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Autore: Dew_Drop    27/08/2015    3 recensioni
Dal testo: "Alec si lasciò andare contro lo schienale e chiuse gli occhi. Una statua di resa, esasperazione, sgomento. Rivisse mentalmente il momento in cui, il giorno prima, sua sorella lo aveva scovato a bisticciare con Jace e se n’era uscita con il suo famoso: “Siete ridicoli, tutti e due! Dovreste mettervi nei panni dell’altro, ogni tanto. Farebbe bene ad entrambi”. Appunto, nei panni dell’altro. Solo che, nel suo caso, i panni dell’altro erano panni eterosessuali. Oh, Raziel."
__
Già. Cosa accadrebbe se a qualcuno venisse la grande idea di proporre a Jace e ad Alec uno scambio di ruoli? Dareste loro qualche speranza? Avanti, stiamo parlando del ragazzo più etero e di quello più gay al mondo alle prese con una sfida biblica: adottare per un solo giorno le preferenze sessuali dell'altro. Affetto fra parabatai, lo chiamano.
Appunto. Secondo me, dicevo, di speranze non ce ne sono.
Genere: Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Magnus Bane
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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5. Corse clandestine fra tavoli... o no?






5. Corse clandestine fra tavoli... o no?

 

«Credo mi stia un po’ stretta», disse Alec.

Jace gli indirizzò un’alzata di sopracciglia. Se ne stava seduto sul divano, al centro, le mani tra le ginocchia e l’espressione contesa fra sarcasmo e insofferenza. «A me sta larga e a te stretta? Pensavo che il tuo fiuto per il vestiario fosse infallibile, Magnus.»              

Lo stregone si lasciò passare le sue parole da un orecchio all’altro. Rimase semplicemente fermo in mezzo al salotto, quasi non avesse ancora realizzato di avere ospiti a casa propria. Si era sistemato il mento fra pollice ed indice e scrutava Alec senza battere ciglio, con gli occhi stretti in un indizio di intensa concentrazione, come a chiedersi come diavolo fosse possibile che il suo ragazzo se ne fosse uscito con un annuncio simile. Poi, in tono convinto e professionale:

«La taglia è giusta. È solo il modello.»

«Il modello?»

«Le giacche hanno modelli diversi, Jace. Questa ha le spalle strette; è fatta così.»

Alec guardò prima uno e poi l’altro e decise di trattenersi dal rilasciare dichiarazioni. Erano a casa di Magnus da quasi un’ora e l’orologio a forma di gufo segnava ormai le tre del pomeriggio. Ancora nessuno gli aveva detto perché mai dovesse andarsene in giro con addosso una giacca del genere, ma la consapevolezza che non avrebbe ottenuto delle risposte bastava a farlo desistere dal domandare delucidazioni. L’unica cosa che fece, se non altro preferibile al farsi coinvolgere dai discorsi del parabatai e dello stregone, fu di voltarsi verso lo specchio a figura intera che Magnus aveva fatto comparire nel salotto.

La giacca, lo ammetteva, gli stava anche bene. Era di un blu poco più chiaro di quello degli occhi, ma era un dettaglio trascurabile, senz’altro secondario. A preoccuparlo era l’estrema eleganza dei bottoni e del colletto, con una nota di merito per la tasca in cui, parola dell’esperto, avrebbe potuto mettere un bel fazzoletto di seta. L’unica cosa che lo rincuorava era l’assenza di Izzy, rimasta all’istituto con Clary. Per il resto c’erano cose che stonavano, una vaga eppur percepibile puzza di bruciato. E non era il classico e intrigante aroma di fiammiferi accesi che Magnus si lasciava dietro.

«Come vuoi», concedeva Jace nel frattempo. «Adesso devi pettinarti, Alec.»

Alec gli girò addosso lo sguardo sorpreso e instupidito di chi riceve uno schiaffo dietro la nuca. «Cosa?»

«Oh, Raziel.» Poi, impietosamente: «Magnus, pettinalo.»

«Magnus non farà proprio niente!»

«Io pettinarlo?» chiese lo stregone. «È più facile pettinare il Presidente.»

Jace arcuò un sopracciglio. «Il Presidente non ha i capelli.»

«Questo è quello che credi tu.»

«La mia testa è sufficientemente in ordine», s’impuntò Alec. Si allontanò dallo specchio e cadde a sedere sul divano, chinandosi in avanti per recuperare le scarpe. «Non sto uscendo per un appuntamento. Devo solo fare qualcosa di cui il mio parabatai non mi ha ancora detto niente.»

Aveva già preso a sistemare le stringhe in modo disordinato e precipitoso quando si rese conto del silenzio caduto all’improvviso attorno. Si arrestò con uno dei lacci in mano e alzò la testa, uno spruzzo di ciuffi neri a pizzicargli la fronte e gli occhi che corsero a Jace in poco meno di un secondo. Capì, più per intuito che per altro, che la puzza di bruciato era diventata più concreta. Fisica.

