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Autore: Rei_    27/08/2015    6 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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La sera era inoltrata, e Nicolò e Augusto Chiarelli erano ancora in riunione con il gruppo. L’idea del capogruppo fu accolta con boati e sorrisi di grande eccitazione: ostruzionismo.
Sarebbe bastato presentare una decina di emendamenti per ciascun parlamentare del gruppo, e la legge sarebbe stata bloccata per almeno un mese, intasando i lavori parlamentari. La stampa si sarebbe focalizzata sulla questione e il dibattito sarebbe esploso al punto che la maggioranza non sarebbe più stata in grado di difendere la legge. Nicolò uscì a fumare, facendosi largo tra i complimenti dei suoi colleghi per la sua proposta. Si sentiva elettrizzato per la guerra che stava per compiere. La lotta alla mafia era uno di quegli ideali che più degli altri lo avevano spinto alla politica, e avrebbe combattuto con le unghie e con i denti per far ritirare quella legge assurda.
Sorrise tra sé immaginando i giorni successivi, dove i deputati sarebbero stati costretti a rimanere in aula fino a notte fonda a causa dell’ostruzionismo. Questo era ciò che per Nicolò significava lottare per davvero.
Osservò il cortile completamente deserto delle undici di sera. Prima, quando aveva visto Martino da solo su una delle panchine, aveva sentito il forte impulso di scusarsi di nuovo con lui, nella speranza di togliersi di dosso quel senso di colpa che da giorni lo tormentava.
Non ne aveva avuto il coraggio, ma la discussione aveva preso tutt’altra piega.
Ora, Nicolò non vedeva l’ora di dimostrare a Martino quanto lui fosse ingenuo con la sua idea di cercare il compromesso. Gli avrebbe fatto vedere cosa significasse avere le palle di lottare per ciò in cui si crede.
Lottare per davvero.
 
 
*
 
Il primo giorno di discussione sulla legge fu il più noioso che Michele ricordasse. Gli interventi dell'opposizione erano vuoti e privi di senso, spesso riguardanti cose come la sintassi delle frasi, e venivano tirati in lungo apposta per perdere tempo, tanto che il presidente della Camera aveva ben presto iniziato ad innervosirsi, non trovando un modo legale per fermare tutta quella perdita di tempo.
Michele non aveva mai visto Pasqui così sudato, scomposto e inferocito. Ad ogni sospensione lo vedeva andare dal presidente della Camera chiedendogli di far cessare questo delirio, ma l'altro era inflessibile: nessuna norma gli avrebbe permesso di farlo. L'unica soluzione era sospendere la seduta e cercare un accordo per far ritirare gli emendamenti all'opposizione, cosa che Pasqui non era affatto disposto a fare anche se, con il passare delle ore, ciascun deputato di SD gli aveva disperatamente chiesto di percorrere quella pista.
«È una zucca dura, quell’uomo. Quando si mette in testa una cosa non lo schiodi» rispondeva Thomas a tutti i deputati che venivano a chiedergli di provare lui a convincerlo, in nome della loro vecchia amicizia.
Più le ore passavano, più la stanchezza aumentava tra le fila dell'aula. Quando anche il presidente della Camera non ne poté più, annunciò la sospensione della seduta per mezz'ora.
«Era ora» sospirò Thomas, con un’aria così grigia che anche la cravatta giallo canarino non sembrava vivace come al solito, «caffè, mi servirà tanto caffè!»
Mentre i suoi colleghi si sgranchivano le gambe, Michele osservò i movimenti nell’emiciclo. Tanti deputati stavano attorniando le due persone responsabili dell’ostruzionismo: Chiarelli e Andreani. Le personalità più importanti di SD e del gruppo dei popolari gesticolavano con rabbia contro i due dell'opposizione, i quali invece rimanevano impassibili. Non solo, Andreani aveva anche dipinto in faccia un arrogante sorriso di sfida.
 
Il loro ostruzionismo poteva, d’altra parte, essere anche una possibilità. La loro pressione avrebbe sicuramente favorito un compromesso tra la sinistra di SD, anche in questo caso contraria alla legge, e la dirigenza del partito. Nonostante quindi i suoi ideali lo portassero a preferire una soluzione politica a quel blocco un po’ sopra le righe, Michele non riuscì a non provare un po’ di ammirazione per la tenacia della lotta dei deputati di opposizione.
 
