5. Corse clandestine fra tavoli... o no?
«Credo
mi stia un po’ stretta», disse Alec.
Jace gli indirizzò un’alzata di sopracciglia.
Se ne stava seduto sul divano, al centro, le mani tra le ginocchia e l’espressione
contesa fra sarcasmo e insofferenza. «A me sta larga e a te stretta? Pensavo
che il tuo fiuto per il vestiario fosse infallibile, Magnus.»
Lo stregone si lasciò passare le sue parole da
un orecchio all’altro. Rimase semplicemente fermo in mezzo al salotto, quasi
non avesse ancora realizzato di avere ospiti a casa propria. Si era sistemato il
mento fra pollice ed indice e scrutava Alec senza battere ciglio, con gli occhi
stretti in un indizio di intensa concentrazione, come a chiedersi come diavolo
fosse possibile che il suo ragazzo se ne fosse uscito con un annuncio simile.
Poi, in tono convinto e professionale:
«La taglia è giusta. È solo il modello.»
«Il modello?»
«Le giacche hanno modelli diversi, Jace.
Questa ha le spalle strette; è fatta così.»
Alec guardò prima uno e poi l’altro e decise
di trattenersi dal rilasciare dichiarazioni. Erano a casa di Magnus da quasi
un’ora e l’orologio a forma di gufo segnava ormai le tre del pomeriggio. Ancora
nessuno gli aveva detto perché mai dovesse andarsene in giro con addosso una
giacca del genere, ma la consapevolezza che non avrebbe ottenuto delle risposte
bastava a farlo desistere dal domandare delucidazioni. L’unica cosa che fece, se
non altro preferibile al farsi coinvolgere dai discorsi del parabatai e dello
stregone, fu di voltarsi verso lo specchio a figura intera che Magnus aveva fatto
comparire nel salotto.
La giacca, lo ammetteva, gli stava anche bene.
Era di un blu poco più chiaro di quello degli occhi, ma era un dettaglio
trascurabile, senz’altro secondario. A preoccuparlo era l’estrema eleganza dei
bottoni e del colletto, con una nota di merito per la tasca in cui, parola
dell’esperto, avrebbe potuto mettere un bel fazzoletto di seta. L’unica cosa
che lo rincuorava era l’assenza di Izzy, rimasta all’istituto con Clary. Per il
resto c’erano cose che stonavano, una vaga eppur percepibile puzza di bruciato.
E non era il classico e intrigante aroma di fiammiferi accesi che Magnus si
lasciava dietro.
«Come vuoi», concedeva Jace nel frattempo. «Adesso
devi pettinarti, Alec.»
Alec gli girò addosso lo sguardo sorpreso e
instupidito di chi riceve uno schiaffo dietro la nuca. «Cosa?»
«Oh, Raziel.» Poi, impietosamente: «Magnus,
pettinalo.»
«Magnus non farà proprio niente!»
«Io pettinarlo?» chiese lo stregone. «È più
facile pettinare il Presidente.»
Jace arcuò un sopracciglio. «Il Presidente non
ha i capelli.»
«Questo è quello che credi tu.»
«La mia testa è sufficientemente in ordine», s’impuntò
Alec. Si allontanò dallo specchio e cadde a sedere sul divano, chinandosi in
avanti per recuperare le scarpe. «Non sto uscendo per un appuntamento. Devo
solo fare qualcosa di cui il mio parabatai non mi ha ancora detto niente.»
Aveva già preso a sistemare le stringhe in
modo disordinato e precipitoso quando si rese conto del silenzio caduto
all’improvviso attorno. Si arrestò con uno dei lacci in mano e alzò la testa, uno
spruzzo di ciuffi neri a pizzicargli la fronte e gli occhi che corsero a Jace
in poco meno di un secondo. Capì, più per intuito che per altro, che la puzza
di bruciato era diventata più concreta. Fisica.
«Non sto uscendo per un appuntamento, vero?»
chiese, in tono cauto.
«No», rispose Magnus. La sua faccia, forse per
colpa del leggero sorriso che gli arricciava le labbra, prometteva una
spiegazione che invece non ci fu. Le parole che seguirono valsero solo come il
minuscolo assaggio di qualcos’altro lasciato tra le righe. «Non definirei
troppo corretta questa frase, in effetti.»
«Ma?»
«Ma devi pettinarti», s’intromise Jace, e si
alzò senza preavviso, piantandosi in viso un’espressione di artificioso e
divertito dispiacere. «Sai come si dice dalle nostre parti: dura lex, sed lex.»
Alec sembrò prendere in considerazione l’idea
di rispondergli per le rime, preferibilmente riciclando per l’occasione qualche
altro bel detto in latino. Alla fine borbottò qualcosa, terminò con foga di
affrancarsi le stringhe e si allungò sul divano per recuperare dal mobile una
borsa nera. «Evitate di farmi commentare questa situazione, o la sola parola
che mi verrebbe in mente sarebbe “pluriomicidio”.»
