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Autore: Lilith of The Thirsty    27/08/2015    0 recensioni
Storia partecipante al contest " Il Cerchio degli Déi: Amore" indetto da PikaPikaGirl sul forum di Efp
Questa è la storia del mito di Orfeo ed Euridice rivisitata. Infatti la nostra bella Euridice (Itachi) non sa nulla dell’amore di Orfeo(Sasuke) nei suoi confronti (nonostante egli voglia rivelarglielo più volte) e muore prima di poterlo scoprire.
Sasuke, distrutto dal dolore per la perdita del fratello, si reca agli inferi per sottrarre l’anima di Itachi al suo crudele destino… Ce la farà a riportare suo fratello tra i vivi oppure cederà alla tentazione e lo perderà?
...
Camminammo a lungo nel buio ma il mio pensiero era costantemente rivolto a colui che mi seguiva.
Con gli occhi fissi davanti a me, lottavo disperatamente contro il desiderio di voltarmi a guardare il viso del mio adorato fratello.
All'improvviso un dubbio atroce mi attanagliò il cuore: era davvero Itachi colui che mi seguiva oppure le due divinità mi avevano ingannato?
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Itachi, Sasuke Uchiha
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Incest | Contesto: Nessun contesto
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Autore(EFP): Lilith of The Thirsty

Titolo: Broken Melody

Rating: Giallo

Coppia: Sasuke = Orfeo
            Itachi = Euridice

Mito: Orfeo e Euridice

Note dell'autrice: Ho rivisitato la storia ma non l'ho cambiata nei suoi aspetti essenziali. Le scene che ormai conoscete tutti sono sane e salve ma ho voluto dare un mio tocco personale alla trama. Spero vi piaccia e buona lettura a tutti.
 
 
 
 
 
 
 
 
Broken Melody
 
 
 
 
Soffermati, o anima pia,
a leggere questi versi
prima che tu riprenda la tua via.
Una storia per cui dolersi
di un’anima che in vita fu mia
e che ora giace all’Inferno, ria.
Ascolta il mio doloroso canto
e permettimi di tessere su di te il suo manto
perché tu sappia come, da Morte,
mi fu strappata la mia sorte.
Se avrai lacrime da versare
ti ringrazio con il mio narrare
della novella di cui fino ad oggi
sentirai parlare.
 
 
 