 
All'una di notte, molti deputati avevano deciso di andarsene, con scuse che variavano dalla menzogna spudorata alla necessità fantasiosa. Pasqui era diventato pazzo a furia di tener conto dei numeri, ma alla fine aveva concesso almeno ai deputati over sessanta di andarsene a casa, cosa che Arturo aveva molto apprezzato e Thomas molto contestato, ritenendola una discriminazione ingiusta. Michele, che non avrebbe mai immaginato che l'ostruzionismo potesse arrivare a richiedere sedute notturne, ad ogni pausa era costretto a imbottirsi di caffè al bar in fondo al Transatlantico.
Rischiava di addormentarsi davvero durante quelle lunghe ore in cui, anche con tutta la forza di volontà, i discorsi nell'aula si erano fatti talmente noiosi e ripetitivi che concentrarsi a seguirli era una vera impresa. Il capogruppo del Fronte era intervenuto più di tutti gli altri in quella seduta, inventando dei veri e propri trattati linguistici su ciascuna parola di ciascun emendamento, con un entusiasmo mai fiacco.
Lo incontrò al bar proprio durante una delle tante brevi pause notturne. Era appoggiato con la schiena al bancone, e reggeva un bicchiere di liquido trasparente nella mano sinistra.
«Quanto dovrà durare questa cosa?» gli chiese.
«Finché non otterremo il ritiro della legge» rispose a tono l’altro. Michele sospirò. Gli occhi verdi del capogruppo avevano un tenace bagliore di sfida, e nessun ragionamento in quel momento sarebbe servito a qualcosa.
 
«Non dirmi che sei già stanco!» aggiunse Andreani, sorridendo ironico.
«Assolutamente no» rispose Michele, voltando un po’ il viso per nascondere le prime occhiaie, «ma ciò che state facendo non servirà. Bisogna piuttosto fare pressione su Pasqui per un accordo».
«Voi fate pure le vostre cosette da bravi ometti di partito» disse Andreani, più sorridente che mai, «noi continueremo a fare le cose serie, visto che qui c’è in gioco la legalità. E ora torno dentro, ho proprio voglia di fare un lungo intervento».
Se ne andò, sorridendo fiero. Michele non riuscì in nessun modo a spiegarsi come potesse avere ancora tutte quelle energie, mentre lui era stanchissimo senza aver nemmeno intervenuto.
“Ti dimostrerò che ti sbagli” pensò, più convinto che mai.
 
 
La mattina dopo, in aula, tutti quanti erano a pezzi. Thomas si era appisolato sul banco e non c'era modo di svegliarlo. Pasqui era il nervosismo fatta persona, con due borse enormi sotto gli occhiali spessi, mentre faceva chiamate a destra e a manca per far arrivare tutti, camminando su e giù dalle scalinate come un'anima in pena. Michele stava cercando di tenersi impegnato in ogni modo, scrivendo o leggendo qualcosa, ma la testa gli aveva iniziato a pesare notevolmente sulla testa. Dovette aspettare la prima pausa caffè perché la sua mente fosse abbastanza sveglia per parlare con Thomas.
«Potremmo provare l’accordo con Pasqui. Se siamo in tanti non sarà difficile. Basterà convincerlo ad accettare delle modifiche alla legge per rendere gli appalti più controllati. Sono sicuro che può funzionare, anche lui sa che avere la stampa contro per tutto il tempo dell’ostruzionismo provocherà solo un danno di immagine».
«Miché» sospirò Thomas, con uno sguardo che tradiva la tenerezza per la sua ingenuità, «ci abbiamo pensato, ma è come la storia
dell’altra volta, qualunque cosa gli diciamo non accetterà mai. Non possono rischiare di aprire una crisi di governo».
«E allora non vogliamo fare niente?» ribatté con rabbia il giovane.
«Certo che sì. Questa sera una nostra delegazione chiederà udienza a Pasqui. Andrò io personalmente» intervenne Arturo, comparendo al loro fianco. Le sopracciglia folte dell’anziano erano contratte in una smorfia severa.
«Arturo, ti illudi se credi di fargli cambiare idea» ribatté Thomas.
«Non possiamo far altro che tentare» ribadì lui, «qua si sta parlando di mafie, e su queste cose non si scherza».
Michele si rincuorò. Sapeva che se sarebbe andato Arturo a cercare l’accordo poteva solo andare bene. La sua esperienza e la sua autorevolezza politica bastavano come garanzia di successo.
La giornata passò come quella precedente, con gli interventi lunghissimi degli esponenti del Fronte, soprattutto quelli di Andreani, e la rabbia e la stanchezza degli altri deputati. Michele rimase fermo al suo banco, tesissimo. Se Arturo non fosse riuscito a concludere un accordo, come avrebbero fatto? Sarebbe finita come l’altra volta, con lui che era stato praticamente costretto a votare a favore?
Iniziò a fissare il capogruppo del Fronte, quasi invidiandolo per la veemenza e l’energia dei suoi discorsi. In quel momento desiderava solo avere almeno un po’ di quella libertà.
La sera Michele trascorse il tempo passando dal cortile al bar e dal bar al suo ufficio, aspettando notizie da Arturo.
La cinica freddezza di Thomas lo aveva infastidito. Non assomigliava affatto a quel Thomas di cui tanto parlavano le televisioni, che in gioventù aveva combattuto coraggiosamente i nuovi fascisti, subendo anche delle aggressioni. Più Michele scopriva cose sulla sua storia, più non si capacitava di come si fosse trasformato.
A mezzanotte, Arturo scese alla buvette. La sua faccia tesa e stanca non lasciò spazio a dubbi.
«L’accordo non è riuscito». Non c’era tanto altro da dire.
 