«Non sto uscendo per un appuntamento, vero?» chiese, in tono cauto.

«No», rispose Magnus. La sua faccia, forse per colpa del leggero sorriso che gli arricciava le labbra, prometteva una spiegazione che invece non ci fu. Le parole che seguirono valsero solo come il minuscolo assaggio di qualcos’altro lasciato tra le righe. «Non definirei troppo corretta questa frase, in effetti.»

«Ma?»

«Ma devi pettinarti», s’intromise Jace, e si alzò senza preavviso, piantandosi in viso un’espressione di artificioso e divertito dispiacere. «Sai come si dice dalle nostre parti: dura lex, sed lex

Alec sembrò prendere in considerazione l’idea di rispondergli per le rime, preferibilmente riciclando per l’occasione qualche altro bel detto in latino. Alla fine borbottò qualcosa, terminò con foga di affrancarsi le stringhe e si allungò sul divano per recuperare dal mobile una borsa nera. «Evitate di farmi commentare questa situazione, o la sola parola che mi verrebbe in mente sarebbe “pluriomicidio”.»

«Perché la borsa? Non stiamo andando in gita. Devi portarti dietro dei panini?»

«È una borsa da uomo», spiegò a quel punto Magnus dando uno sguardo fiero e deliziato ad Alec, che si alzava dal divano. «Ed è assolutamente perfetta per quella giacca. Aspetta, non dire niente: sei un po’ troppo barbaro per poter commentare. Fidati e basta.»

Jace fece una smorfia mentre si voltava per raggiungere la porta. «Preferirei giocare a bingo con dei pinguini piuttosto che fidarmi dei tuoi gusti in fattore di moda.»

«E perderesti, perché i pinguini sono ottimi giocatori.» Lo stregone sventagliò la mano in sua direzione come se quel gesto valesse a scacciarlo, poi agganciò il braccio di Alec e lo spinse in avanti, verso l’uscio. Le sue dita si mossero in uno sfarfallio e i capelli del Nephilim scivolarono indietro, quasi un pettine li avesse finalmente addomesticati. «Non starlo a sentire», mormorò poi, mentre si spostavano verso la porta. «È solo geloso.»

«Puoi almeno dirmi perché anche voi siete vestiti di tutto punto?»

Era una piccola esagerazione, soprattutto se si teneva in conto che Jace indossava solo abiti meno inquietanti del solito e che Magnus si era messo addosso un completo arancione, ma il fatto restava. In fin dei conti il suo parabatai sembrava essersi sistemato a dovere, almeno secondo i suoi standard di puntigliosa semplicità, e lo stregone aveva giustificato la scelta del proprio abbigliamento dicendo di voler dare una buona impressione – ammesso e non concesso che si potesse fare bella figura assomigliando ad un’arancia ambulante, rifletteva Alec.

Magnus alzò gli occhi senza lasciare da parte quel suo sorrisetto zuccherato. «Perché si tratta di una cosa che dobbiamo fare anche noi due se la fai tu, Alexander. Non potremmo restare a guardare, capisci?»

Alec capì solo che là dentro poteva benissimo starci un messaggio poco casto. Si guardò dal farlo intendere. «Tutti e tre?»

«Tutti e tre. Vuoi un indizio?»

«Farebbe comodo.»

«Ci saranno dei numeri.»

«Ah», fece il Nephilim. Fu la sola cosa che gli uscì mentre Magnus schioccava le dita e la porta dell’appartamento si chiudeva alle loro spalle. Quanto a Jace, li aspettava in fondo alle scale, le mani affondate nelle tasche della giacca nera e gli occhi alzati verso di loro.

«Romeo e Giulietta, muovetevi.»                                                                 

«Jace, non vedo cosa ci sia di etero nel gioco della tombola», gli disse Alec. Era un bel tentativo per sdrammatizzare.

Il parabatai lo guardò dal basso con una certa intensità prima di rivolgersi a Magnus. «Gli hai detto dei numeri?»

«Che intuito, Herondale!»

«La tombola non c’entra. È un gioco per vecchi.» Jace fece un sorrisetto, uno di quelli improvvisi, uno di quelli che sapevano davvero di bruciato. «Noi andiamo a fare una cosa per giovani.»

Si voltò senza aggiungere altro e uscì dal portone, svanendo nella luce del giorno.

«Non posso crederci», disse Magnus. Si era arrestato sulle scale e la sua espressione sarebbe potuta passare per sincera indignazione. «Alexander, credo che il tuo parabatai mi abbia appena scaricato. Escluso.»

