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Autore: Fannie Fiffi    30/08/2015    4 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Giuro e spergiuro che un giorno di questi risponderò a tutte le vostre recensioni. Vi chiedo scusa anche per il ritardo dell'aggiornamento.

Grazie a tutti voi, dal primo all'ultimo. Siete unici.






 
 
Is It Any Wonder?






Erano passate appena due settimane dall’ultima volta che Atom aveva visto qualcuno di sua conoscenza.

Né Bellamy, né Octavia. Non Clarke, né tantomeno l’uomo che l’aveva ingaggiato per farle del male.

Forse il fatto che fosse un fuggitivo e non potesse rivelare a nessuno il luogo in cui si trovava poteva essere una delle tante spiegazioni.

Insieme a “ho quasi provato ad uccidere un essere umano”, certo.

Era ben consapevole che prima o poi la sua scusa avrebbe vacillato. Che non era mai riuscito a trascorrere più di cinque giorni nella stessa casa di suo padre, figurarsi fargli visita per il triplo.

Sapeva che il suo migliore amico stava indagando e che non ci sarebbe voluto molto perché arrivasse a lui. Perché scoprisse che no, Atom non aveva davvero trascorso quattro anni a fare volontariato in Bolivia.

Che l’unico volontariato che avrebbe dovuto fare era quello per se stesso.

E una volta arrivato a lui, al suo capo.

E molte vite non sarebbero state le stesse, l’ultima delle quali la sua.

La prima cosa che aveva fatto era stato disattivare il proprio telefono. Da lì, si era spostato ogni due giorni da un motel all’altro, utilizzando i documenti falsi che si era fatto rilegare troppi anni prima e solo contanti.

Si era mosso come un fantasma fra gli spazi vuoti della città, nelle ombre cui nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi, davanti agli specchi che non potevano più riflettere altro che sbagli e pentimenti.

Si era mosso con attenzione e scrupolo, tentando di sfuggire ai lupi in agguato.

E ora restava solamente un grande punto interrogativo.
 
 
 

 
*




« Blake!
Ehi, Blake, vieni qui! »

Bellamy si voltò solamente al secondo richiamo, ormai talmente stanco da non riconoscere più nemmeno il suo cognome.

Stava solo facendo quello che sapeva fare meglio: lavorare. E lavorare, e lavorare, fino ad addormentarsi sulla propria scrivania.

Fino al punto di non essere più disturbato dagli inservienti, ormai consapevoli di poterlo lasciare lì anche tutta la notte, la lampada da tavolo accesa e milioni di fascicoli a circondarlo.

« Che c’è? »

« Il Capitano ti vuole nel suo ufficio. » Lo informò il suo collega, ormai anch’esso cosciente dell’intrattabilità dell’agente Blake. Non quando la cosa più vicina ad un alimento che avesse consumato in una settimana erano i panini stantii della mensa del Dipartimento.

Non quando non faceva una doccia a casa sua da un periodo di tempo troppo lungo perché potesse ricordarsi di quantificarlo.

Il moro si alzò meccanicamente, strusciando la sedia contro la superficie di linoleum, e si avviò verso l’ufficio del Capitano Sidney senza dire una parola, passandosi una mano nei capelli disordinati che ormai non si preoccupava nemmeno più di curare.

« Buongiorno, Cap- »

« Siediti, agente Blake. »

Bellamy fece come riferito e si accomodò davanti al suo capo. Per un attimo si domandò come facesse ad essere sempre così perennemente impeccabile, ma immaginò che non sarebbe mai riuscito a comprendere appieno la risposta.

La donna sorseggiò per un attimo dalla tazza poggiata sulla sua scrivania – caffè amaro e corto, quasi sicuramente – e si rivolse al suo subalterno subito dopo.