Era un tempo felice.
L’erba era verde, gli alberi erano in fiore, gli animali si risvegliavano e tutta la natura cantava la sua passione.
Era qualcosa di magico ed estatico ed io mi ero fuso ad essa perché nel deserto arido del mio cuore era sbocciato un fiore rosso che aveva il sapore dell’amore.
Non sapevo se fosse sbagliato o meno perché era la prima volta che sentivo una tale forza che riverberava prepotente nel mio petto e quasi mi sentivo male.
Arrivavo all’apice della più dolce felicità e poi cadevo nel baratro dell’assoluta disperazione quando guardavo quei capelli neri che ondeggiavano al vento.
Gli occhi color onice mi sorrisero con tenerezza mentre io mi perdevo in quello sguardo uguale al mio.
«Torniamo a casa, Sasuke?» mi chiese la voce dolce di Itachi.
Mi persi ad ascoltare quell’armonia di suoni che veniva crudelmente rapita dal vento ma che non poteva più essere tolta dal mio cuore.
Presi tra le mani la lira e cominciai a cantare per lui.
Non ero bravo ad esprimere i miei sentimenti con la mia sola voce ma avevo dalla mia parte l’arte del canto ad aiutarmi e, ogni giorno, rendevo grazie agli Dèi per avermi fatto un simile dono.
I fiumi fermavano il loro corso, tutti gli esseri tendevano le orecchie e persino gli alberi arrestavano il movimento delle foglie per ascoltare i miei versi ispirati.
Non m'interessava l’effetto che facevo agli altri, volevo solo vedere il viso di mio fratello sorridere, ammirato, per le parole che cantavano.
Non avevo mai avuto il coraggio di rivelare le mie emozioni ad Itachi ma speravo con tutto il mio cuore che le capisse e che, un giorno, non molto distante, le ricambiasse.
Avevo paura di quello che avrebbe pensato la gente ma non potevo nascondere i miei sentimenti, non ci riuscivo perché, semplicemente, erano troppo forti.
La natura era la mia unica alleata e assorbiva le mie emozioni riversando la mia passione in tutto ciò che poteva riuscire a contenerla anche se, ogni volta, diventava più difficile celarla.
Non ci sarebbero mai stati abbastanza fiori, piante, animali o nuvole per poter contenere ciò che provavo dentro di me.
Avrei dovuto dirgli quello che provavo prima o poi eppure, non facevo altro che rimandare tutto e soffocare il mio corpo e la mia anima in una lenta e lunga agonia.
Itachi sorrideva come sempre e mi lodava con le sue parole e con le sue carezze da fratello maggiore.
Ero troppo codardo per far finire tutto questo.
Lentamente lasciai che le mie dita spegnessero la melodia e che la mia voce si riducesse ad un sussurro appena udibile al mondo.
Mi alzai, rinfrancato da quello sfogo, e sorrisi a mio fratello che, giratosi di spalle, cominciò a camminare verso casa.
Sospirai.
Nemmeno questa volta ero riuscito a dirglielo.
Seguii la figura di Itachi a distanza di qualche metro per poterla ammirare meglio.
I raggi del sole donavano un candore marmoreo alla sua pelle che riluceva leggera e piena di salute, i capelli lunghi e neri che gli ricadevano oltre le spalle sembravano fatti di tenebra da quanto erano scuri mentre il  chitoniskos* color crema seguiva i movimenti del suo corpo, avvolgendo la pelle come una soffice nuvola.
All'improvviso, sentii crescere un’ondata di coraggio come mai l’avevo avvertita fino ad ora e capii che era arrivato il momento giusto per confessare i miei sentimenti.
Non potevo più aspettare.
«Itachi!» lo chiamai, spinto da una strana frenesia.
Lui si voltò e mi sorrise come sempre.
Appena prima che riuscissi a dire quelle due parole maledette, qualcosa andò storto.
Il riso leggero si congelò come se avesse perso ogni slancio d’affetto, la pelle divenne bianca come quella dei cadaveri e gli occhi neri di Itachi si velarono della patina dei morti.
Vidi il fisico di mio fratello cadere a terra, quasi a rallentatore, mentre la sua mano cercava la mia che arrivò troppo tardi.
Non riuscii ad impedirgli di colpire il terreno e di sporcarsi nonostante la mia corsa frenetica.
I sensi di colpa cominciarono ad arrampicarsi sul mio corpo come se fossero fatti di rovi.
Sostenni timorosamente la sua testa mentre le mie labbra non proferivano un suono ed i miei occhi non riuscivano più a percepire il movimento perpetuo della cassa toracica.
Mentre guardavo febbricitante cosa potesse aver reso mio fratello così freddo scorsi, in fondo alla caviglia, due piccoli fori neri e la mia mente capì subito cosa doveva essere successo.
Poggiai velocemente il mio orecchio sul cuore di Itachi che, dopo soli tre battiti, tre semplici piccoli suoni, si spense come un soffio uccide una fiamma di una candela.
Sentii gli occhi velarsi di lacrime mentre lasciavo che il mio dolore mi squarciasse il petto e l’anima e si riversasse nel luogo dove non sarei mai più stato felice.
 
 
 