Alec, che stava scendendo con lui gli ultimi gradini e si era fermato a sua volta, corrugò la fronte. «Non sei vecchio.» Poi, nel tono di una correzione e con un certo imbarazzo: «Almeno, non troppo.»

«Dimentichi che, facendo quattro conti, potrei essere andato a letto con qualcuno dei tuoi avi.»

«Tu cosa

«Sto scherzando. Sei troppo suscettibile.» Lo stregone buttò un sospiro in cui si srotolò una mezza risata e riprese a scendere, costringendo il Nephilim a fare altrettanto.


* * *

 

La prima cosa che Alec pensò di fronte al locale fu che all’apparenza sembrava inoffensivo. Il primo ripensamento arrivò quando Magnus disse loro di aspettare fuori.

«Ho bisogno di essere persuasivo», si giustificò, «e con voi due attorno non credo di poterci riuscire.»

«È illegale?» chiese Alec. La domanda gli sorse spontanea, forse perché lo stregone pretendeva che lui e Jace se ne restassero immobili in mezzo ad un marciapiede affollato di mondani come due ragazzi che fanno da pali durante una rapina. E il paragone no, non gli piaceva. «Perché sai, dopo questa tua uscita comincio a pensarlo.»

Il parabatai girò gli occhi verso il cielo. «Ti ricordo che stai parlando con un tizio che ruba tutto il possibile e immaginabile utilizzando la magia. Lui è il barone dell’illegalità.»

«Si tratta di un validissimo do ut des», lo rimbeccò Magnus. «Sono un acquirente. Mando avanti l’economia mondiale. Adesso non muovetevi e aspettatemi.» Si voltò e si diresse all’ingresso socchiuso del locale, sventagliando la mano oltre la spalla.

Quello che Jace fece, anziché cominciare a gironzolare per l’isolato come in altre occasioni avrebbe forse fatto, fu spostare il peso da una gamba all’altra e incrociare le braccia, gli occhi puntati dritti sull’insegna che troneggiava di fianco alla porta a vetro. «Ti dico cosa sta per succedere», disse a quel punto, le labbra sottili che si mossero giusto il necessario.

Alec alzò le sopracciglia, ma non lo guardò. Anche lui era concentrato sul nome che qualcuno dalla prorompente fantasia aveva dato a quelle quattro mura. «Sento le trombe squillare», dichiarò. «Comincia con l’insegna. “The Speed Tables”? Si organizzano corse clandestine fra tavoli? Questo sì che è da etero.»

«Di solito qui si entra con una prenotazione in mano», lo ignorò l’altro. Parlava a voce così bassa da dare l’impressione di masticare ogni sillaba fra i denti. «Ma dato che l’idea della tua perfetta giornata sull’altra sponda è nata solo ieri, di tempo per prenotare non ne ho avuto. Magnus ci farà ottenere l’ingresso.»

«Come?»

«Come? E dovrei saperlo?» Jace si voltò ad incrociare il suo sguardo. «Sa fare tante cose. Qualcosa gli verrà in mente. Potrebbe anche convincere le signorine alle casse mostrando loro qualcosa di magico

Calcò bene sull’ultima parola, perché Alec se la figurò come una grande bolla che si gonfiava con flemma ed eloquenza. Storse le labbra, per nulla divertito da quell’allusione decisamente maliziosa, e tornò a guardare l’ingresso scoprendosi in ansia. Gli ci volle meno di un secondo per decidere che a quell’attesa avrebbe preferito un’intera e frenetica battuta di caccia per le umide vie di Brooklyn. A quanto capiva c’era però la possibilità di non ottenere l’ingresso, e il pensiero non era male; Jace avrebbe dovuto pensare ad altro e forse ci avrebbe speso un’altra ora.

«Considerando che cominciano tra dieci minuti, siamo anche puntuali», osservò Jace dopo una pausa di silenzio. «Fai anche un quarto d’ora, il tempo per la gente di sedersi.»

Alec lo guardò con un cipiglio in cui una punta di allarmismo era la protagonista. «Cominciano cosa? E chi?»

«Ah», fece il biondo, e sfilò il sorriso più pacifico del mondo. Guardava verso l’ingresso. «Eccolo che arriva. A quanto pare ce l’abbiamo fatta.»

Magnus usciva in quel momento a passo leggero. Non si curò nemmeno di chiudersi la porta alle spalle, lasciandola platealmente spalancata. Sfoggiava una bella espressione di trionfo e, in una mano, un mazzo di tre targhette numerate. «Baciatemi i piedi!», esordì, trotterellando verso di loro. «Vi prego, niente autografi: ho smesso di firmarli più o meno quando è stata inventata la stampa. Avevano cominciato a girare troppe fotocopie delle mie dediche e i falsari sono diventati troppo ricchi.»