 
Michele passò la notte in totale agitazione.
Era tornato a casa per qualche ora prima che ricominciasse la seduta la mattina dopo, ma non era riuscito comunque a chiudere occhio.
I ricordi del talk show, delle interviste, di quel voto, dello schiaffo di Andreani non facevano che tormentarlo. Si sarebbe ripetuto tutto?
Con lui che avrebbe dovuto giustificare qualcosa che in realtà non voleva fare?
Il primo voto effettivo all’articolo uno della legge sarebbe stato domani. Aveva meno di ventiquattr’ore per fare qualcosa.
Il cuore gli batteva per l’ansia. Non faceva altro che alzarsi, andare in bagno e camminare nervosamente tra camera sua e la cucina. Se nemmeno Arturo era riuscito a fare niente, lui che cosa poteva fare? La coscienza di non poter risolvere la situazione faceva a botte con la sua rabbia di non poter accettare di non fare niente.
Tornò alla Camera molto presto, erano le cinque e mezza di mattina. Passò una buona ora a passeggiare per i corridoi, non sapendo che fare e con chi parlare. Nella sua testa avrebbe voluto mobilitare le folle, l’opinione pubblica, qualche gruppo di deputati onesti del suo partito, ma la realtà continuava a indicargli che nulla di tutto ciò sarebbe servito a qualcosa. Quando arrivò alla decisione di chiudersi nel suo ufficio per riposare una mezz’oretta, sentì i passi affrettati e pesanti di Pasqui echeggiare nel corridoio.
Quei brevi istanti in cui quell’uomo gli passò davanti furono lunghissimi per Michele.
«Pasqui, hai un minuto?»
Gli occhi del capogruppo si girarono di pochi gradi verso di lui, come a segnalare che volesse prestargli meno attenzione possibile.
«Uno solo, sta cominciando la riunione dei capigruppo». Michele fece un respiro profondo, sentendo il cuore battere velocemente per il passo che aveva fatto, ben oltre ciò che il suo
senso di pericolo gli consentiva. Intorno a lui i pochi deputati presenti andavano e venivano, nessuno lo stava guardando, eppure aveva
l’impressione di essere comunque al centro dell’attenzione.
«Io penso che questa legge andrebbe radicalmente modificata. Così com’è renderà più facile l’infiltrazione della mafia nelle opere pubbliche. Tutti i giornali ne parlano, e noi non possiamo passare per quelli che approveranno questa vergogna senza fare qualcosa per cambiarla».
Pasqui non reagì minimamente, restando nella stessa posizione di prima.
«Come lei ben sa, onorevole Martino, il nostro patto di governo prevede che le leggi siano concordate con tutti i partiti di maggioranza. Questa legge è già stata frutto di compromesso in fase di elaborazione dunque, per rispetto dei patti, sarà approvata in questa esatta maniera».
Michele cercò velocemente qualcosa da rispondere.
«Questo non toglie la gravità del merito della legge! Con che faccia potremo votarla?»
Subito temette di aver usato parole troppo aggressive e cercò di darsi un contegno, rilassando i muscoli del viso. Sentiva le guance in fiamme dal rossore.
Pasqui lo squadrò dall’alto con aria di sufficienza.
«Non c’è bisogno che ti ricordi che è tua responsabilità attenerti alle indicazioni del gruppo in fase di voto. Se non sarai leale verso il partito puoi dirlo chiaramente, e prenderemo le dovute conseguenze». Detto questo, Pasqui continuò per il corridoio come se nulla fosse,
togliendo Michele dall’imbarazzo di rispondere di nuovo.
Il giovane restò fermo, impalato, a fissare quel corridoio che gli mostrava un orribile senso unico in cui avrebbe dovuto, di nuovo, fare qualcosa in cui non credeva.
 
