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Autore: NewShadow    29/08/2015    0 recensioni
Storie degli ultimi mesi di vita dei pazienti più anziani dell'ospedale di St. Charles di Londra raccontate dal punto di vista dei loro cari. Un capitolo, un paziente diverso con una storia diversa.
N.B. Queste storie sono inventate. Ogni coincidenza con Nomi, Luoghi, Fatti o Persone reali è puramente casuale.
Genere: Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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N.B. Ogni Capitolo porta il nome di un Paziente
 

Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui mia sorella mi chiamò nel cuore della notte e, alternando i singhiozzi alle sillabe, mi diede la notizia che temevo arrivasse da un mese. 
"É-é mo... É-é m-m-mo... É-é-é m-mort-t-to". Ricordo ancora la sua voce tremula scossa dai singhiozzi. Era cosí disperata da non riuscire a dire, forse nemmeno a pensare, che mio padre, nostro padre, fosse morto, ma infondo anche lei sapeva che quel momento sarebbe giunto a breve. Era solo questione di tempo
Ricordo come, dopo aver detto due parole per consolarla e per accertarle che l'avrei raggiunta a breve, sono scoppiata in un pianto disperato nel buio della mia camera da letto, svegliando cosí mio marito che si era riaddormentato dopo il primo squillo del telefono. 
Dopo il breve pianto sfogatorio mi precipitai all'ospedale percorrendo la stessa strada che percorrevo abitualmente da sei mesi. 
Ormai la visita all'ospedale era diventata una routine quotidiana e il luogo che tanto odiavo da bambina perché sinonimo di dolore e tristezza, mi era ormai diventato familiare, cosí come i medici, gli infermieri, gli inservienti e la barista. Solo una cosa continuava a cambiare: i pazienti. Era come se ci fosse una lunga coda di vecchietti in camicia bianca fuori dall' ospedale che aspettavano un letto e delle cure; appena un paziente passava a miglior vita, il suo letto, il suo armadietto, il suo vassoio e i suoi medici e infermieri diventavano immediatamente del prossimo paziente e la vita ritornava la stessa di tutti i giorni. 
E adesso era giunto il momento per mio padre di lasciare il letto vuoto e fare spazio al prossimo.
Ricordo al mio arrivo in ospedale le infermiere e i dottori farmi le condoglianze sinceramente dispiaciuti aggiungendo qualche frase riguardo a che genere di buon uomo era mio padre. Ma io non ascoltavo tutte le qualità di mio padre che molti mi ripetevano da mesi. Impassibile come un robot, dileguavo tutta quella gente con un semplice "grazie", senza però fermarmi, mentre cercavo di allungare il collo oltre le spalle delle persone che mi stavano davanti per adocchiare l'entrata della stanza 114. 
Una volta arrivata davanti alla camera, e dopo aver dileguato velocemente le ultime condoglianze, mi trovai davanti alla porta chiusa. Aprí la porta e venni subito travolta dallo stretto abbraccio di mia sorella minore Mary.
Ricambiai subito la stretta in segno di conforto e supporto. Ero sempre stata la sua colonna, il suo punto fisso e la sua miglior confidente e, come avevo sempre fatto sin da quando eravamo piccole, toccava a me consolarla dai bulli della scuola, dalle delusioni d'amore e, adesso, dal dolore più grande e inevitabile: la morte. 
Il suo abbraccio fu uno dei più lunghi, stretti e intensi che io abbia mai ricevuto. 
Ricordo quelle braccia sottili stringermi il torace come se io dipendessi dalla sua stessa vita. Ricordo il mio naso immerso in quei morbidi capelli castani che profumavano di rose. Ricordo il suo esile corpo scosso dai singhiozzi appoggiato al mio.
Dopo un tempo che mi sembrò infinito ci staccammo dall'abbraccio. Le guardai quel viso piccolo e pallido, solcato da due occhiaie profonde e rigato dalle lacrime dove spiccavano due grandi occhi azzurri coperti da un velo di tristezza. Le strinsi affettuosamente una spalla e la superai diretta verso la tendina che nascondeva il corpo di mio padre. 
E fu come sprofondare in un baratro. Era peggio di come mi ero aspettata: sembrava di essere nel peggiore dei miei incubi. Non ricordo esattamente quello che successe; ricordo soltanto delle braccia possenti che mi trascinavano fuori dalla stanza mentre mia sorella piangeva. Ricordo le mie urla disperate che eccheggiavano nel corridoio mentre qualcuno mi correva incontro. 
E poi il buio.