« Non puoi più tenere il piede in due staffe, Bellamy. So che vuoi risolvere questi casi, credimi, lo so. Ma so anche che tu non dovresti essere qui in primo luogo. Antidroga, ricordi? È quello il tuo dipartimento. È quello il tuo lavoro.
Ma è ora che tu muova il culo, ci intendiamo? E con questo intendo che devi scegliere. O il caso Griffin, o l’infiltrazione tra i Grounders. »

Il maggiore dei Blake si passò una mano fra i capelli, sbuffando fra sé e sé.

Non poteva mentire a se stesso, sapeva da fin troppo tempo che quel momento sarebbe arrivato. Che avrebbe dovuto compiere una scelta.

« Capitano, la prego… Ho bisogno di più tempo. »

« Non ne abbiamo. »

« Sono sicuro che- »

« Bellamy. » Lo riprese la più grande. Aveva alzato il tono, e lui sapeva bene che ciò implicasse il fatto che era il momento di farsi indietro.

Ma non poteva farlo.

« Credo che potrebbero esserci dei collegamenti fra il rapimento Griffin e gli affari in nero di Lexa. Lei potrebbe sapere qualcosa sul mandante e io potrei scoprilo. Posso entrare, Capitano. Posso farlo. »

« Hai idea di cosa succederebbe se ti scoprissero? Sei davvero pronto a correre quel rischio? A correrlo per tua sorella? »

Quello fu sufficiente a zittirlo.

Era una domanda che non aveva potuto fare a meno di chiedersi, ancora e ancora. Tutte le volte che durante quelle settimane l’aveva lasciata da sola. Tutte le volte che si era addormentata sul divano mentre lo aspettava. Tutte le volte che gli aveva ripetuto di essere in grado di proteggersi da sola, di farcela da sola, che davvero non c’era bisogno che il suo fratellone trascorresse ogni ora del giorno con lei.

Era ciò che gli aveva impedito di gettarsi a capofitto nell’operazione con Lincoln, ciò che non sarebbe mai riuscito a lasciarsi alle spalle.

Octavia era una sua responsabilità, una che lui avrebbe rispettato e onorato per il resto della sua vita.

Poteva davvero esserci qualcosa di più importante?





 
*



 
 
Atom cambiò canale per l’ennesima volta.

Non che guardare uno show culinario fosse fra le prime cose che avesse voglia o potesse permettersi di fare in quel momento, ma aveva bisogno di liberare la mente. Pensare. Considerare attentamente.

La sua mente viaggiava in maniera veloce, selettiva, ma lui non sapeva. Non lo sapeva cosa stava succedendo. Non lo sapeva cosa doveva fare, né cosa ci si aspettasse da lui.

Quando si concentrò su di un raggio di sole che filtrava dalla tenda giallastra della sua camera di motel, si accorse che erano passati quasi due giorni dall’ultima volta che aveva messo piede fuori di lì. Il suo ultimo pasto, consumato la notte precedente, erano stati degli avanzi del cibo d’asporto che era sceso a prendere all’inizio del suo soggiorno in quella topaia sporca ed anonima.

Improvvisamente sentì una sensazione di claustrofobia attanagliargli la gola, un profondo disgusto per quella carta da parati economica che lo circondava, e assecondò in pochi secondi il bisogno che lo spingeva ad uscire da quella stanza, a prendere una boccata d’aria, ad allontanarsi il più possibile dallo sporco che sentiva intorno e dentro.

Con un movimento secco si alzò dal materasso. Afferrò il pacchetto di sigarette che aveva lasciato cadere solo un’ora prima sul tavolino da caffè ai piedi del letto, le chiavi della stanza e un cappellino da baseball che aveva comprato in una stazione di servizio qualche chilometro prima, poi uscì di scatto.

L’aria estiva di Los Angeles lo colpì immediatamente, sebbene ormai gli ultimi giorni di Agosto scivolassero lentamente nella frescura del nono mese dell’anno.

Iniziò a camminare con passo spedito alla sua sinistra, in direzione delle scale, verso la serie di ristoranti orientali che facevano da facciata a quel lato del motel, e non si guardò attorno, intento a non destare sospetti di alcun genere.

