, senza fiato, non riconoscendo più quel posto. Certamente, dovevo essermi sbagliato. Lo chalet era grosso, sicuro, di almeno tre piani, ma quello... Quello non era altro che un agglomerato di legna, pietre e neve. Non era il luogo in cui li avevo lasciati. Dovevo aver sbagliato strada, m'ero lasciato guidare dalla paura e avevo commesso un errore.
Tuttavia, riconobbi il proprietario. Era in disparte, e mirava la scena, lo sguardo inespressivo, il corpo rigido, immobile, come se si fosse congelato. Mi avvicinai a lui e lo scrollai malamente, chiedendogli cosa diamine fosse successo, perché c'erano tutti quei poliziotti, quei vigili, quelle ruspe per spalare la neve, chiedendogli dove fosse Sakura, la mia Sakura, ma pareva inutile tentare di estorcergli informazioni. Dentro di me conoscevo già la risposta, ma non riuscivo ad accettarla. Come potevo rassegnarmi all'idea che... Che lei... Che mentre io...
Non riuscendo a formulare più alcun pensiero razionale spinsi da parte l'uomo di ghiaccio, spaccandolo in mille frammenti, e corsi vicino alla prima ambulanza. Scorsi una donna incinta, in lacrime, e notai che a parte qualche graffio, la brina che ricopriva le sue vesti e lo spavento sembrava stare bene, ma il suo viso era sconvolto. Alzò lo sguardo dal nulla, incrociando il mio, e parve riconoscermi. Grosse lacrime le bagnarono il viso mentre allungava un dito, tremando come una foglia scossa dal vento, indicando verso l'ambulanza. Scattai come un lampo in quella direzione e la trovai: lì, su quella barella, inerme, ferita, immobile, il sangue le ricopriva gran parte del viso, sfigurando il suo angelico volto, non respirava... Sakura...
«Sakuraaa!!!!!»
Mi lanciai verso di lei, percepivo un suono lontano, voci che mi parlavano, braccia che cercavano di tenermi fermo, una siringa mi perforava la pelle, il suo liquido che entrava in circolo nelle mie molli arterie, tentacoli che mi afferravano la gola stringendola per soffocarmi, martelli che battevano contro la mia testa, spappolandomi il cervello, corvi che mi beccavano gli occhi, coyote si nutrivano della mia carne, sanguisughe prosciugavano le mie vene, avvoltoi stracciavano, masticavano, ingurgitavano il mio cuore senza alcuna pietà. Non capivo più niente e quando ricominciai a dare un senso alla vita, alla mia esistenza, mi ritrovai in una sala d'attesa. Vi diedi un nome: ospedale. Di fronte a me sedeva un uomo vestito con un camice azzurro-verdino, osservandomi pazientemente, in attesa, i ricci e crespi capelli brizzolati schiacciati da una cuffietta che stringeva tra le mani inguantate. Riconobbi anche lui: chirurgo.
«Sakura...», sussurrai, la mia voce un alito spento di vento, giungeva morta persino alle mie orecchie ormai sorde.
«Signore, la prego di ascoltarmi con calma. Ho cattive notizie.»
Non lo lasciai continuare, mi nascosi il viso tra le mani, disperato. Non riuscivo ad accettarlo. Non poteva essere... Non ero in grado di pensare a quella terribile parola. Non potevo averli persi, entrambi, in un istante. Era tutta colpa mia. Se non avessi accettato quel lavoro, tanto chiunque aveva la possibilità di sostituirmi, non li avrei mai messi in pericolo. Se fossi corso subito da loro, o fossi rimasto insieme a loro, o li avessi portati insieme a me agli scavi... Avrei potuto salvarli. Li avevo uccisi. Con le mie stesse mani. Mi guardai i palmi, disgustato da me stesso. Mi odiavo. Volevo sparire. Dovevo scomparire, all'istante. Dovevo punirmi e morire, subito, ma uccidendomi lentamente...
Strinsi i pugni, pianificando il mio suicidio, quando la voce del dottore sfiorò le corde del mio cuore, che credevo ormai sfibrate, facendole vibrare.
«Vostra moglie è salva.»
Alzai lo sguardo sul suo viso, speranzoso. Il suo tono m'era sembrato sincero.
«Sakura è... viva?», chiesi esitante, pregando affinché fosse vero.