***

Tutto era iniziato sei mesi prima quando, durante l'abituale visita alla tomba di mia madre, mio padre aveva lamentato un dolore alla pancia. Dopo una mezzora scarsa Il dolore era diventato cosí insopportabile che, preoccupati, abbiamo dovuto chiamare l'ambulanza. A distanza di anni quell'episodio mi sembra comico: aver chiamato l'ambulanza al cimitero sembra un brutto scherzo fatto da dei ragazzini che non hanno niente da fare se non giocare con cose serie come la vita in pericolo di una persona. Ma la preoccupazione in quel momento era salita ad un livello mai raggiunto prima. Dopo la corsa in ospedale ricordo i paramedici rassicurarci dicendo che avrebbero tenuto nostro padre in ospedale per un paio di giorni: il tempo necessario per compiere alcune analisi e che poi sarebbe potuto tornare a casa. Ma non tornò più a casa.
Da quel giorno iniziò l'estenuante viavai da casa all'ospedale, e con esso le numerose chiamate dei parenti per sapere notizie sulle condizioni di salute di mio padre. Tutti speravano che la sua lunga permanenza in ospedale potesse guarire il suo tumore al pancreas, ma il paziente non mostrava segni di miglioramento e piano a piano iniziava a perdere sempre più alcune capacità fino a ridursi a letto, costantemente collegato ad una flebo e con un catetere per l'urina, nello stato che io ho sempre associato ad un vegetale.
Mano a mano che il tempo passava le visite a quello che tutti sapevano essere diventato il suo capezzale aumentavano e i miei figli iniziarono a portare anche i loro bambini a salutare per l'ultima volta il bisnonno tanto amato. Ricordo che mio nipote Tommy insisteva sempre per andare a trovare il bisnonno e anche se non sapeva esattamente la situazione del malato, sapeva che presto se ne sarebbe andato. Ogni volta che il piccolo entrava nella spoglia stanza dell'ospedale gli occhi di mio padre si illuminavano e ridevano, felici di vedere il nipotino. E il piccolo Tommy stava sempre seduto nella sedia accanto al letto e giocava con il suo trenino giocattolo se non poteva parlare con il bisnonno.
Ricordo particolarmente un giorno che Tommy era andato a fargli visita. Fuori splendeva il sole in un limpido cielo di inizio novembre, Tommy guardava fuori dalla finestra seguendo con lo sguardo uno stormo di rondini migrare verso i paesi caldi. Con tutta l'ingenuità e l'innocenza che solo i bambini possiedono Tommy si girò verso il bisnonno e gli chiese "Nonno, cosa succede quando si muore?". Nella stanza eravamo soltanto io, mio padre e il bambino. Subito rimasi sbalordita dalla domanda ma prima che potessi ammonire il bambino, mio padre rispose con lo stesso tono che si usa per parlare del tempo. "Quando si muore si va in una grande stazione dei treni, e ognuno sceglie il treno che vuole per andare in un luogo" "E in che luogo si va?" chiese Tommy seduto sulla sedia con il busto sporto in avanti e guardando il bisnonno con vivo interesse. "Dove vuoi. Scegli tu il luogo dove andare. Continui a viaggiare da stazione in stazione e, quando arrivi, scendi, fai un giro e poi riparti." Tommy rimase qualche secondo in silenzio guardando il suo trenino abbandonato sul davanzale. Poi guardò un' altra volta il bisnonno "E tu dove andrai, nonno?" "Eh.. Mio caro Tommy, non lo so." disse mio padre ridendo. "Ma adesso che mi ci fai pensare, ho sempre voluto andare in Italia, lí fanno la