Stava per allungare il braccio verso la tasca dei pantaloni alla ricerca delle sigarette quando, prima che potesse fare altro, registrò inconsciamente dei passi alle sue spalle.

Veloci e abili, ma soprattutto vicini. Troppo vicini.

Prima che potesse reagire, percepì qualcosa di duro premere con fermezza al centro della schiena, e con poco stupore si ritrovò ben consapevole di cosa si trattasse.

« Chi sei? » Parlò a bassa voce, senza però lasciar trapelare alcuna particolare intonazione.

Non poteva vedere chi fosse la persona alle sue spalle, ma ebbe qualche sospetto.

Fu probabilmente per quello che la sorpresa lo colpì duramente, quando l’individuo in questione parlò. Non era nemmeno lontanamente chi aveva previsto.

« Sta’ zitto e dammi la chiave della stanza. »











 
«Vedi quell’uomo? Sì, esatto. Quello è il ricevitore. »

«E perché corre così veloce, papà? »

«Perché deve arrivare alla casa base prima che finisca l’ultimo
inning, tesoro.  »

Jake Griffin le accarezzò i capelli dolcemente, stringendo gli occhi in direzione del televisore, concentrato sull’ultima partita dei
Red Sox prima della fine della stagione.

«E se si fa male? » Domandò la bambina, portandosi la piccola mano sinistra davanti alla bocca con espressione preoccupata.

«Non gli succederà niente. Ma se dovesse farsi male, un medico si prenderà cura di lui. »

Il capo ricoperto di ricci biondi si voltò verso di lui in un attimo, e un paio di occhi blu lo scrutarono sorpresi e meravigliati.

«Un medico come la mia mamma? »

L’ingegnere distolse lo sguardo dalla partita in corso e lo puntò in quello di sua figlia, sorridendo dolcemente.

«Sì, piccola, come la tua mamma. Lei cura le persone a cui è stato fatto del male. »

«Da grande posso essere come lei, papi?Non voglio ferire le persone, io. Voglio farle stare bene, così potranno vedere le partite come le vediamo noi. »

Jake le posò delicatamente un bacio sulla fronte, pizzicandole lievemente il naso subito dopo.

«Ma certo che puoi, Clarkey. »

 
 
 



« Sarò sincero, non mi aspettavo di trovarti qui. » La voce di Atom era ferma e controllata, e ad un orecchio poco allenato quella sarebbe potuta sembrare perfino la verità.

« Mettitele. »

Un paio di manette gli vennero gettate in grembo, e lui alzò gli occhi al cielo.

« E queste dove le hai prese? »

« Le ho rubate. Ora mettile, e sbrigati. »

« Come mi hai trovato? »

La canna della pistola si spostò dalla sua nuca alla sua fronte, segno che chi la stava impugnando si era appena parato davanti a lui.

I loro occhi si incontrarono, e per la prima volta il giovane Ward sembrò rendersi conto della serietà della sua situazione. Sembrò finalmente accorgersi che quello non era un gioco. Per nessuno dei due.

« Non sono qui per farmi fare domande da te. Sono qui per ottenere delle risposte, e tu me le darai. » A quelle parole seguì una maggiore pressione della pistola contro la sua fronte, e la superficie fredda dell’arma sembrò lottare contro il calore che l’adrenalina aveva fatto salire sulla sua pelle.

« Lo sai che questa non è la prima volta che mi puntano una pistola alla testa, vero, Clarke? »
 



 
*





 
Il Capitano Sidney uscì dal suo ufficio con un’espressione grave dipinta sul volto austero, la stessa che indossava ogni volta che scopriva qualcosa che non corrispondeva alle sue supposizioni o che non le sembrava possibile.

Per quanto, certamente, il suo lavoro le avesse già insegnato sovente che i confini del possibili si estendevano molto più di quanto la sua mente potesse prepararsi.

Camminò fra le postazioni dei suoi subalterni con passo lento e cadenzato, come se in quel modo potesse ritardare ciò che era, al contrario, totalmente fuori dal suo potere.