Jace nemmeno lo ascoltò. Si prese quel che aveva tra le dita e ci mise gli occhi addosso. Tre bei rettangoli di plastica con tanto di spilla dietro e un numero di fronte. «Va bene, hai fatto la tua parte. Quando cominciano?»

«Non l’ho chiesto», rispose lo stregone, «ma credo tra poco. Ho promesso alla signorina che saremo ospiti molto educati, per quanto ritardatari. Non voglio guai.»

«Non trovo niente di eccitante in questa moda malata dello speed dating, per cui nemmeno mi sentirai fiatare.» Si accorse di aver detto qualcosa di molto specifico e forse fu per questo che i suoi occhi corsero in quelli di Alec. «Vedi?» disse a quel punto, all’apparenza indifferente al pallore che aveva preso le guance del suo parabatai. «Niente a che fare con droga o prostituzione. È una cosa noiosamente legale.»

«Lo speed date?»

«Prenditi un numero, mettitelo addosso.» Jace gli piantò in mano una delle targhette e lasciò l’altra allo stregone. «Goditi il pomeriggio. Devi solo sederti ad un tavolo. Hai due minuti di tempo per convincere le ragazze che ti si siederanno di fronte che sei esageratamente, completamente e meravigliosamente etero al cento per cento.»

«Ci sistemeremo attorno», aggiunse Magnus. Il tono in cui lo disse era morbido, quasi stesse rincuorando un bambino alle prese con il suo primo giorno di scuola. Poi assunse un’espressione particolare, un misto di accoramento e affetto che rese tutto quanto ancor meno realistico, più assurdo di un teatrino di marionette. «Controlleremo la situazione. È una prova difficile, lo so, e per questo la facciamo con te, scoiattolo.»

Alec, che aveva ascoltato entrambi senza dire una parola, venne per un istante colto dalle vertigini. Per come gli avevano parlato, la sensazione era quella di essere un giovane in partenza per la guerra. Non era incoraggiante. Abbassò gli occhi sulla targhetta, vide che il numero che gli era toccato era un arzigogolato 8 e sollevò di nuovo lo sguardo.

«Devo farlo sul serio?» domandò. Con voce perfettamente articolata. «Jace, hai visto con i tuoi stessi occhi che sono a malapena in grado di attaccare bottone con una ragazza. Non puoi gettarmi in un recinto di femmine.»

«Stai pensando gay», rispose il parabatai in un tono quasi solenne. «Pensa etero

«Sai anche che nemmeno questo mi riesce molto bene. E poi cosa dovrei raccontare?»

Jace gli rovesciò addosso uno sguardo seccato. «Che ammazzi demoni. Che ti disegni ossessivamente dei ghirigori sul corpo. Che sei impegnato con uno insano stregone che organizza feste di compleanno per il suo gatto.» Poi, dopo una pausa: «Alec, inventati qualcosa. I mondani non si fanno tutti i problemi che ti fai tu. Consolati pensando che ti crederebbero un pazzo se cominciassi a parlare di mostri cattivi che girano per la città; la tua normalità dipenderà dalle stupidaggini che ti inventerai. Non so, un cane, una zia, la passione per i muffin ai frutti di bosco. Facile, no?»

Si mosse per primo verso l’ingresso con passo svelto e sbadato, senza aspettare una risposta che l’altro non avrebbe comunque avuto intenzione di dargli. Alec lo osservò per qualche istante prima di guardare Magnus, che si strinse nelle spalle con un sorrisetto, prese a giocherellare con la targhetta come se fosse una monetina e si avviò con fare tranquillo dietro al biondo. All’unico dei tre rimasto fermo in mezzo al marciapiede non rimase altro da fare che seguirlo.

Non era un brutto ambiente. Alec, che si era figurato quel locale più o meno alla stregua di un covo degli orrori, trovò invece qualcosa di piacevole nella luce soffusa che saliva dalle piccole lampade sistemate al centro dei tavolini ovali. Quel chiarore sbiadito era di certo un ottimo espediente per evitare che i tuoi ospiti si accorgessero di ogni minima espressione che assumevi. Una punto a favore.

Giusto poco dopo la porta, una signorina aveva consegnato a ognuno di loro un volantino blu notte. I caratteri argentati spiccavano con malizia sul cartoncino lucido.

 

Un caloroso benvenuto!

Due minuti, un futuro intero

 

Conosci la gente della tua vita,

vivi la gente che conosci!

 

«Trovo tutto ciò leggermente inquietante», osservò Alec, girando il cartoncino per leggere se ci fosse dell’altro scritto dietro. Scovò solo l’indirizzo del locale, il numero di telefono e l’e-mail. «I mondani si divertono sul serio con queste cose?»

«Esiste anche di peggio», mormorò Jace, guardandosi attorno. «Come la pesca di anatre di plastica nei parchi a tema.»