«Perché la borsa? Non stiamo andando in gita.
Devi portarti dietro dei panini?»
«È una borsa da uomo», spiegò a quel punto
Magnus dando uno sguardo fiero e deliziato ad Alec, che si alzava dal divano. «Ed
è assolutamente perfetta per quella giacca. Aspetta, non dire niente: sei un
po’ troppo barbaro per poter commentare. Fidati e basta.»
Jace fece una smorfia mentre si voltava per
raggiungere la porta. «Preferirei giocare a bingo con dei pinguini piuttosto
che fidarmi dei tuoi gusti in fattore di moda.»
«E perderesti, perché i pinguini sono ottimi
giocatori.» Lo stregone sventagliò la mano in sua direzione come se quel gesto
valesse a scacciarlo, poi agganciò il braccio di Alec e lo spinse in avanti,
verso l’uscio. Le sue dita si mossero in uno sfarfallio e i capelli del
Nephilim scivolarono indietro, quasi un pettine li avesse finalmente
addomesticati. «Non starlo a sentire», mormorò poi, mentre si spostavano verso
la porta. «È solo geloso.»
«Puoi almeno dirmi perché anche voi siete
vestiti di tutto punto?»
Era una piccola esagerazione, soprattutto se
si teneva in conto che Jace indossava solo abiti meno inquietanti del solito e
che Magnus si era messo addosso un completo arancione, ma il fatto restava. In
fin dei conti il suo parabatai sembrava essersi sistemato a dovere, almeno
secondo i suoi standard di puntigliosa semplicità, e lo stregone aveva
giustificato la scelta del proprio abbigliamento dicendo di voler dare una
buona impressione – ammesso e non concesso che si potesse fare bella figura
assomigliando ad un’arancia ambulante, rifletteva Alec.
Magnus alzò gli occhi senza lasciare da parte
quel suo sorrisetto zuccherato. «Perché si tratta di una cosa che dobbiamo fare
anche noi due se la fai tu, Alexander. Non potremmo restare a guardare,
capisci?»
Alec capì solo che là dentro poteva benissimo
starci un messaggio poco casto. Si guardò dal farlo intendere. «Tutti e tre?»
«Tutti e tre. Vuoi un indizio?»
«Farebbe comodo.»
«Ci saranno dei numeri.»
«Ah», fece il Nephilim. Fu la sola cosa che
gli uscì mentre Magnus schioccava le dita e la porta dell’appartamento si chiudeva
alle loro spalle. Quanto a Jace, li aspettava in fondo alle scale, le mani
affondate nelle tasche della giacca nera e gli occhi alzati verso di loro.
«Romeo e Giulietta, muovetevi.»
«Jace, non vedo cosa ci sia di etero nel gioco
della tombola», gli disse Alec. Era un bel tentativo per sdrammatizzare.
Il parabatai lo guardò dal basso con una certa
intensità prima di rivolgersi a Magnus. «Gli hai detto dei numeri?»
«Che intuito, Herondale!»
«La tombola non c’entra. È un gioco per
vecchi.» Jace fece un sorrisetto, uno di quelli improvvisi, uno di quelli che
sapevano davvero di bruciato. «Noi
andiamo a fare una cosa per giovani.»
Si voltò senza aggiungere altro e uscì dal
portone, svanendo nella luce del giorno.
«Non posso crederci», disse Magnus. Si era arrestato
sulle scale e la sua espressione sarebbe potuta passare per sincera
indignazione. «Alexander, credo che il tuo parabatai mi abbia appena scaricato.
Escluso.»
Alec, che stava scendendo con lui gli ultimi
gradini e si era fermato a sua volta, corrugò la fronte. «Non sei vecchio.»
Poi, nel tono di una correzione e con un certo imbarazzo: «Almeno, non troppo.»
«Dimentichi che, facendo quattro conti, potrei
essere andato a letto con qualcuno dei tuoi avi.»
«Tu cosa?»
«Sto scherzando. Sei troppo suscettibile.» Lo
stregone buttò un sospiro in cui si srotolò una mezza risata e riprese a
scendere, costringendo il Nephilim a fare altrettanto.
* * *
La prima cosa che Alec pensò di fronte al
locale fu che all’apparenza sembrava inoffensivo. Il primo ripensamento arrivò
quando Magnus disse loro di aspettare fuori.
«Ho bisogno di essere persuasivo», si
giustificò, «e con voi due attorno non credo di poterci riuscire.»