Quando arrivò alla sua destinazione, sospirò fra sé e sé, e sfiorò il distintivo che portava appeso alla cintura in un gesto che nel corso degli anni le aveva infuso un qualche tipo di sicurezza, ma che ora sembrava pesarle addosso come un marchio pesante.

« Agente Blake? »

Bellamy sollevò immediatamente lo sguardo, e la donna poté leggere sul suo volto la sorpresa di trovarsela davanti. D’altronde, non succedeva spesso che il Capitano lasciasse il suo ufficio, a meno che non si trattasse di una motivazione molto importante. O molto negativa.

« Cap- »

« Ho bisogno di parlarti. Subito. Nel mio ufficio. »

Continuò subito dopo. « Porta pistola e distintivo. »

E gli aveva dato le spalle, senza permettergli di avere spiegazioni. Senza permettersi di avere qualche ripensamento.

Bellamy si alzò immediatamente, perché se c’era una cosa che aveva imparato in quegli anni era che non si disobbedisce ad un ordine del Capitano Sidney senza una buona ragione per farlo.

E se lui lo aveva fatto altre volte, non poteva di certo farlo ora. Non con la sospensione che aveva ricevuto e tutto l’impegno che aveva dispensato negli ultimi mesi per tornare a fare il lavoro che amava.

Così abbandonò tutto quello che stava facendo, tutte le prove e le nuove piste sul caso Griffin, e si incamminò nella stessa direzione.

Quando, con la più cauta e perplessa delle mosse, si richiuse la porta della stanza alle spalle, gli bastò un’occhiata allo sguardo del suo superiore puntato su di sé per rendersi conto che da quel momento in poi, dal momento in cui il battente aveva colpito l’uscio e aveva lasciato il resto del Dipartimento fuori, nulla di quello che sarebbe stato detto gli sarebbe piaciuto.

« Scarica la pistola e poggiala lentamente sulla scrivania insieme alle munizioni, agente Blake. Sei un sospettato per rapina a mano armata e riciclaggio di denaro sporco. »
 
 



 
*





« Chiudi quella cazzo di bocca, Atom. » La voce di Clarke – la stessa voce che ormai anche lei faticava a riconoscere come propria – imprecò in direzione del ragazzo seduto davanti a lei.

O, più precisamente, del ragazzo che aveva, senza ombra di dubbio ormai, a che fare con l’omicidio di Jake Griffin.

« Pensavo che lo scopo di tutto questo fosse farmi parlare. » Osservò l’altro, sfiorando i bordi delle manette con i pollici e assumendo una finta espressione pensierosa.

« Credi che tutto questo sia un gioco? Allora dimmi, è stato divertente uccidere mio padre? »

Il suo tono tremò sulle ultime tre parole senza che lei potesse fare nulla per impedirlo. Non sapeva dove aveva trovato il coraggio di farlo davvero, prendere la pistola e venire a cercarlo, ma ormai l’aveva fatto, e non c’era nessun modo di tornare indietro, e doveva essere forte. Doveva essere coraggiosa e arrivare fino in fondo.

Quella domanda fu sufficiente a zittire Atom, che contrasse la mascella e sbuffò lievemente, come finalmente consapevole di quello che stesse effettivamente affrontando.

« Non ho ucciso io tuo padre, Clarke. »

Scandì quelle parole con semplicità e lentezza, come se stesse spiegando ad un bambino una regola grammaticale.

« Tu eri lì, Atom. Volevano uccidere anche me. Era per questo che mi avete rapita, per uccidere anche me. Ma tu mi hai lasciata andare, so che eri tu. Quindi ti prego, Atom. » Ripeté nuovamente il suo nome, simile ad una preghiera che potesse essere sufficiente a convincerlo di aiutarla. « Dimmi chi è stato. »

Lui scosse la testa e distolse lo sguardo, incapace di continuare ad assistere a quella preghiera desolante.

« Non farò il tuo nome! » Propose improvvisamente lei, chinandosi e poggiando le mani sulle sue ginocchia, implorandolo perfino con gli occhi.