«O il body painting», s’intromise Magnus. «I patiti del genere vi fanno concorrenza, credetemi.»

La saletta tempestata da tutti quei tavoli si apriva solo oltre un bel paravento in legno. Forse per questa divisione fra ingresso e locale vero e proprio, Alec ebbe la spiacevole sensazione di salire su un palcoscenico.

C’era già della gente, nei paraggi. Alcuni chiacchieravano in piedi, altri si alzavano per fare una corsa al bar e ordinare qualcosa. C’erano poi persone già accomodate, che parlavano improvvisando sorrisi imbarazzati o risate dal retrogusto inaspettatamente meccanico tenendo un occhio sul cronometro digitale che occupava il loro tavolo. Il conto era di due minuti, come predetto da Jace, ed era alla rovescia.   

«Tre tavoli liberi», annunciò Jace, indicando un gomito della sala dove il traffico mondano era meno intenso. «Propongo un tuffo di massa.»

Alec prese il consiglio alla lettera e puntò dritto in quella direzione. Quando vide che gli altri due lo stavano seguendo, decise di giustificarsi. «Lasciatemi quello in mezzo. Penso che da lì sarei meno visibile.»

Il parabatai girò gli occhi verso il soffitto, ma non disse nulla. Riflettendo però su quante possibilità ci fossero che Alec vivesse quell’esperienza come un incubo, si sentì un po’ meglio. Non era un pensiero crudele, in fondo, soprattutto dopo che lo aveva abbandonato nelle mani di Magnus costringendolo a fare shopping con lui e a spacciarsi per il suo ragazzo. No, era semmai una meritata vendetta.

Si sistemarono. Alec si guadagnò il suo tavolino, scivolando a sedere con un occhio puntato verso Jace, che si accomodava al tavolo accanto, e l’altro a spiare invece Magnus, che aveva fatto suo il posto più a sinistra. Era in un certo senso rincuorante sapere di averli attorno, e lo era ancor più se pensava ai vantaggi che poteva trarne; un bel ragazzo biondo e un altro dai tratti asiatici che aspettavano in quel locale come i fiori aspettano le api. Aveva molte ragioni per credere che loro si sarebbero presi gran parte dell’attenzione di qualsiasi femmina che fosse transitata per quella zona. Cento volte meglio così.

Se n’era quasi convinto quando la prima ragazza che passò di lì toccò invece a lui.


* * *

 

Aveva lunghi capelli biondo cenere. Fu la prima cosa che notò non appena lei scivolò a sedere lì di fronte.

Allora Alec si era già guadagnato un bel frappé alla fragola. Doveva essere al tavolo da neanche quindici minuti e il destino non gli concedeva nemmeno il tempo di gustarsi quel meritato spuntino. Non che si aspettasse pietà da una giornata da spendere nel modo più etero possibile, ma aveva creduto che il cielo gli avrebbe almeno dato del tempo extra per prepararsi psicologicamente. E invece quella ragazza, senza dargli l’occasione di dire una sola lettera dell’alfabeto, aveva piantato la mano sul cronometro azionando il conto alla rovescia, fino a quel momento rimasto fermo sui sacrosanti 2:00. Così, come per ispirazione divina. Come se non avesse nulla di meglio da fare.

«Ciao, Otto», gli disse. Sempre sorridendo.

Il Nephilim rimase ad osservarla di sottecchi per qualche secondo. Aveva ancora la cannuccia del frappé infilata tra le labbra e la tizia non sembrava rendersi conto di avergli rovinato quel momento di pacifica degustazione. Quasi stentava a credere che ora avesse di fronte quel viso smaliziato che attendeva sfacciatamente una risposta. Poi planò di nuovo sulla realtà e si sfilò con calma la cannuccia dalla bocca. «Ciao.» Diede uno sguardo alla targhetta che aveva aggrappata alla camicia gialla, lì su una curva del seno. « ...Dodici», terminò, leggendo il suo numero.

«Che fai nella vita?» chiese lei, a bruciapelo. Aveva una gomma americana, da qualche parte nella bocca, perché i suoi denti masticavano.

Alec aprì le labbra per dire qualcosa, senza però riuscirci. Gli sembrava assurdamente fuori posto che una sconosciuta si fosse seduta lì davanti, peraltro ruminando come un lama, e gli avesse subito posto una domanda così personale. «Cosa?»

Lei assunse un cipiglio particolare, un leggero arcuarsi delle sopracciglia tracciate con la matita. «Sei ritardato?»

Era un dubbio sincero, e bastava guardarla in faccia. Da qualche parte, mascherato da un colpo di tosse ma chiaro come il sole, giunse il risolino di Jace. Il suono che ne conseguì fu qualcosa a metà strada fra uno starnazzo e un grugnito. Alec si convinse di non aver sentito niente.