«È illegale?» chiese Alec. La domanda gli
sorse spontanea, forse perché lo stregone pretendeva che lui e Jace se ne
restassero immobili in mezzo ad un marciapiede affollato di mondani come due ragazzi
che fanno da pali durante una rapina. E il paragone no, non gli piaceva. «Perché
sai, dopo questa tua uscita comincio a pensarlo.»
Il parabatai girò gli occhi verso il cielo. «Ti
ricordo che stai parlando con un tizio che ruba tutto il possibile e
immaginabile utilizzando la magia. Lui è il barone dell’illegalità.»
«Si tratta di un validissimo do ut des», lo rimbeccò Magnus. «Sono un
acquirente. Mando avanti l’economia mondiale. Adesso non muovetevi e
aspettatemi.» Si voltò e si diresse all’ingresso socchiuso del locale,
sventagliando la mano oltre la spalla.
Quello che Jace fece, anziché cominciare a
gironzolare per l’isolato come in altre occasioni avrebbe forse fatto, fu
spostare il peso da una gamba all’altra e incrociare le braccia, gli occhi
puntati dritti sull’insegna che troneggiava di fianco alla porta a vetro. «Ti
dico cosa sta per succedere», disse a quel punto, le labbra sottili che si
mossero giusto il necessario.
Alec alzò le sopracciglia, ma non lo guardò. Anche
lui era concentrato sul nome che qualcuno dalla prorompente fantasia aveva dato
a quelle quattro mura. «Sento le trombe squillare», dichiarò. «Comincia con
l’insegna. “The Speed Tables”? Si organizzano
corse clandestine fra tavoli? Questo sì che è da etero.»
«Di solito qui si entra con una prenotazione
in mano», lo ignorò l’altro. Parlava a voce così bassa da dare l’impressione di
masticare ogni sillaba fra i denti. «Ma dato che l’idea della tua perfetta
giornata sull’altra sponda è nata solo ieri, di tempo per prenotare non ne ho
avuto. Magnus ci farà ottenere l’ingresso.»
«Come?»
«Come? E dovrei saperlo?» Jace si voltò ad
incrociare il suo sguardo. «Sa fare tante cose. Qualcosa gli verrà in mente. Potrebbe
anche convincere le signorine alle casse mostrando loro qualcosa di magico.»
Calcò bene sull’ultima parola, perché Alec se
la figurò come una grande bolla che si gonfiava con flemma ed eloquenza. Storse
le labbra, per nulla divertito da quell’allusione decisamente maliziosa, e
tornò a guardare l’ingresso scoprendosi in ansia. Gli ci volle meno di un
secondo per decidere che a quell’attesa avrebbe preferito un’intera e frenetica
battuta di caccia per le umide vie di Brooklyn. A quanto capiva c’era però la
possibilità di non ottenere l’ingresso, e il pensiero non era male; Jace
avrebbe dovuto pensare ad altro e forse ci avrebbe speso un’altra ora.
«Considerando che cominciano tra dieci minuti,
siamo anche puntuali», osservò Jace dopo una pausa di silenzio. «Fai anche un
quarto d’ora, il tempo per la gente di sedersi.»
Alec lo guardò con un cipiglio in cui una
punta di allarmismo era la protagonista. «Cominciano cosa? E chi?»
«Ah», fece il biondo, e sfilò il sorriso più
pacifico del mondo. Guardava verso l’ingresso. «Eccolo che arriva. A quanto
pare ce l’abbiamo fatta.»
Magnus usciva in quel momento a passo leggero.
Non si curò nemmeno di chiudersi la porta alle spalle, lasciandola platealmente
spalancata. Sfoggiava una bella espressione di trionfo e, in una mano, un mazzo
di tre targhette numerate. «Baciatemi i piedi!», esordì, trotterellando verso
di loro. «Vi prego, niente autografi: ho smesso di firmarli più o meno quando è
stata inventata la stampa. Avevano cominciato a girare troppe fotocopie delle
mie dediche e i falsari sono diventati troppo ricchi.»
Jace nemmeno lo ascoltò. Si prese quel che
aveva tra le dita e ci mise gli occhi addosso. Tre bei rettangoli di plastica
con tanto di spilla dietro e un numero di fronte. «Va bene, hai fatto la tua
parte. Quando cominciano?»
«Non l’ho chiesto», rispose lo stregone, «ma
credo tra poco. Ho promesso alla signorina che saremo ospiti molto educati, per
quanto ritardatari. Non voglio guai.»
«Non trovo niente di eccitante in questa moda
malata dello speed dating, per cui nemmeno mi sentirai fiatare.» Si accorse di
aver detto qualcosa di molto specifico e forse fu per questo che i suoi occhi
corsero in quelli di Alec. «Vedi?» disse a quel punto, all’apparenza
indifferente al pallore che aveva preso le guance del suo parabatai. «Niente a
che fare con droga o prostituzione. È una cosa noiosamente legale.»