« Nessuno saprà mai del tuo coinvolgimento nel mio rapimento e non correrai alcun guaio. Non farò il tuo nome, non dirò nulla.
Ti posso offrire dei soldi, ho dei soldi. Aprirò un conto a tuo nome e ti pagherò per il resto della tua vita. Mia madre è un medico, suo marito è un avvocato, posso offrirti copertura sanitaria e tutti i soldi che vuoi. Dimmi solo una cifra e io la pagherò.
Vuoi un appartamento? Vuoi una macchina nuova, un posto di lavoro? Posso darti tutto quello che ti serve, Atom, te lo prometto. Ma ti prego, ti supplico… » Si bloccò improvvisamente, tirando su col naso.

« Ho bisogno della verità. » Mormorò, e i suoi occhi si bagnarono di tutte le lacrime che non aveva mai versato, e di tutta la disperazione che aveva consumato lentamente il suo cuore fino a quel momento.

« Dimmi chi ha ucciso mio padre e io ti trasformerò in un re. »




 
*



 
 
« Rapina a mano armata? Mi prende per il culo? » Alzò la voce Bellamy, che era rimasto immobile mentre il suo capo gli imputava l’ultimo dei crimini che avrebbe potuto commettere.

« Che cazzo… Come cazzo avrei fatto a fare una rapina se vivo qui dentro da più tempo di quanto abbia vissuto nella mia nuova casa? Con quali prove mi sta arrestando? »

« Ho bisogno che tu ti calmi, agente Blake, o sarò costretta a chiamare degli agenti che ti portino via. »

« Fanculo gli agenti, Capitano. Non crederà davvero a questa storia? Non crederà che io abbia commesso una rapina e sia così stupido da usare gli stessi soldi del colpo prima di ripulirli, vero? »

« Quello che hai appena detto non migliora la tua posizione, Bellamy. » Lo ammonì Sidney, guardandolo di traverso.

« Si è forse dimenticata che lavoro all’antidroga? So come funzionano queste cose. »

Il maggiore dei Blake si passò la mano sinistra sul viso, mentre teneva la destra poggiata sul distintivo.

« Mi dica che non crede a questa stronzata, Capitano. Sono stato incastrato. »

« Ho delle prove, Bellamy! » La più anziana si alzò di scatto e si sporse sulla scrivania, puntando l’indice su un fascicolo davanti a sé.

« Hai usato il denaro frutto di una rapina per pagare un conto nella caffetteria al piano di sotto! Ci sono le tue impronte su quelle banconote, e il colpo è stato perfetto. Le telecamere di sorveglianza non sono riuscite a catturare il colpevole e lui non ha lasciato la minima traccia dietro di sé. Si è mosso come una persona addestrata. »

« Le ripeto la mia domanda, signora Sidney, e dopo che avrà risposto forse sarò pronto a sentire dell’altro. »

Il più giovane camminò verso la scrivania e poggiò entrambi i palmi aperti sulle estremità, imponendosi con la sua figura solenne sulla donna e mostrandosi sicuro di sé con la stessa sicurezza che solo un innocente avrebbe mostrato.

« Le sembro il tipo di persona che fa una rapina senza lasciare tracce e poi usa lo stesso denaro sporco per pagare il conto alla caffetteria del suo posto di lavoro? Un Dipartimento di Polizia, per di più? »

Il moro non staccò per un attimo gli occhi da quelli del suo superiore. Sapeva che il suo ragionamento fosse incontestabile e banalmente ovvio, che la persona davanti a sé non potesse davvero credere ad una cosa del genere.

Quando, qualche attimo dopo, lei interruppe il contatto visivo e piegò lievemente il capo, Bellamy seppe di aver conquistato la sua fiducia.
« E allora come spieghi il fatto che tu fossi in possesso di quel denaro, eh? » Lo interrogò lei con voce stanca.