«Come vuoi», resse al gioco, spostando appena il frappé. Era un modo per consegnarsi anima e corpo a quella mondana impertinente. «Sono un arciere.»

«Un arciere?»

«Sai cos’è un arciere? O sei ritardata

Mise su quella parola ogni briciola di se stesso. Tra le righe, la traduzione del tono che aveva impiegato si sarebbe avvicinata ad un deliziato Prendi questo, mondana. La ragazza fece una smorfia, si piegò per recuperare la borsetta e si alzò indignata, senza scordarsi di coronare l’uscita alzando in sua direzione un molto carismatico dito medio.

«Alexander», disse Magnus dal tavolo accanto. Si stava dondolando sulle gambe posteriori della sedia e gli sorrideva con un misto di ammirazione, resa e pazienza. «Credo tu abbia appena preso un po’ troppo alla lettera il significato della parola “speed date”. Quanti secondi è durata la vostra storia d’amore?»

Il Nephilim si riprese il suo frappé e fermò il cronometro, sospendendolo ancora sui due minuti. «Qualcuno dovrebbe spiegarmi le regole di questa stupidaggine», soffiò. Poi, gettando un’occhiata a Jace: «Il mio parabatai, ad esempio.»

«Tempo limite, domande dirette. Niente nomi; si usano i numeri», rispose quello. «Non vedo cosa ci sia di difficile.» Poi, quando si accorse che una ragazza stava puntando dritta verso di lui, alzò l’indice come a mettere chiunque in attesa e riportò le gambe composte sotto al tavolo, sfoggiando uno studiatissimo sorriso quando la mondana cominciò a sedersi.

Alec, che lo sbirciava, borbottò qualcosa e si dedicò al frappé. Se quelle erano le regole, nulla toglieva che fossero piuttosto stupide. Aveva almeno realizzato che la ragazza che gli era toccata non era sfacciata – almeno non troppo -, ma che porre domande nel modo più nudo e crudo possibile era esattamente parte del gioco. Non che cominciasse a sentirsi in colpa per com’erano andate le cose con la sua prima ospite; nulla toglieva che quella prima esperienza di speed dating fosse stata spiacevole.

Per dieci minuti buoni se ne rimase tranquillo. Sulla destra, Jace aveva già reimpostato il cronometro tre volte. Non passava mai troppo prima che un’altra ragazza adocchiasse il suo tavolo e gli si sistemasse di fronte. Non era però verso di lui che il parabatai guardava assiduamente, bensì verso Magnus. Poteva solo immaginare quali stramberie raccontasse alle mondane che avevano la sfortunata idea di accomodarsi con lui. Ogni tanto le sentiva ridere. Poi lo stregone cominciò ad impiegare i due minuti di tempo per allietare le sue ospiti con qualche ingenuo trucco di magia, e Alec, che aveva ormai terminato il suo frappé, avvertì un brivido di orrore infilarglisi nelle ossa.

Avrebbe cercato un modo per dissuaderlo da quell’insano passatempo se solo un’altra ragazza non si fosse seduta in quel momento al suo tavolo. Il Nephilim incrociò i suoi occhi nell’esatto secondo in cui la mano di lei faceva partire il conto alla rovescia.  

«Ciao, Otto», esordì.

Fu come un déjà-vu, con la differenza che ora non aveva un frappé con cui distrarsi. Il bicchierone era ormai vuoto e la cannuccia meticolosamente mordicchiata. Alec, con la testa ancora impostata sul terrore che Magnus esagerasse, si sforzò di sfilare un convincente seppur mezzo sorriso di benvenuto. «Ciao, Tredici.»

«Sei di qui?»

«Della zona. Tu?»

«Del Bronx. Magari vivessi a Brooklyn», rispose la ragazza. Sembrava annoiata, come se di appuntamenti di quel genere fosse assuefatta. O drogata, che era poi la stessa cosa. «Che fai di bello?»

«Intendi di lavoro?»

«Sì.»

«Non lavoro. Studio.»

«Cosa?»

Demonologia, lingue demoniache, bestiari. Sai, cose di tutti i giorni, pensò di poter rispondere. Poi, lavorando d’immaginazione: «Medicina.»

«Ah. Forte.»

Tredici era anche una bella mondana, oggettivamente parlando. L’idea che dava era però di superficialità, come se basasse la vita solo sulle cinque W: who, what, when, where, why? Esaminando la situazione, Alec si accorse che erano poi le colonne portanti di quella strana moda di conoscersi in due minuti. Poi si rese conto anche di un’altra cosa. Già. Soprattutto, Why?

«Senti», ricominciò la ragazza, guardandolo fisso, «non è che per caso sei interessato a una cosa veloce?»

«Una... cosa?»