«Lo
speed date?»
«Prenditi un numero, mettitelo addosso.» Jace
gli piantò in mano una delle targhette e lasciò l’altra allo stregone. «Goditi
il pomeriggio. Devi solo sederti ad un tavolo. Hai due minuti di tempo per
convincere le ragazze che ti si siederanno di fronte che sei esageratamente,
completamente e meravigliosamente etero al cento per cento.»
«Ci sistemeremo attorno», aggiunse Magnus. Il
tono in cui lo disse era morbido, quasi stesse rincuorando un bambino alle
prese con il suo primo giorno di scuola. Poi assunse un’espressione
particolare, un misto di accoramento e affetto che rese tutto quanto ancor meno
realistico, più assurdo di un teatrino di marionette. «Controlleremo la
situazione. È una prova difficile, lo so, e per questo la facciamo con te,
scoiattolo.»
Alec, che aveva ascoltato entrambi senza dire
una parola, venne per un istante colto dalle vertigini. Per come gli avevano
parlato, la sensazione era quella di essere un giovane in partenza per la
guerra. Non era incoraggiante. Abbassò gli occhi sulla targhetta, vide che il
numero che gli era toccato era un arzigogolato 8 e sollevò di nuovo lo sguardo.
«Devo farlo sul serio?» domandò. Con voce
perfettamente articolata. «Jace, hai visto con i tuoi stessi occhi che sono a
malapena in grado di attaccare bottone con una ragazza. Non puoi gettarmi in un
recinto di femmine.»
«Stai pensando gay», rispose il parabatai in
un tono quasi solenne. «Pensa etero.»
«Sai anche che nemmeno questo mi riesce molto
bene. E poi cosa dovrei raccontare?»
Jace gli rovesciò addosso uno sguardo seccato.
«Che ammazzi demoni. Che ti disegni ossessivamente dei ghirigori sul corpo. Che
sei impegnato con uno insano stregone che organizza feste di compleanno per il
suo gatto.» Poi, dopo una pausa: «Alec, inventati qualcosa. I mondani non si
fanno tutti i problemi che ti fai tu. Consolati pensando che ti crederebbero un
pazzo se cominciassi a parlare di mostri cattivi che girano per la città; la
tua normalità dipenderà dalle stupidaggini che ti inventerai. Non so, un cane,
una zia, la passione per i muffin ai frutti di bosco. Facile, no?»
Si mosse per primo verso l’ingresso con passo
svelto e sbadato, senza aspettare una risposta che l’altro non avrebbe comunque
avuto intenzione di dargli. Alec lo osservò per qualche istante prima di
guardare Magnus, che si strinse nelle spalle con un sorrisetto, prese a
giocherellare con la targhetta come se fosse una monetina e si avviò con fare
tranquillo dietro al biondo. All’unico dei tre rimasto fermo in mezzo al
marciapiede non rimase altro da fare che seguirlo.
Non era un brutto ambiente. Alec, che si era
figurato quel locale più o meno alla stregua di un covo degli orrori, trovò invece
qualcosa di piacevole nella luce soffusa che saliva dalle piccole lampade
sistemate al centro dei tavolini ovali. Quel chiarore sbiadito era di certo un
ottimo espediente per evitare che i tuoi ospiti si accorgessero di ogni minima
espressione che assumevi. Una punto a favore.
Giusto poco dopo la porta, una signorina aveva
consegnato a ognuno di loro un volantino blu notte. I caratteri argentati
spiccavano con malizia sul cartoncino lucido.
Un caloroso
benvenuto!
Due
minuti, un futuro intero
Conosci la gente della tua vita,
vivi la gente che conosci!
«Trovo tutto ciò leggermente inquietante»,
osservò Alec, girando il cartoncino per leggere se ci fosse dell’altro scritto
dietro. Scovò solo l’indirizzo del locale, il numero di telefono e l’e-mail. «I
mondani si divertono sul serio con queste cose?»
«Esiste anche di peggio», mormorò Jace,
guardandosi attorno. «Come la pesca di anatre di plastica nei parchi a tema.»
«O il body painting», s’intromise Magnus. «I
patiti del genere vi fanno concorrenza, credetemi.»
La saletta tempestata da tutti quei tavoli si
apriva solo oltre un bel paravento in legno. Forse per questa divisione fra
ingresso e locale vero e proprio, Alec ebbe la spiacevole sensazione di salire
su un palcoscenico.
C’era già della gente, nei paraggi. Alcuni
chiacchieravano in piedi, altri si alzavano per fare una corsa al bar e
ordinare qualcosa. C’erano poi persone già accomodate, che parlavano
improvvisando sorrisi imbarazzati o risate dal retrogusto inaspettatamente
meccanico tenendo un occhio sul cronometro digitale che occupava il loro
tavolo. Il conto era di due minuti, come predetto da Jace, ed era alla
rovescia.