« Poniamo che io ti creda. » Aggiunse qualche attimo dopo. « Dev’esserci un modo per cui quei soldi siano arrivati fino a te. Investimenti, qualche spesa privata. Ti viene in mente niente? »

Il più giovane scosse la testa, ripercorrendo però le entrate di quell’ultimo mese. Non aveva fatto molti acquisti, principalmente perché aveva trascorso la maggior parte del suo tempo a lavoro, ma doveva esserci un momento in cui era entrato a contatto con quei soldi.

Poi, improvvisamente…
 

« Vedrai che andrà tutto bene. » Il ragazzo dagli occhi verdi lo guardò per qualche altro istante, tirando fuori subito dopo una busta di carta dalla tasca anteriore dei jeans.

Quando Bellamy lo vide poggiarla davanti a sé, lo guardò con aria interrogativa.

« È la mia parte di affitto. » Spiegò l’altro.

« No. »

« Andiamo, Bell… »

« Non se ne parla. Sei mio ospite, non il mio coinquilino. »

« E allora lascia che sia il tuo coinquilino. Sai che devi accettarli. Insomma, sono qui ormai da un mese e… voglio contribuire. Non ho intenzione di aggrapparmi così. Non è giusto. »




« Non è possibile. » Sussurrò all’improvviso, percependo la testa girargli per la confusione e l’incredulità.

Diede le spalle al suo capo e si appoggiò alla scrivania, passandosi entrambe le mani fra i capelli e lasciando lo sguardo vagare fuori dalla porta, fra i suoi colleghi, e poi ancora oltre, più lontano, in un luogo sperduto della sua mente.

Fino a quando, però, non incontrò la figura di Monty Green ferma davanti alla sua postazione.
 
 


 
*




 
« Tirati su, Clarke. » La esortò Atom in un sussurro, ancora incapace di guardarla negli occhi.

La giovane Griffin non se lo fece ripetere due volte e scattò in piedi, voltandosi immediatamente nella direzione opposta e impedendogli di vederla in quelle condizioni. Non era così che avrebbe voluto che andassero le cose. Non era andata lì per farsi vedere come una debole. O come martire.

I due rimasero per qualche istante in silenzio, mentre i ruoli di vittima e carnefice si mischiavano fra le loro tristezze, fra la complicatezza delle loro vite e la fragilità delle loro debolezze.

« Ho iniziato a usare stupefacenti un anno dopo che mi trasferii con i miei genitori. La prima volta fu quasi un caso. Un gruppo di ragazzi della mia scuola mi aveva invitato ad una festa, erano le prime persone che conoscevo dopo Bellamy. »

La bionda sussultò impercettibilmente per quel nome, forse impreparata a sentirlo, ma non diede altri segni di voler interferire con le sue parole.

Continuò a dargli le spalle.

« Volevo che mi accettassero. » Confessò Atom. « Volevo essere come lui: forte e carismatico. Un leader.
Solo parecchio tempo dopo mi accorsi che io non ero altro che una sua sfumatura, una brutta copia riuscita male. Non avrei mai potuto essere come lui, se anche solo per farmi sentire dagli altri avevo bisogno di tirare.
Avevo diciotto anni e mio padre era troppo impegnato a lottare una guerra lontana per immaginare che i demoni più vicini fossero quelli di suo figlio, il suo primogenito. Il suo erede. » Calcò con duro sarcasmo sull’ultima parola.

« Prima che me ne accorgessi del tutto, avevo bisogno di farmi perfino per baciare una ragazza. Ero uno smidollato, un perdente, e più pensavo a quello in cui la droga mi aveva trasformato e più ne avevo bisogno per dimenticarmene. Per smettere di riflettere anche solo per mezz’ora. A pensarci ora probabilmente mi sarei ammazzato. » Lasciò andare una risata amara fra i denti.

Quando Clarke si voltò finalmente verso di lui, stupita e ammutolita, i suoi occhi erano già umidi.

« Mi accenderesti una sigaretta? » Le domandò qualche istante dopo, indicando con il capo la tasca destra dei suoi pantaloni.