«Una cosa», ripeté lei con terrificante naturalezza. «Sei piuttosto carino. Tra quanto ci troviamo?»

Allora lui capì che evidentemente esisteva anche la moda di rimorchiare in due minuti. Buttò un sbuffo, un sorriso incredulo e imbarazzato gli arricciò le labbra. «No, aspetta. Non mi sembra di averti detto di sì.»

Tredici corrugò la fronte. Non doveva essere abituata a ricevere un quattro di picche. “Tredici di targhetta e quattro di picche”; in un’altra occasione, Alec avrebbe contenuto l’insano istinto di mettersi a ridere.

«Quindi no?» chiese la mondana. «Cos’è, hai paura? Sei fidanzato?»

«Non sono il tipo.»

«Non sei il tipo.» La ragazza rimase ad osservarlo intensamente, poi si strinse nelle spalle. «Okay. Fa niente. Sarebbe stato fantastico, sei davvero figo. Vado all’altro tavolo.»

Così, come mandar giù una pastiglia. Si alzò nel frullio dei riccioli neri e marciò fino alla sedia successiva, sistemandosi in modo quasi imperioso davanti a

Magnus

«Oh, Magnus», borbottò Alec, e si inchiodò le mani in faccia pregando che Tredici non avesse portato con sé l’intento di fare anche a lui la stessa richiesta. Sentì Magnus attaccare bottone con quella spontaneità con cui sarebbe stato in grado di convincere persino una pietra al sesso al primo appuntamento. Lo stregone era di tutt’altra pasta; avrebbe senz’altro rifiutato – ovviamente, certo, per forza -, ma la ragazza avrebbe guardato a lui come ad un amante delle avventure di una notte. Cosa peraltro vera.

Cielo, quella situazione era così insensata. Quell’esperienza stava diventando un’intera, disastrosa follia.

Lasciandosi scivolare di dosso le mani, Alec vide che Jace salutava in quel momento una ragazza che si alzava dal suo tavolo. Il suo parabatai era bravo a tenere in scacco le mondane per i due minuti previsti dall’appuntamento. Non c’era nulla di sconvolgente nella conclusione che fosse lui il migliore in quella disciplina: aveva una generosa dose di carisma, seminava testosterone nell’aria e sopra ogni cosa era infinitamente etero. Anche se, viva la sincerità, Alec sapeva che non gli sarebbe andata meglio nemmeno se quella sessione di speed dating fosse stata dedicata alla sponda opposta.

Quando vide Jace alzare gli occhi verso di lui, non perse tempo e indicò l’uscita con un cenno del capo. Fuori di qui, gli disse con lo sguardo, le labbra serrate in un’espressione urgente ed esasperata. Fuori. Adesso.

«Non posso credere che tu non riesca a tenere una ragazza al tuo tavolo nemmeno per due minuti», gli rispose a voce il parabatai, puntellando i palmi delle mani sul tavolo per potersi dondolare sulla sedia. «Anzi, aspetta: ci credo.»

L’altro lo guardò. Lo sdegno che gli si era incollato in faccia aveva un che di plateale. «Questa cosa ci è un po’ scappata di mano, se noti.»

«Ehi», s’intrufolò con un sorriso Magnus, posando il gomito sullo schienale e voltandosi verso di loro. Aveva gettato il pollice ad indicare Tredici, che si era alzata e galoppava verso un altro tavolo. «La mondana mi ha appena proposto una...»

«Okay, lo so, non dirlo», si precipitò Alec.

«Cosa?» domandò Jace.

«Tu stanne fuori.»

«Io mi sto divertendo.»

«Io no.»

«Lo so», rispose Jace. «Non tutte le giornate di noi etero sono allegre. Hai la mia comprensione.»

«Andiamo.» Alec si alzò senza nemmeno preoccuparsi di reimpostare il cronometro.

Magnus rimase a guardarlo mentre si chinava per recuperare la borsa. C’era una spolverata di delusione nella curva che le sue labbra avevano assunto. «Cosa? Ti arrendi? Siamo qui dentro da soli trenta minuti», annunciò, sollevando le sopracciglia. «Per vostra informazione ho pagato per un’ora.»

«Magnus, per favore», disse Jace, che ancora non aveva smesso di dondolarsi sulla sedia. «Non hai sborsato neanche un dollaro. Le mondane ci hanno fatto entrare gratis e non so neanche come hai fatto a convincerle. Non che voglia saperlo. L’unica cosa che hai pagato è il frappé di Alec.»

«Appunto. Un frappé che nelle mie intenzioni doveva durare un’ora.»

«Magnus», gemette Alec, quasi una supplica. «Alzati e usciamo.»