«Tre tavoli liberi», annunciò Jace, indicando
un gomito della sala dove il traffico mondano era meno intenso. «Propongo un
tuffo di massa.»
Alec prese il consiglio alla lettera e puntò
dritto in quella direzione. Quando vide che gli altri due lo stavano seguendo,
decise di giustificarsi. «Lasciatemi quello in mezzo. Penso che da lì sarei
meno visibile.»
Il parabatai girò gli occhi verso il soffitto,
ma non disse nulla. Riflettendo però su quante possibilità ci fossero che Alec
vivesse quell’esperienza come un incubo, si sentì un po’ meglio. Non era un
pensiero crudele, in fondo, soprattutto dopo che lo aveva abbandonato nelle mani
di Magnus costringendolo a fare shopping con lui e a spacciarsi per il suo
ragazzo. No, era semmai una meritata vendetta.
Si sistemarono. Alec si guadagnò il suo
tavolino, scivolando a sedere con un occhio puntato verso Jace, che si
accomodava al tavolo accanto, e l’altro a spiare invece Magnus, che aveva fatto
suo il posto più a sinistra. Era in un certo senso rincuorante sapere di averli
attorno, e lo era ancor più se pensava ai vantaggi che poteva trarne; un bel
ragazzo biondo e un altro dai tratti asiatici che aspettavano in quel locale
come i fiori aspettano le api. Aveva molte ragioni per credere che loro si
sarebbero presi gran parte dell’attenzione di qualsiasi femmina che fosse
transitata per quella zona. Cento volte meglio così.
Se n’era quasi convinto quando la prima
ragazza che passò di lì toccò invece a lui.
* * *
Aveva lunghi capelli biondo cenere. Fu la prima
cosa che notò non appena lei scivolò a sedere lì di fronte.
Allora Alec si era già guadagnato un bel frappé
alla fragola. Doveva essere al tavolo da neanche quindici minuti e il destino
non gli concedeva nemmeno il tempo di gustarsi quel meritato spuntino. Non che
si aspettasse pietà da una giornata da spendere nel modo più etero possibile,
ma aveva creduto che il cielo gli avrebbe almeno dato del tempo extra per
prepararsi psicologicamente. E invece quella ragazza, senza dargli l’occasione
di dire una sola lettera dell’alfabeto, aveva piantato la mano sul cronometro
azionando il conto alla rovescia, fino a quel momento rimasto fermo sui
sacrosanti 2:00. Così, come per ispirazione divina. Come se non avesse nulla di
meglio da fare.
«Ciao, Otto», gli disse. Sempre sorridendo.
Il Nephilim rimase ad osservarla di sottecchi
per qualche secondo. Aveva ancora la cannuccia del frappé infilata tra le
labbra e la tizia non sembrava rendersi conto di avergli rovinato quel momento
di pacifica degustazione. Quasi stentava a credere che ora avesse di fronte
quel viso smaliziato che attendeva sfacciatamente una risposta. Poi planò di
nuovo sulla realtà e si sfilò con calma la cannuccia dalla bocca. «Ciao.» Diede
uno sguardo alla targhetta che aveva aggrappata alla camicia gialla, lì su una
curva del seno. « ...Dodici», terminò, leggendo il suo numero.
«Che fai nella vita?» chiese lei, a
bruciapelo. Aveva una gomma americana, da qualche parte nella bocca, perché i
suoi denti masticavano.
Alec aprì le labbra per dire qualcosa, senza
però riuscirci. Gli sembrava assurdamente fuori posto che una sconosciuta si
fosse seduta lì davanti, peraltro ruminando come un lama, e gli avesse subito posto
una domanda così personale. «Cosa?»
Lei assunse un cipiglio particolare, un
leggero arcuarsi delle sopracciglia tracciate con la matita. «Sei ritardato?»
Era un dubbio sincero, e bastava guardarla in
faccia. Da qualche parte, mascherato da un colpo di tosse ma chiaro come il
sole, giunse il risolino di Jace. Il suono che ne conseguì fu qualcosa a metà
strada fra uno starnazzo e un grugnito. Alec si convinse di non aver sentito
niente.
«Come vuoi», resse al gioco, spostando appena
il frappé. Era un modo per consegnarsi anima e corpo a quella mondana
impertinente. «Sono un arciere.»
«Un arciere?»
«Sai cos’è un arciere? O sei ritardata?»
Mise su quella parola ogni briciola di se
stesso. Tra le righe, la traduzione del tono che aveva impiegato si sarebbe
avvicinata ad un deliziato Prendi questo,
mondana. La ragazza fece una smorfia, si piegò per recuperare la borsetta e
si alzò indignata, senza scordarsi di coronare l’uscita alzando in sua
direzione un molto carismatico dito medio.