pizza più buona del mondo!". " Anche io voglio andare nella stazione dei treni!" disse il bambino lamentandosi. "Ma ci andrai anche tu, solo fra qualche tempo. E io sarò lí ad aspettarti. Quando vedrai il vecchietto con il cappello con una grossa valigia nera nella mano che ti saluta, quello sarò io" Tommy rise, si avvicinò al letto e disse  "Mi manderai una cartolina di ogni posto in cui andrai, nonno?". Il vecchio lo guardò, allungò una mano e gli accarezzò la testa come faceva sempre e poi mormorò " Si, certo piccolino. Certo.". 
Davanti a quella scena mi sentivo di troppo, quindi uscii dalla stanza piú silenziosamente possibile e li lasciai soli. 
Tommy era stato il primo a capire che mio padre sarebbe morto a breve, o almeno il primo ad accettarlo. Era come se il mondo si fosse invertito: noi adulti, sempre cosí razionali e realistici, sbattevamo i piedi e scuotevamo la testa alla sola idea che mio padre sarebbe morto a breve; Tommy, invece, il piccolo sognatore della famiglia era stato il più realistico e il più maturo. 
Ma tutte le speranze alle quali gli adulti si aggrappavano furono presto infrante dal medico di mio padre. Un giorno, dopo le solite visite, il medico convocò me e mia sorella nel suo studio. Una volta entrate nello studio il medico ci guardò con aria dispiaciuta. "Mi spiace dirlo, ma vostro padre morirà presto" Mary sgranò gli occhi e iniziò a balbettare qualcosa riguardo a qualche possibilità, ma il medico scosse la testa e disse  "Non c'é cura, non c'é intervento, ogni giorno é un regalo. Mi spiace.". E quella frase fece crollare tutto quello in cui avevo sperato. Fu una doccia fredda, ghiacciata. Una doccia che mi lasciò senza fiato. Non c'era più tempo da perdere. "ogni giorno é un regalo". Sia io che mia sorella ci precipitammo fuori dallo studio percorrendo il corridoio quanto più in fretta i nostri sessant'anni ci permettevano. "ogni giorno é un regalo". Arrivammo insieme davanti alla stanza 114 e, insieme, aprimmo la porta. Anche se non era orario di visite ci avvicinammo al letto e lo abbracciammo iniziando a piangere. Da quel giorno io e Mary iniziammo a fare i turni notturni alternandoci. Una notte io e una notte lei. I turni notturni durarono un mese e mezzo, fino al giorno di quella chiamata. 
Dopo il funerale la vita sembrava impossibile, ma, in un modo o nell' altro, riuscimmo tutti ad andare avanti. 
A volte me lo immagino in una stazione con una grossa valigia nella mano destra mentre sale su un treno diretto chissà dove. É sorridente e non sofferente come era nelle sue ultime settimane di vita. E questo pensiero mi rincuora come mi rincuoravano le sue storie da bambina. 
A volte penso che abbia fatto bene a dire a Tommy della stazione come aldilà. Cosí ha offerto sia a Tommy che a me un modo per ricordarlo in un posto che non sia il letto d'ospedale. Cosí ce lo ricorderemo come l'anziano signore con il cappello con in mano una grossa valigia che ci saluta in una stazione piena di treni.



N.D.A.
Ho scritto questa storia ispirandomi a quello che mi dissero sulla morte di un mio zio. 
Le parole del medico "Non c'é cura, non c'é intervento, ogni giorno é un regalo"  sono le stesse parole che dissero a sua figlia. Ed é da queste parole che mi é venuta l'ispirazione.
Spero che vi sia piaciuto :-)
A presto 
NewShadow

 

  
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