«Sì.», confermò e lo guardai incredulo. Non riuscivo a crederci... Non riuscivo a crederci!!
«Posso vederla?!» Era una domanda retorica, dato che già stavo per entrare nella sua stanza, ma il medico fu più veloce e mi posò una mano sulla spalla.
«Non ancora.» La sua voce pacata, professionale, tradiva una nota di preoccupazione.
«Il bambino. Come sta il bambino?», lo affrontai, preparandomi a qualsiasi risposta.
I suoi occhi scintillarono tristemente per un istante e scosse la testa. Strinsi le palpebre, mordendomi le labbra tremanti, serrai i pugni, ficcandomi le corte unghie nelle pieghe della pelle. Non ero riuscito a proteggerlo. Non l'avevo salvato. Non ero un buon padre.
«Vuole sedersi? Le posso offrire un bicchiere d'acqua mentre le illustro le condizioni di sua moglie.»
Annuii in silenzio, seguendolo nel suo studio, sorvolando sulle sue parole. Illustrarmi. Illustrarmi! Come se dovesse parlarmi di una ricetta medica qualsiasi. Digrignai i denti, ma non aveva senso sfogare il mio dolore su qualcun altro.
Mi sedetti, teso, e trangugiai il bicchiere offertomi, mentre la mia gola secca, riarsa e bruciante ringraziava. Anche la vescica sembrava fare i salti di gioia. Li avrei sparati entrambi, seduta stante.
Fissai l'uomo all'altro lato della scrivania col viso tirato e, una volta appoggiato il bicchiere sul tavolo, mi descrisse l'accaduto in base alle altre testimonianze. Non mi sorpresi quando mi disse che la prima cosa che Sakura aveva cercato di fare era stato portare in salvo gli altri ospiti - era tipico di lei pensare per ultima a se stessa -, ma il resto delle sue parole divennero una vivisezione cosciente, priva di anestesia. Era come se tagliasse ogni angolo della mia pelle con un bisturi e vi creasse uno squarcio, infilandovi le dita, tirandomi fuori ogni singolo componente del mio corpo. Mi descrisse la caduta, le ferite che ne erano derivate, le ossa fratturate, la perdita di nostro figlio, il colpo profondo alla testa, l'operazione riuscita, le sue cellule che si rigeneravano in fretta, i suoi globuli che compievano il loro dovere, ma... Ma.
«Vi sono state delle conseguenze sul suo sistema nervoso. Siamo positivi nel credere che non ci saranno ripercussioni sul controllo del proprio corpo, riuscirà a camminare, a compiere i gesti quotidiani una volta guarita completamente, ma... Ma la sua memoria… Non tornerà più.» E con quelle parole mi uccise, per la terza volta quella notte. O forse era la quarta, avevo cominciato a perdere il conto di tutti i momenti in cui mi ero sentito morire. «Sono rari i casi in cui essa ritorni, dovrebbe fare delle analisi neurologiche regolari una volta dimessa... Purtroppo non posso promettere nulla.»
Si accese un briciolo di speranza nella valle devastata che era diventata la mia miserrima anima, ma non sarebbe riuscita a sciogliere neppure un fiocco di neve... Pallida. Fredda. Gelida. Crudele. Spietata. Empia. Turpe. Senza pietà.
«L'importante è che almeno lei sia ancora viva... Il resto... Potrò superarlo...» Con questa menzogna mi segnai sulla lista della morte, dandomi in pasto ai pescecane, gettandomi tra le braccia dell'essere incappucciato, aggrappandomi alla sua falce, cercando di sopravvivere. 
 

Buio. Era tutto buio. Ma cos'era il buio? Non lo sapevo... Cosa significava il verbo "sapere"? E "verbo"? E il termine "significare"? E "termine"? Cos'era tutto quel... nulla? Quel... Vuoto? Non mi capacitavo del come riuscissi a trovare le parole. Semplicemente prendevano forma lì, nella mia mente. Riuscivo a riflettere, ma era davvero una mente? Sembrava soltanto un involucro vuoto... Si formò un immagine che associai ad un "guscio di una noce".
Vagai nelle tenebre, andando avanti, guardando i miei piedi. "Piedi". Così si chiamavano quelle strane protuberanze, con cinque piccole ramificazioni.