«Alexander», disse Magnus dal tavolo accanto.
Si stava dondolando sulle gambe posteriori della sedia e gli sorrideva con un
misto di ammirazione, resa e pazienza. «Credo tu abbia appena preso un po’
troppo alla lettera il significato della parola “speed date”. Quanti secondi è
durata la vostra storia d’amore?»
Il Nephilim si riprese il suo frappé e fermò
il cronometro, sospendendolo ancora sui due minuti. «Qualcuno dovrebbe
spiegarmi le regole di questa stupidaggine», soffiò. Poi, gettando un’occhiata
a Jace: «Il mio parabatai, ad esempio.»
«Tempo limite, domande dirette. Niente nomi;
si usano i numeri», rispose quello. «Non vedo cosa ci sia di difficile.» Poi,
quando si accorse che una ragazza stava puntando dritta verso di lui, alzò
l’indice come a mettere chiunque in attesa e riportò le gambe composte sotto al
tavolo, sfoggiando uno studiatissimo sorriso quando la mondana cominciò a
sedersi.
Alec, che lo sbirciava, borbottò qualcosa e si
dedicò al frappé. Se quelle erano le regole, nulla toglieva che fossero
piuttosto stupide. Aveva almeno realizzato che la ragazza che gli era toccata
non era sfacciata – almeno non troppo -, ma che porre domande nel modo più nudo
e crudo possibile era esattamente parte del gioco. Non che cominciasse a
sentirsi in colpa per com’erano andate le cose con la sua prima ospite; nulla
toglieva che quella prima esperienza di speed dating fosse stata spiacevole.
Per dieci minuti buoni se ne rimase
tranquillo. Sulla destra, Jace aveva già reimpostato il cronometro tre volte.
Non passava mai troppo prima che un’altra ragazza adocchiasse il suo tavolo e
gli si sistemasse di fronte. Non era però verso di lui che il parabatai guardava
assiduamente, bensì verso Magnus. Poteva solo immaginare quali stramberie
raccontasse alle mondane che avevano la sfortunata idea di accomodarsi con lui.
Ogni tanto le sentiva ridere. Poi lo stregone cominciò ad impiegare i due
minuti di tempo per allietare le sue ospiti con qualche ingenuo trucco di magia,
e Alec, che aveva ormai terminato il suo frappé, avvertì un brivido di orrore
infilarglisi nelle ossa.
Avrebbe cercato un modo per dissuaderlo da
quell’insano passatempo se solo un’altra ragazza non si fosse seduta in quel
momento al suo tavolo. Il Nephilim incrociò i suoi occhi nell’esatto secondo in
cui la mano di lei faceva partire il conto alla rovescia.
«Ciao, Otto», esordì.
Fu come un déjà-vu, con la differenza che ora
non aveva un frappé con cui distrarsi. Il bicchierone era ormai vuoto e la
cannuccia meticolosamente mordicchiata. Alec, con la testa ancora impostata sul
terrore che Magnus esagerasse, si sforzò di sfilare un convincente seppur mezzo
sorriso di benvenuto. «Ciao, Tredici.»
«Sei di qui?»
«Della zona. Tu?»
«Del Bronx. Magari vivessi a Brooklyn»,
rispose la ragazza. Sembrava annoiata, come se di appuntamenti di quel genere
fosse assuefatta. O drogata, che era poi la stessa cosa. «Che fai di bello?»
«Intendi di lavoro?»
«Sì.»
«Non lavoro. Studio.»
«Cosa?»
Demonologia,
lingue demoniache, bestiari. Sai, cose di tutti i giorni, pensò di poter rispondere. Poi, lavorando
d’immaginazione: «Medicina.»
«Ah. Forte.»
Tredici era anche una bella mondana,
oggettivamente parlando. L’idea che dava era però di superficialità, come se
basasse la vita solo sulle cinque W: who, what, when, where, why? Esaminando la situazione, Alec si
accorse che erano poi le colonne portanti di quella strana moda di conoscersi
in due minuti. Poi si rese conto anche di un’altra cosa. Già. Soprattutto, Why?
«Senti», ricominciò la ragazza, guardandolo
fisso, «non è che per caso sei interessato a una cosa veloce?»
«Una... cosa?»
«Una cosa», ripeté lei con terrificante
naturalezza. «Sei piuttosto carino. Tra quanto ci troviamo?»
Allora lui capì che evidentemente esisteva
anche la moda di rimorchiare in due minuti. Buttò un sbuffo, un sorriso
incredulo e imbarazzato gli arricciò le labbra. «No, aspetta. Non mi sembra di
averti detto di sì.»