Alzò gli occhi al soffitto e si diresse verso la porta, schivando il viavai di chi si alzava e si spostava di tavolo in tavolo. Il parabatai e lo stregone si scambiarono un’occhiata prima di arrendersi all’idea di seguirlo.

Lasciarono al banco le targhette numerate e due minuti più tardi erano sul marciapiede. Per la prima volta in vita sua, il rumore del traffico e della vita mondana giunse alle orecchie di Alec come il piacevole scampanellio del collare di un agnello.

«Non esiste un solo frappé al mondo che duri un’ora, comunque», disse, rivolto a Magnus. La luce del sole rivelò le chiazze rosse che gli accendevano appena le guance. Era una fortuna che quel locale fosse strategicamente dominato dalla semioscurità. «Giusto perché tu lo sappia.»

Jace fece un sorrisetto. «Mai dire mai. Ad esempio fino ad oggi io non credevo possibile che un appuntamento potesse durare meno di due minuti.»

Alec gli rovesciò addosso un’espressione omicida prima di incamminarsi. Decise saggiamente di non rilasciare commenti. Sentiva di avere una ragnatela di parole in testa, con il problema che non si trattava di frasi educate. Le uniche sillabe che gli sbocciavano con nitidezza dietro la fronte formavano un mantra che recitava qualcosa come porca merda, porca merda, ancora porca merda, ma voleva conservare una certa pulizia, in bocca. Non se le sarebbe lasciate sfuggire anche se la tentazione avesse raggiunto l’apice.

«Avevo scommesso con tua sorella che non te la saresti cavata», rivelò ad un certo punto Magnus. «Ho ufficialmente vinto. Ragazze, tempo limite, appuntamento; Alexander, eri spacciato fin dall’inizio.»

«Stai tranquillo», rispose Alec. «Non ho creduto in me stesso neanche per un istante. La tua assenza di appoggio non ha quindi cambiato le cose.»

«Quanto sei dolce.»

«Devo venire un attimo a casa tua.»

Lo stregone arrangiò un bel sorriso da furfante. «Dimmelo ancora.»

«Hai capito benissimo. Dobbiamo fare una cosa.»

«Se è la cosa che la mondana mi ha proposto, allora è un sì.»

«Non è la cosa di Tredici.»

Lo disse con così tanta prontezza da lasciare Magnus di stucco. «Non vuoi fare Tredici con me?» chiese, sinceramente dispiaciuto.

Jace, che camminava davanti a loro di qualche passo, borbottò qualcosa. Pretese di non star ascoltando nulla di quello che si stavano dicendo.

«Devo preparare il prossimo turno», rispose Alec. Si era quasi irrigidito tant’era palese lo sforzo che stava facendo per ignorare la sua malizia. «Dovrai darmi una mano. Jace, ti voglio a casa di Magnus alle cinque esatte.»

Il parabatai sventolò la mano oltre la spalla in segno di assenso, ma non si voltò. «Prendetevi tutto il tempo che vi serve», concesse. «Non ho fretta.»

«Sentito?», di tuffò lo stregone. «Non ha fretta.»

«Io sì», disse Alec. C’erano già alcune idee a frullargli in testa, ma dubitava che ne esistesse una in grado di far assaggiare a Jace la vendetta che si meritava. Forse qualcosa... in un modo o nell’altro... Qualcosa. «Io ne ho parecchia.»   

Oh, Raziel, perché?


Pensate a questo capitolo come a un sogno a occhi aperti. Mi spiego; entrate in questo locale, uno di quelli che organizzano queste sessione di speed dating, e scoprite che in un angolo della sala, messi un po' in disparte ma più che visibili, ci sono questi tre. Io morirei.
Sì, sarebbe davvero forte. Io mi fionderei immediatamente al tavolo di Magnus, credo (ammesso che non sia già occupato; nella mia immaginazione, quel posto a sedere è -perennemente- presidiato da un'altra ragazza), o da Alec. Ah, c'è anche Jace. Ehm, tanto ormai sapete cosa penso di lui - di fianco agli altri due, sfiorisce (?) Jace, tanto amore per te <3

Agosto è stato un mese intensissimo. Figuratevi che sono di fretta pure ora che sto scrivendo, perché tra un'ora dovrei essere al lavoro e invece sono qui a fantasticare su un mio incontro con questo trio in un locale di speed dating. AHAH
Dopo aver concluso il capitolo, mi sono ripromessa di concentrarmi sulla storia che devo stendere per un Contest. Non riesco a scrivere due cose contemporaneamente, non se ne parla e non se ne parlerà mai. Ho sempre paura di, sapete, confondere le atmosfere, le idee, il tono e il colore della narrazione. Per cui, non appena terminerò il lavoro per il racconto, tornerò con il prossimo capitolo. Non morirò; la pagina su FB vi terrà aggiornati, se vorrete.
Un enorme bacio <3

Dew_








   
 
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