 
*
 
 
La giornata fu stancante e felice come le precedenti.
Nicolò non aveva perso tempo. Scriveva, alzava la mano, parlava, si risedeva, rialzava la mano. Sapeva che ogni minuto in cui interveniva era un minuto guadagnato prima della votazione del primo articolo e non intendeva fermarsi, soprattutto perché vedere i volti esasperati dei colleghi della maggioranza (o mafioranza, come li chiamava durante le interviste) non aveva prezzo.
Tra un intervento e l’altro riuscì a tirare in lungo la seduta fino alle diciotto, quando venne sospesa con l’annuncio che al rientro sarebbe stato finalmente votato il primo articolo.
«Bene, poi si lotterà sul secondo!» disse Andreani ai suoi colleghi, coinvolgendoli con la sua grinta.
Era in aula dalle sette di mattina, ma non sentiva minimamente la fame. Si intrattenne in cortile a fumare e a scherzare con gli altri del gruppo, sognando di poter arrivare a vincere per davvero quella battaglia per lo sfinimento degli avversari.
La mezz’ora di pausa passò in un lampo e i deputati ritornarono alla spicciolata dentro l’aula per votare. Nicolò si accese un’altra sigaretta da solo, per essere sicuro di avere abbastanza scorta di nicotina nel sangue per quella che si prospettava essere ancora una lunga serata, quando notò che nel cortile era rimasto un altro deputato.
Lo riconobbe subito. Era appoggiato ad una colonna, in piedi in un angolo del cortile, e guardava fisso per terra.
«Non ci torni in aula?»
Il deputato di Sinistra Democratica alzò di poco gli occhi, e Nicolò capì immediatamente che c’era qualcosa che non andava. Il viso era più bianco del solito, gli occhi erano un po' gonfi e il suo modo di respirare, anche da una certa distanza, era evidentemente affannato.
«Sì, adesso vado».
Nicolò arricciò il labbro, sentendo nel tono dell’altro qualcosa che gli ricordava inquietantemente l’episodio dell’ascensore.
«La tua strategia sul compromesso è andata a buon fine?»
Il giovane infilò entrambe le mani nella tasca della giacca, senza smettere di guardare per terra.
«No».
Nicolò sospirò. Aveva tenuto pronte diverse battute per l’occasione e per un attimo selezionò mentalmente la migliore, ma poi le sue labbra restarono sigillate attorno alla sigaretta.
Guardò l’ora. Era già in ritardo e se non correva si sarebbe perso la votazione, eppure non riusciva a decidere di andarsene.
«Beh abbiamo cinque minuti, io mi faccio un caffè, vieni?» Martino alzò un braccio per guardare l’orologio.
«È già tardi, dovremmo andare a votare».
La sua voce sembrava provenire da un altro universo. Lontana, senza colore né espressione.
«Beh» sorrise ironico Nicolò, «saremmo comunque uno a favore e uno contro, se la matematica non è un’opinione il risultato sarà lo stesso».
Detto ciò, si avviò verso la buvette. L’altro si mosse molto dopo, seguendolo a qualche passo di distanza.
Dentro il piccolo bar non c’era nessuno. Tutti quanti erano in aula a votare, chi per bloccare e chi per approvare. Nicolò si ritrovò a pensare a quanti interventi aveva ancora da fare quella sera, ma per qualche motivo la sua grinta di prima non riusciva a imporsi per riportare il suo corpo sul campo di battaglia.
«Beh, come mai i vostri grandi partigiani dirigenti vi hanno negato l’accordo?» buttò lì.
«Non mi è stata data una spiegazione».
«Molto bene!» si scaldò Nico, «vedremo se non cambieranno idea dopo che starete in aula a votare sul niente per un mese di fila. Voi credete che ci fermeremo, ma non sapete con chi avete a che fare!» Martino incrociò i suoi occhi, e per quell'attimo al capogruppo del Fronte parve di notare un sorriso dentro il suo sguardo perso.
Sembrava che avesse intenzione di dirgli qualcosa, e Nicolò alzò un sopracciglio come per invitarlo a parlare, ma qualunque cosa volesse dirgli non venne svelata. In ogni caso, il capogruppo ebbe la forte impressione che le sue ultime parole avessero incontrato il suo consenso.
Restarono in silenzio per interminabili minuti, finché non arrivò il capogruppo di Sinistra Democratica. Nico ebbe un sussulto di spavento, trovandosi d'un tratto davanti quell'uomo enorme, con un atteggiamento tutt'altro che amichevole.
«Che stai facendo qui? Poco fa abbiamo votato, nel caso ti fosse sfuggito» disse tagliente, rivolto a Martino.
Nicolò scattò subito in piedi, non riuscendo a trattenersi.
«Chiedo scusa, non mi sembrano questi i modi con cui rivolgersi a un deputato della Repubblica. L’onorevole Martino ha piena facoltà di decidere in autonomia se entrare o no in aula».
Per un attimo, Nico ebbe seriamente paura di avere acceso la miccia di una bomba. Pasqui gli rivolse uno sguardo incendiario.
«Non sto parlando con te. Torna in aula a giocare al ribelle».
«Certo che ci torno! E tu tornaci a fare leggi per i tuoi amici mafiosi» ribatté subito Nicolò.
Pasqui lo ignorò, tornando a rivolgersi a Martino.
«Che hai intenzione di fare?»
«Non sta bene» si intromise di nuovo Nicolò, «stava tornando in aula ma ha avuto un calo di pressione, così gli ho suggerito di prendersi un caffè».
Il capogruppo del Fronte fu colpito dalla sua stessa prontezza con cui aveva mentito in quel modo così convincente. Pasqui soffermò il suo sguardo sul deputato di Sinistra Democratica, come per constatare le sue condizioni.
«Capisco» concluse, riprendendo il solito tono freddo, «in tal caso puoi tornare a casa a riposare. Ma tienimi aggiornato, e cerca di tornare il prima possibile».
Detto questo, il capogruppo di SD uscì dalla buvette.
Quando se ne fu andato, Michele rivolse a Nicolò uno sguardo interrogativo.
«È la prima cosa che mi è venuta in mente» si giustificò lui, «ho immaginato che tu non volessi tornare in aula».
Michele alzò un sopracciglio, non sapendo cosa rispondere. Prese le sue cose e indossò il soprabito.
«Beh, grazie» mormorò, «ovviamente è tutto a vostro vantaggio, sarò un voto in meno per la mafioranza» aggiunse, ironico.
«Saresti stato comunque un voto in meno alla mafioranza» sorrise Nicolò, «ed è proprio per questo che non sei andato in aula a votare. Mi sbaglio?»
L’altro resse lo sguardo, ma non rispose.
«Buona serata».