Tredici corrugò la fronte. Non doveva essere
abituata a ricevere un quattro di picche. “Tredici di targhetta e quattro di
picche”; in un’altra occasione, Alec avrebbe contenuto l’insano istinto di mettersi
a ridere.
«Quindi no?» chiese la mondana. «Cos’è, hai
paura? Sei fidanzato?»
«Non sono il tipo.»
«Non sei il tipo.» La ragazza rimase ad
osservarlo intensamente, poi si strinse nelle spalle. «Okay. Fa niente. Sarebbe
stato fantastico, sei davvero figo. Vado all’altro tavolo.»
Così, come mandar giù una pastiglia. Si alzò
nel frullio dei riccioli neri e marciò fino alla sedia successiva, sistemandosi
in modo quasi imperioso davanti a
Magnus
«Oh, Magnus», borbottò Alec, e si inchiodò le
mani in faccia pregando che Tredici non avesse portato con sé l’intento di fare
anche a lui la stessa richiesta. Sentì Magnus attaccare bottone con quella
spontaneità con cui sarebbe stato in grado di convincere persino una pietra al
sesso al primo appuntamento. Lo stregone era di tutt’altra pasta; avrebbe
senz’altro rifiutato – ovviamente, certo, per
forza -, ma la ragazza avrebbe guardato a lui come ad un amante delle
avventure di una notte. Cosa peraltro vera.
Cielo, quella situazione era così insensata.
Quell’esperienza stava diventando un’intera, disastrosa follia.
Lasciandosi scivolare di dosso le mani, Alec
vide che Jace salutava in quel momento una ragazza che si alzava dal suo
tavolo. Il suo parabatai era bravo a tenere in scacco le mondane per i due
minuti previsti dall’appuntamento. Non c’era nulla di sconvolgente nella
conclusione che fosse lui il migliore in quella disciplina: aveva una generosa
dose di carisma, seminava testosterone nell’aria e sopra ogni cosa era
infinitamente etero. Anche se, viva
la sincerità, Alec sapeva che non gli sarebbe andata meglio nemmeno se quella
sessione di speed dating fosse stata dedicata alla sponda opposta.
Quando vide Jace alzare gli occhi verso di
lui, non perse tempo e indicò l’uscita con un cenno del capo. Fuori di qui, gli disse con lo sguardo,
le labbra serrate in un’espressione urgente ed esasperata. Fuori. Adesso.
«Non posso credere che tu non riesca a tenere
una ragazza al tuo tavolo nemmeno per due minuti», gli rispose a voce il
parabatai, puntellando i palmi delle mani sul tavolo per potersi dondolare
sulla sedia. «Anzi, aspetta: ci credo.»
L’altro lo guardò. Lo sdegno che gli si era
incollato in faccia aveva un che di plateale. «Questa cosa ci è un po’ scappata
di mano, se noti.»
«Ehi», s’intrufolò con un sorriso Magnus,
posando il gomito sullo schienale e voltandosi verso di loro. Aveva gettato il
pollice ad indicare Tredici, che si era alzata e galoppava verso un altro
tavolo. «La mondana mi ha appena proposto una...»
«Okay, lo so, non dirlo», si precipitò Alec.
«Cosa?» domandò Jace.
«Tu stanne fuori.»
«Io mi sto divertendo.»
«Io no.»
«Lo so», rispose Jace. «Non tutte le giornate di
noi etero sono allegre. Hai la mia comprensione.»
«Andiamo.» Alec si alzò senza nemmeno
preoccuparsi di reimpostare il cronometro.
Magnus rimase a guardarlo mentre si chinava
per recuperare la borsa. C’era una spolverata di delusione nella curva che le
sue labbra avevano assunto. «Cosa? Ti arrendi? Siamo qui dentro da soli trenta
minuti», annunciò, sollevando le sopracciglia. «Per vostra informazione ho
pagato per un’ora.»
«Magnus, per favore», disse Jace, che ancora
non aveva smesso di dondolarsi sulla sedia. «Non hai sborsato neanche un
dollaro. Le mondane ci hanno fatto entrare gratis e non so neanche come hai
fatto a convincerle. Non che voglia saperlo. L’unica cosa che hai pagato è il
frappé di Alec.»
«Appunto. Un frappé che nelle mie intenzioni
doveva durare un’ora.»
«Magnus»,
gemette Alec, quasi una supplica. «Alzati e usciamo.»
Alzò gli occhi al soffitto e si diresse verso la
porta, schivando il viavai di chi si alzava e si spostava di tavolo in tavolo.
Il parabatai e lo stregone si scambiarono un’occhiata prima di arrendersi
all’idea di seguirlo.