La giovane non seppe perché, ma lo accontentò.

Prese il pacchetto dalla tasca anteriore, ne tirò fuori una e gliel’appoggiò sulle labbra. Atom riuscì da solo a raggiungere l’accendino nella sua giacca di pelle e, con le mani ancora ammanettate, accese la cicca.

« Immagina la delusione di quell' imponente figura militare quando venne a sapere che il suo campione pippava. E non solo lo faceva, ma rubava perfino i soldi a sua madre per farlo!
Ricordo ancora quando tornò a casa. Aveva scoperto quello che avevo fatto – quello che facevo – ed era così  furioso. Disse che non ero più suo figlio, che suo figlio era morto, e che dovevo uscire da casa sua e non tornarci più. »

Lo sguardo di Atom pareva lontano e distante mentre raccontava per la prima volta a voce alta quello che gli era successo.

La giovane Griffin, dal canto suo, era altrettanto persa nelle sue parole, nella storia che lentamente iniziava ad acquisire senso nella sua mente.

Quando l’altro si voltò improvvisamente verso di lei, e la guardò negli occhi, la bionda non fu sicura di cosa la convinse a sostenere il contatto visivo.

« Non ti sto raccontando questo per farti provare pena nei miei confronti, Clarke, né perché tento di giustificare quello che ho fatto. Voglio solo che tu veda. »

Lei, come stregata, seduta sul letto sfatto e usurato di quella stanza di motel, annuì quasi meccanicamente.

« Da quel momento in poi la mia vita è stata solo un susseguirsi di espedienti per procurarmi la prossima dose. »

Sospirò, e per un attimo la ragazza pensò che fosse tutto lì. Che tutto si riducesse a quello.

« Alla fine sono riuscito a disintossicarmi. » La sorprese. « Mi sono ripulito, ho lavorato su me stesso, su quello che volevo essere. Su chi volevo essere. Prima che potessi cominciare davvero la mia vita, però, qualcuno si era già accorto di me. »

La sua voce si aggravò, e Clarke sentì vivida al centro del petto la sensazione che quello fosse solamente l’inizio.


 
 


 
*




 
 
« Monty? Che diavolo ci fai qui? » Bellamy parlò prima di raggiungerlo del tutto e, quando il ragazzo si voltò verso di lui, la sua espressione sembrò rivelargli già quale fosse il motivo per cui era lì.

« Clarke? » Cambiò immediatamente il timbro di voce, questa volta profondamente preoccupato e allarmato, e vide negli occhi del più giovane un’imminente conferma.

« Credo che stia per fare qualcosa di veramente, veramente brutto. Devi fermarla. » Parlò spaventato l’asiatico, passandogli senza indugio un bigliettino stropicciato.

Sopra c’era un indirizzo.






 
*


 
 
 
 
« Qualcuno si era accorto di me e di quello che avevo fatto per procurarmi ciò di cui avevo bisogno e di chi fosse la mia famiglia. Mi aveva trovato e non c’era alcun modo per evitare che la vergogna ricoprisse il nome di mio padre.
Nessun modo, se non- »

« Se non lavorare per lui… » Concluse Clarke al posto suo, attonita.

« Vedo che inizi a rimettere insieme i pezzi. » Atom aspirò l’ultimo tirò dalla cicca e la fece cadere a terra, spegnendola con la suola delle scarpe.

« Ma perché trascinare Bellamy in tutto questo? »

« Non è con Bellamy che è iniziato tutto. Lavoravo per quest’uomo ogni volta che me lo chiedeva e so di non essere l’unico. So che c’erano altri che ricattava e che usava per i suoi scopi. Io avevo sempre le stesse missioni: rapine, furti, questioni informatiche. Lui aveva bisogno di qualcuno addestrato, capace, e io avevo bisogno che mantenesse il mio segreto. E paradossalmente la situazione è stata perfino stabile, per un po’. Almeno finché- »

« Finché non ha ucciso mio padre. »

« Finché tu non hai iniziato a dubitare che tuo padre non fosse veramente morto per un infarto. Fino a che non ha iniziato a tenerti d’occhio. Lui ti ha sempre  tenuta d’occhio, Clarke. »

Prima che la bionda potesse replicare, il giovane Ward continuò a parlare: « Immagina la sua sorpresa quando tu ti sei avvicinata all’agente Blake. Il mio migliore amico d’infanzia. » Sollevò le sopracciglia.