«A te».
Anche Nicolò si alzò, finalmente pronto per tornare in aula a lottare.
 
 
*
 
 
La testa gli doleva per la stanchezza e lo stomaco si lamentava rumorosamente per la fame, mentre Michele fissava il soffitto nel vano tentativo di prendere sonno. Gettò indietro le coperte in un gesto rabbioso e afferrò il cellulare dal comodino. Erano le due e quarantaquattro.
Probabilmente erano tutti ancora in aula a votare, e probabilmente Andreani era impegnato in uno dei suoi soliti interventi. Immaginò il suo sguardo, quegli occhi convinti mentre all’interno del bar gli ribadiva che avrebbe vinto con la sua ostinazione, e provò nuovamente un moto di rabbia e di invidia per quell’uomo così diverso da lui. Era stato completamente preda dell’ansia quando aveva saputo che alle diciotto si sarebbe votato il primo articolo. Non si era sentito pronto a sopportare di nuovo di votare ciò che riteneva profondamente sbagliato.
E come se non bastasse, c’era l’immagine di Arturo, Thomas e gli altri compagni di partito che avevano sicuramente votato a favore, dopo l’accordo fallito. Sembrava che l’unico a porsi seriamente il problema morale fosse lui. Non era abbastanza inquadrato
dall’obbedire al suo partito e basta, senza opporsi alle decisioni altrui, ma non era nemmeno abbastanza coraggioso da opporsi in maniera netta a ciò che riteneva sbagliato. Come un vigliacco, aveva scelto di non tornare in aula, ingabbiato nel vortice dell’indecisione.
Quanto avrebbe retto, andando avanti così, dentro quella Camera fatta di squali?
La domanda restò sospesa, mentre i contorni della sua stanza lentamente svanirono davanti ai suoi occhi.
   
 
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