Peregrinavo.
Non mi rimaneva altro da fare.
Era passato un giorno dalle esequie di Itachi ed il mio male non riusciva a trovare pace.
Vagabondavo in terre piene di vita, colorate e solari cercando di sfuggire alla mia sofferenza ma la realtà era un’altra: ero un morto che calpestava la terra.
Non c’era un posto che fosse troppo ostile, oscuro e pericoloso che potesse accogliere le mie spoglie.
Avevo perso ogni cosa; perché la Morte non voleva prendermi?
Forse gli Dèi volevano punirmi per aver provato una così insana passione nei confronti di mio fratello e si divertivano a torturarmi crudelmente facendomi restare in vita.
Fissavo l’orizzonte per quelli che sembravano minuti interminabili mentre il vuoto lasciato da Itachi continuava ad ampliare lo squarcio profondo che mi consumava l’anima.
Non avrei potuto più rivedere il suo sorriso, quei bellissimi occhi neri come la notte, i suoi capelli sottili come gli steli d’erba e non avrei più sentito le carezze delle sue mani, soffici come nuvole, sul mio viso.
Forse furono questi pensieri, la disperazione o la pazzia a far muovere il mio corpo e la mia arte che si congiunsero ancora una volta nelle corde sottili della mia lira.
Mi sembrava di cantare una ninna nanna al mondo ma non per farlo addormentare, bensì per iniettargli tutto il mio dolore nelle sue vene.
Gli animali si inginocchiavano sofferenti, le piante si spogliavano delle foglie, i corsi d’acqua straripavano e il cielo piangeva semplicemente perché nessuno poteva contenere la mia pena.
Non saprei dire per quanto suonai: tre, quattro forse anche otto ore senza mai fermarmi ma non c’era modo di placare la mia tristezza.
All'improvviso, una strana idea prese forma nella mia testa e si inserì tra le parole del mio canto.
«Scenderò nell'Averno e pregherò le potenze infernali di restituirmi il mio dolce fratello» gridai alla natura, ormai tinta dei colori della sera.
La notte stessa iniziai il viaggio verso gli oscuri regni della morte.
Su un fianco del monte Olimpo c'era una caverna che, secondo ciò che riferivano le leggende narratemi da piccolo, era l'ingresso dell'oltretomba.
Vi arrivai e un’ondata gelida mi investì, ammonendomi di non entrare in quell'angusto spazio poiché non era fatto per i vivi.
Mi feci coraggio e, preso fra le mani il mio strumento, avanzai nell'oscurità dei morti.
Camminai a lungo negli spazi proibiti dell’Inferno.
Al suono del mio canto le anime dei defunti piangevano, strillavano e si battevano il petto mentre con il mio passo tremante giunsi in un luogo coperto da una fitta nebbia dove si vedeva un unico punto luminoso: una sorgente da cui nasceva il fiume Acheronte.
Sulle nere acque apparve una barca, guidata da un vecchio. Il suo volto era scuro, mentre gli occhi brillavano come carboni accesi. Il corpo ossuto era coperto malamente da una stola lurida che puzzava della sofferenza di milioni di persone.
Lo riconobbi.
Era Caronte che conduceva le anime morte alla cupa reggia di Ade, dio dell'oltretomba.
Il vecchio mi rimproverò con voce sgraziata e amara dato che non dovevo trovarmi in quel luogo ma non mi feci intimorire e, riprendendo a cantare, placai la sua ira con la mia musica melodiosa.
«Ebbene, mortale, ti condurrò dal mio signore e padrone poiché le tue parole me lo chiedono con un tal dolore» mi rispose, facendomi salire sulla sua barca.
Continuai a cantare.
Avevo il timore che se avessi smesso, nessuna di quelle creature mi avrebbe condotto dove volevo andare.
La barca avanzava faticosamente tra quelle acque e nonostante l’oscurità pesante come un mantello intorno a noi, riuscii a scorgere alcune creature infernali e pochi ma famosi peccatori.
Le Erinni piansero, Cerbero ululò, la ruota di Issione si fermò e i perfidi avvoltoi che divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito solamente grazie alle mie parole.
Il mio cuore sussultò e la mia voce fremette quando, finalmente, giunsi davanti al luogo promesso da Caronte.
Il palazzo del re degli Inferi era gigantesco, fatto di guglie e di ritratti sofferenti completamente ammantati dalla nebbia nera di quel luogo ostile alla vita.
Vi entrai con timore, seguendo l’andatura tremante del vecchio che aprì un’enorme porta lasciando intravedere una sala buia come la notte.
Quando i miei occhi si adattarono a tutta quell'oscurità, scorsi il trono su cui sedeva Ade che aveva al suo fianco la bellissima regina Persefone.
Tremai davanti all'immortalità di quella dea dal viso etereo e rivolsi le mie suppliche al suo cuore, sperando di riuscire ad esprimere i miei sentimenti per far commuovere un cuore di donna dedito all’amore.
Così cominciai a cantare:
«Dolce regina dal volto color della luna
Spero tu possa accettare la mia preghiera
e, ti giuro, che sarà solo una.
Un dolor mi tormenta crudelmente
poiché ha strappato alla vita
una stupenda mente.
Le mie lacrime ho spanto
ed il mio dolore canto
affinché tu, mia sovrana, abbia pietà di me.
Esaudisci ciò che spero:
ridammi ciò che un tempo avevo
o fa di me ciò che ero
così che possa stare con colui che stringevo,
unito nell’Averno».
 