La parola che cercavo era... Scavai nella mia mente... Un dolore terribile all'altezza del cranio. Il cranio. L'immagine di un libro. Io avevo un cranio. Perché io ero un "essere umano". Un essere umano, quindi... "vivente". Ero... "viva". Ma cosa faceva un essere... Vivo? Si poteva vivere nel nero più assoluto? No, dovevo fare qualcosa per uscirne. Trovare un'apertura, un varco...
Un... Un essere umano, sì. Ma un essere umano aveva un corpo, giusto? Dov'era il mio? Non lo vedevo. Non vedevo niente! Non lo sentivo. E un nome, giusto? Una... "identità". Qual era la mia? Chi ero io? Un dolore, una fitta, quasi al centro di quello che speravo fosse il mio corpo. Un po' più a sinistra. Il "cuore". Era la risposta? L'avrei trovata lì?
No, dovevo uscire. Dovevo fuggire. Non potevo restare in quel posto per sempre, avevo bisogno di risposte. Cosa faceva un "corpo" per "vivere"?... Apriva gli "occhi". Vedeva la "luce".
“Apri gli occhi. Apri gli occhi. Apri gli occhi!!”
Qualcosa tremò. Un sottile strato di... "pelle". Si trovava in alto. Davanti. Era la zona del mio cranio... Più o meno. Una flebile luce verdastra. C'ero vicina.
“Apri gli occhi.”, ripetei il comando all'infinito (ma cos'era, questo "infinito"?) finché non sentii uno scatto. Luce abbagliante. Verde cupo. Bianco acceso. Era fastidioso. Dovevo resistere. In fretta imparai come orbitare i miei occhi. Mi sembrava la parola giusta. Ancora non avevo capito perché alcuni termini mi saltavano subito alla mente, mentre invece altri dovevo cercarli in angoli bui della mia testa. Forse le prime erano conoscenze di base. Bisognava saperle. Qualcosa entrò come un soffio in due buchi poco al di sotto dei miei occhi. "Aria." Mi sentii spaventata. Un suono... Veloce... Raggiunse le mie "orecchie". Era il mio "cuore". Ero terrorizzata. Era forte. L'aria mi attaccava. La luce mi rendeva cieca. Ero sola...
"Sola"! No... Non mi piaceva! Non volevo essere sola. Di nuovo, cos'ero io? Chi ero? Qualcosa mi strinse la... Un'altra cosa con cinque diramazioni, più in alto dei piedi... La "mano".
C'era qualcuno! Non ero sola!
Spostai gli occhi da quella luce insopportabile, posandoli in un colore che riconobbi subito: cioccolata. Ma era un... "cibo". Quelle due sfere non sembravano cibo, piuttosto... "Occhi". Al centro c'erano dei pallini neri, che improvvisamente diventarono più piccoli. "Pupille."
«Sakura... Ti sei... svegliata...» Una... "voce". Quella dello... "sconosciuto". «So che ti senti un po' spaesata, ma si risolverà tutto. Te lo prometto.»
Si poteva versare acqua dagli occhi? L'essere umano che mi parlava sembrava riuscirci. Poi le riconobbi... "lacrime". Ma non sapevo a cosa servissero.
«Tu... Chi sei?» Un impulso, un altro tic, m'aveva portato ad aprire la bocca ed emettere quei suoni... Sembravano insensati, ma era la mia voce. Era così debole.
«Io sono Shaoran.» L'acqua continuò a bagnargli il viso, nonostante le sue labbra si fossero stese in quello che seppi definire "sorriso". Tuttavia, non mi sembrava... "felice".
«E io? Io chi sono?» Era diventato più semplice "parlare".
«Tu sei Sakura. Hai perso la memoria, ma presto la ritroveremo. Insieme.»
Le sue "spalle" ebbero un sussulto, e al suono di quella parola sentii acqua scendere anche dai miei occhi.
«Insieme.», ripetei e lui fece un cenno col capo, tremando. Chiusi di nuovo gli occhi e ripetei nella mia mente le sue parole.
“Io ero Sakura. Lui era Shaoran. Noi avremmo ritrovato la mia memoria... insieme.”
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > TSUBASA RESERVoir CHRoNiCLE / xxxHOLiC / Vai alla pagina dell'autore: steffirah