Lasciarono al banco le targhette numerate e
due minuti più tardi erano sul marciapiede. Per la prima volta in vita sua, il
rumore del traffico e della vita mondana giunse alle orecchie di Alec come il
piacevole scampanellio del collare di un agnello.
«Non esiste un solo frappé al mondo che duri
un’ora, comunque», disse, rivolto a Magnus. La luce del sole rivelò le chiazze
rosse che gli accendevano appena le guance. Era una fortuna che quel locale
fosse strategicamente dominato dalla semioscurità. «Giusto perché tu lo sappia.»
Jace fece un sorrisetto. «Mai dire mai. Ad
esempio fino ad oggi io non credevo possibile che un appuntamento potesse
durare meno di due minuti.»
Alec gli rovesciò addosso un’espressione
omicida prima di incamminarsi. Decise saggiamente di non rilasciare commenti.
Sentiva di avere una ragnatela di parole in testa, con il problema che non si
trattava di frasi educate. Le uniche sillabe che gli sbocciavano con nitidezza
dietro la fronte formavano un mantra che recitava qualcosa come porca merda, porca merda, ancora porca merda,
ma voleva conservare una certa pulizia, in bocca. Non se le sarebbe lasciate
sfuggire anche se la tentazione avesse raggiunto l’apice.
«Avevo scommesso con tua sorella che non te la
saresti cavata», rivelò ad un certo punto Magnus. «Ho ufficialmente vinto.
Ragazze, tempo limite, appuntamento; Alexander, eri spacciato fin dall’inizio.»
«Stai tranquillo», rispose Alec. «Non ho
creduto in me stesso neanche per un istante. La tua assenza di appoggio non ha
quindi cambiato le cose.»
«Quanto sei dolce.»
«Devo venire un attimo a casa tua.»
Lo stregone arrangiò un bel sorriso da
furfante. «Dimmelo ancora.»
«Hai capito benissimo. Dobbiamo fare una cosa.»
«Se è la cosa che la mondana mi ha proposto,
allora è un sì.»
«Non è la cosa di Tredici.»
Lo disse con così tanta prontezza da lasciare Magnus
di stucco. «Non vuoi fare Tredici con me?» chiese, sinceramente dispiaciuto.
Jace, che camminava davanti a loro di qualche passo,
borbottò qualcosa. Pretese di non star ascoltando nulla di quello che si stavano
dicendo.
«Devo preparare il prossimo turno», rispose Alec.
Si era quasi irrigidito tant’era palese lo sforzo che stava facendo per ignorare
la sua malizia. «Dovrai darmi una mano. Jace, ti voglio a casa di Magnus alle cinque
esatte.»
Il parabatai sventolò la mano oltre la spalla in
segno di assenso, ma non si voltò. «Prendetevi tutto il tempo che vi serve», concesse.
«Non ho fretta.»
«Sentito?», di tuffò lo stregone. «Non ha fretta.»
«Io sì», disse Alec. C’erano già alcune idee a frullargli in testa, ma dubitava che ne esistesse una in grado di far assaggiare a Jace la vendetta che si meritava. Forse qualcosa... in un modo o nell’altro... Qualcosa. «Io ne ho parecchia.»
Oh, Raziel, perché?
Sì, sarebbe davvero forte. Io mi fionderei immediatamente al tavolo di Magnus, credo (ammesso che non sia già occupato; nella mia immaginazione, quel posto a sedere è -perennemente- presidiato da un'altra ragazza), o da Alec. Ah, c'è anche Jace. Ehm, tanto ormai sapete cosa penso di lui - di fianco agli altri due, sfiorisce (?) Jace, tanto amore per te <3
Agosto è stato un mese intensissimo. Figuratevi che sono di fretta pure ora che sto scrivendo, perché tra un'ora dovrei essere al lavoro e invece sono qui a fantasticare su un mio incontro con questo trio in un locale di speed dating. AHAH 3 Non posso fare a meno di notare che ancora una volta, benché gli aggiornamenti siano molto disciolti nel tempo (?), il numero di chi segue la storia e di chi l'ha piazzata tra le ricordate e le preferite si è alzato. Siete tutti dei piccoli e sadici fantasmini che se la ridono alle spalle di Alec e Jace, ma vi adoro perché so che ci siete - conto su un vostro intervento, prima o poi <3
Dopo aver concluso il capitolo, mi sono ripromessa di concentrarmi sulla storia che devo stendere per un Contest. Non riesco a scrivere due cose contemporaneamente, non se ne parla e non se ne parlerà mai. Ho sempre paura di, sapete, confondere le atmosfere, le idee, il tono e il colore della narrazione. Per cui, non appena terminerò il lavoro per il racconto, tornerò con il prossimo capitolo. Non morirò; la pagina su FB vi terrà aggiornati, se vorrete.
Un enorme bacio <3
Dew_