« Disse che sei proprio come tua madre: incapace di non innamorarti del primo uomo che ti dedichi un minimo di affetto. »

La giovane Griffin scattò sul posto, stringendo i pugni e mordendosi l’interno della guancia, senza però riuscire a ribattere nulla.

Atom accennò un vago sorriso consapevole e continuò.

« Devo ammettere che gliel’avete davvero resa facile. Insomma, tu, il suo primo bersaglio, il suo obiettivo numero uno, improvvisamente coinvolta con un agente federale di mia conoscenza. Per lui è stata come la mattina di Natale. Non ci è voluto molto prima che mi chiedesse di riavvicinarmi a Bellamy. »

Sebbene fosse tornato ad usare il suo solito tono strafottente e spietato, Clarke non poteva fare a meno di riuscire a leggere nei suoi occhi l’ardore della disperazione e il dolore della sconfitta. Non ora che sapeva quello che aveva dovuto affrontare.

« Ma tu mi hai salvato la vita. » Sussurrò, confusa e disorientata e sconcertata e sì, totalmente terrorizzata.

« Hai rischiato la tua vita per salvare la mia. Hai disobbedito. Hai perso tutto quello per cui hai lottato. »

« Potrò essere un drogato, Clarke, o un codardo, ma non sono un assassino. »

La bionda lo guardò disperatamente, cercando sul suo volto il segno della cattiveria che avrebbe potuto giustificare tutto l’odio con cui aveva preso quella pistola, era salita in macchina e l’aveva puntata contro di lui, ma non trovò nulla di tutto quello.

Lei stava guardando esattamente se stessa.

« Dimmi chi è… » Lo implorò per l’ultima volta, mentre il proprio volto si contorceva in una maschera di tormento.

Atom puntò gli occhi verdi su di lei, fermi e sicuri come mai lo erano stati fino a quel momento, e annuì una sola volta, solennemente.

Dentro di sé pensò che probabilmente assomigliava più ora a suo padre di quanto l’avesse mai fatto prima.

« È- »

Prima che potesse continuare la frase, però, ci fu un fragoroso colpo alla porta e prima che uno dei due avesse l’occasione di fare qualcosa, improvvisamente la stanza si riempì di poliziotti armati che urlavano di stare fermi e non muoversi.

Lo sguardo sgomento di Clarke volò in più direzioni in un unico secondo, verso Atom e la pistola che teneva fra le mani e gli agenti armati che le intimavano di lasciar andare l’arma e il sole che tramontava alle loro spalle, fino a posarsi su di un altro, su un paio di occhi che mai si sarebbe aspettata di vedere in quel momento, o in quel luogo.

Senza ragionare, senza pensare a quali sarebbero potute essere le conseguenze, urlò angosciosamente e si gettò nella direzione del ragazzo già ammanettato.

Non arrivò mai, però, perché un petto forte si scontrò contro il suo e una mano le strappò l’arma e subito dopo due paia di braccia si avvolsero attorno alla sua schiena, immobilizzandola.

« No! » Gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, mentre ogni cosa intorno a lei si muoveva troppo velocemente, dandole l’impressione di essere bloccata fra le sabbie mobili.

Si sporse col volto oltre la spalla del corpo che la stava tenendo ferma – il corpo di Bellamy – e allungò un braccio verso Atom.

« Dimmi chi è! »

I due scambiarono uno sguardo che mai, per tutto il resto della propria vita, Clarke avrebbe potuto dimenticare, e prima di qualsiasi altra cosa il giovane Ward fu trascinato fuori dalla stanza.





 
  
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