Rimasi in silenzio e non osai più parlare.
Percepii solamente un singhiozzo sommesso mentre lacrime brillanti come perle solcavano il viso celestiale della dea degli Inferi che, guardando per un istante il suo sposo, lo pregò con il silenzio e l’amore negli occhi di darmi una possibilità.
Trattenni il respiro e la mia intera essenza tremò di fronte alla risposta che poteva darmi altra sofferenza oppure farmi ritrovare la speranza.
Ade esclamò: «Il tuo canto, Sasuke, ha commosso me e la mia regina. Voglio accontentarti: Itachi tornerà sulla terra e sarai tu stesso a condurlo fuori dal mio regno. Ma bada: non dovrai né guardarlo né toccarlo finché non avrai raggiunto la luce del sole. Se ti volterai, lo perderai e, questa volta, per sempre.
Ora va, lui ti seguirà lungo la tua via non appena ti incamminerai per la città dei vivi».
Sentivo il mio volto trasfigurato dalla felicità.
Quelle parole mi avevano portato la speranza e la gioia di riuscire a vivere di nuovo e di restare accanto a mio fratello fino a quanto avessi umanamente potuto.
Mi inchinai davanti ai sovrani e mi avviai verso l’uscita dove mi attendeva il mio nuovo inizio.
Non appena cominciai a muovermi, avvertii dei passi ritmici e leggeri dietro di me ed ebbi la certezza che Itachi mi stesse seguendo.
Camminammo a lungo nel buio ma il mio pensiero era costantemente rivolto a colui che mi seguiva.
Con gli occhi fissi davanti a me, lottavo disperatamente contro il desiderio di voltarmi a guardare il viso del mio adorato fratello.
All'improvviso un dubbio atroce mi attanagliò il cuore: era davvero Itachi colui che mi seguiva oppure le due divinità mi avevano ingannato?
Poco per volta, la lucidità della mia mente cominciò a sgretolarsi e a franarmi addosso mentre la brama di vederlo si faceva più ardente e consumava la mia carne.
Dovevo assolutamente capire se era vero: se mi avevano concesso la grazia di riavere il mio adorato fratello accanto a me o se mi avevano mentito.
Ma avevo promesso…
Però lo volevo tanto…
Almeno sarei stato meglio se avessi saputo la verità...
Solo un’occhiata, che male poteva fare?
Digrignai i denti e strinsi con forza la mia lira.
Ad un certo punto, vidi l’uscita della caverna e un impulso irresistibile mi rapì.
Dovevo farlo.
E proprio quando la luce del sole cominciò a filtrare tra le tenebre, non fui più capace di resistere.
Mi girai.
La figura che mi stava di fronte si tolse il velo che le ricopriva il capo.
Itachi.
Era bello più che mai, ma gli occhi erano tristi.
La sua mano fatta di vapore si avvicinò al mio viso e mi accarezzò solamente muovendo una leggera brezza mentre un sorriso triste si impossessava delle labbra di mio fratello.
«I-Itachi mi dispiace!» singhiozzai, capendo quello che avevo appena distrutto con la mia curiosità.
Una voce tenera e fragile come quella di un piccolo pulcino si spanse nell’aria intorno a me: «Non preoccuparti. Continua a cantare per il mondo, ne ha bisogno. Condividilo con gli altri. Anch’io ti ho a…».
Fu un attimo.
Una nebbia fitta e grigia avvolse Itachi che scomparve negli abissi dell’Inferno per sempre.
Avevano rapito la sua anima e la sua voce prima che potessi anche solo realizzare quello che stava succedendo.
Cosa aveva voluto dirmi con quelle parole? Quell’ultima frase significava quello che pensavo?
Il dolore che soggiunse subito dopo fu terribile.
Singhiozzai, piansi, urlai e supplicai ancora una volta gli dei infernali di farmi riavere colui che amavo ma  Ade non s'impietosì una seconda volta e non mi concesse più la grazia.
Tornai sulla terra.
Vagai per mesi attraverso boschi e praterie cantando la mia disperazione senza successo.
Potevo pure morire.
 
 
 
30 anni dopo
 
«E’ molto bella questa musica maestro ma perché è così triste?» chiese un bambino di circa otto anni ad un uomo dai capelli grigi.
L’uomo sollevò gli occhi neri e stanchi verso un edificio luminoso, fatto di colonne e marmi bianchi.
In cima al tetto, troneggiava un corvo nero con le ali aperte.
Il vecchio sorrise. «Perché c’è stato un tempo in cui non ero felice».
«Come mai?»
«E’ una lunga storia…».
«Dai, me la racconti?» insistette il bambino incuriosito.
L’uomo anziano rise di cuore. «Quando sarai più grande, piccolino».
Prima che quella piccola peste potesse replicare, una campana suonò due rintocchi forti e precisi.
«Oh no, dobbiamo andare o faremo tardi per la lezione di lira! Tu non vieni, maestro?» domandò il bimbo.
«Vai pure avanti, io ti raggiungerò dopo. La lezione non comincia di sicuro senza di me. Voglio starmene qui ad ammirare la natura ancora un po’» rispose il vecchio.
«Va bene» asserì lui, cominciando a correre verso la scuola di musica.
Gli occhi vecchi e un po’ miopi si alzarono per ammirare la statua del corvo che brillava sotto i raggi del sole.
Sorrise di cuore e si inchinò davanti alla scultura di suo fratello.
 
“Spero che questo fosse ciò che tu avessi desiderato per me e di averti reso orgoglioso, Itachi. Non saprò mai la risposta a quella tua frase di 30 anni fa ma spero tu conosca la mia. Grazie di tutto.
Ερῶ σου





*A volte gli uomini greci indossavano una versione corta detta chitoniskos al posto del chitone
   
 
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