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Autore: TimesNewMozzi    30/08/2015    1 recensioni
«Maestro, posso farle una domanda? » Non recise il legame visivo col vecchio, sembrava deciso a non farlo mai più finché gli occhi di uno dei due non si fossero chiusi.
« Se devi farmi una domanda questo è il momento, se devi farmene molte forse è troppo tardi, ma non ho forza né intenzione di muovermi da queste coperte, quindi parla, e io risponderò, e continuerò a risponderti finché queste secche labbra riusciranno a vibrare. »
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il filosofo


Nella notte tutti i vicini si radunarono attorno alla grande villa, alcuni si spinsero fino alle finestre cercando di spiare all’interno, altri, più coraggiosi e impiccioni, tentarono di entrarvi all’interno, ma nessuno riuscì a vedere nulla.
Le tombe sono fatte per essere impenetrabili, dall’interno e dall’esterno, e in quella notte nulla entrò i quella tomba, nulla di ciò che vi era dentro uscì immutato.
Al piano superiore, steso su un piccolo letto a baldacchino di legno di quercia, un vecchio dal capo canuto stava steso immobile come la cera di una candela fredda, debole come la stessa quando una fiamma viene avvicinata.
La stanza era illuminata solamente da un paio di lampade ad olio che bruciavano e diffondevano un piacevole odore in tutto il piano grazie ai profumi dissolti nel loro carburante. Ai lati del letto stavano solo due persone, un alto uomo vestito di nero con un collare candido più della neve che cadeva fuori dalla finestra e copriva le spalle dei curiosi ghiacciando i loro cappotti; l’altro era un ragazzo vicino alla maggiore età, capelli castani corti e una giacca di pelle larga dalla quale spuntava una camicia stropicciata. Era in preda ad una forte agitazione, quella di un animale che sa di stare andando al macello e scalcia, ma internamente immagina i suoi ultimi momenti e arriva ad accettarli, l’agitazione di un soldato di trincea che vede i propri vicini scaraventati per aria da una sfera di metallo e riconosce tra i corpi quello di un suo amico e spera che sia vivo, anche se in fondo alla sua coscienza la verità è già maturata.
Il prete si fece il segno della croce e si mise dritto, era stato piegato a sussurrare all’orecchio del vecchio steso nel letto per alcuni minuti, ora sembrava aver esaurito il proprio arsenale.
« Ragazzo, io non ho più modo di convincerlo, prova a farlo tu, per lui, aiutalo ad accettare la benedizione prima che sia troppo tardi. » E dicendo ciò si incamminò verso la porta, che richiuse dietro di sé aggiungendo «Tornerò da qualche minuto» poi scomparve dietro la spessa tavola di tasso tirandola per il lucido pomello d’ottone, piccolo per la sua mano, progettato per un corpo molto diverso dal suo, più fragile e minuto.
L’ombra che la porta dipinse sulla stanza andò a coprire per un attimo il volto dell’uomo morente, poi la luce tornò sui suoi occhi, che fino ad allora erano rimasti vacui e vuoti di quella luce brillante e potente che li aveva sempre animati, e li riaccese. Le sue larghe e liquide pupille color castagna si conficcarono tra gli zigomi del ragazzo che singhiozzava al suo fianco col volto chinato e le mani avvolte attorno a quella del suo maestro, come due anelli vicini di una catena si avvolgono attorno ad un terzo tra loro e gli impediscono di lasciare il gioiello.
« A chi rivolgi il tuo pianto, ragazzo? Se piangi per me guardami, perché sono ancora qui, e asciugati le lacrime, per la medesima ragione. Se invece piangi per quella vecchia mano allora mi zittirò, son tanti anni che ha smesso di vivere e io stesso mi sono spesso intristito per la sua assenza. » L’espressione sul volto del vecchio sarebbe potuta essere un sorriso se solo le parti del suo volto avessero avuto la forza di agire insieme e comporre un’espressione rilassata invece che quel misto di sforzo e fatica che aveva ormai preso residenza su di esso ormai da un paio di mesi.
Il ragazzo ci mise un po’, ma poi alzò lo sguardo e incontrò quello del signore, che sembrava sul punto di sfuggire dal proprio corpo da un momento all’altro.  
«Maestro, posso farle una domanda? » Non recise il legame visivo col vecchio, sembrava deciso a non farlo mai più finché gli occhi di uno dei due non si fossero chiusi.
« Se devi farmi una domanda questo è il momento, se devi farmene molte forse è troppo tardi, ma non ho forza né intenzione di muovermi da queste coperte, quindi parla, e io risponderò, e continuerò a risponderti finché queste secche labbra riusciranno a vibrare. »
Il suono della saliva scesa attraverso la gola del giovane in piedi riecheggiò in tutta la stanza rimbalzando tra le pareti di legno e sfuggendo nella notte facendo ondeggiare nel più minuscolo, microscopico, impercettibile dei modi le torce di quei popolani che ancora resistevano alla pesante neve che pesava sempre più sulle loro ossa e gelava i loro muscoli, irrigidendo anche la loro curiosità.
« Non voglio convincerla a parlare con quel prete, ma perché non cerca conforto? Non c’è nulla di cui ha paura, niente per cui senta il desiderio di una parola di conforto, anche di un versetto consolatorio, per quanto ipocrita possa sembrarle? » Lo disse con la voce e l’espressione preoccupata, più terrorizzato dalla morte lui, vivo e in piena salute, dell’altro in punto di morte e azzannato in ogni punto del suo corpo dalla malattia.
«Guardati intorno, osserva con attenzione, siamo in una comoda stanza di una grande casa illuminata nel mezzo della notte, lupi e altre belve feroci ululano lontano da queste mura, tra i rami affilati dei pini, con le zampe zuppe d’acqua e i denti di sangue; noi siamo qui, io sono qui avvolto tra le soffici coperte del mio letto con un caro amico al mio fianco, oh non mentire con la tua umiltà, un amico che piange per confortarmi. Puoi trovare in questo quadro una ragione di disperazione, di paura? Non c’è buio nei miei occhi, il dolore è cessato da molto ormai e non c’è incertezza nel mio futuro, non ci sono preoccupazioni, eventi, la mano del caso non può più toccarmi. C’è davvero qualcosa di cui dovrei preoccuparmi? »
Il maestro rispondeva con domande, come sempre quando si trovavano a ragionare, niente era mai risolto, nessun assoluto, nessuna decisione o punto fermo, tutto era contestato e analizzato, anche le domande, tutte le domande, ed era raro ricevere una risposta pura che non fosse condita con un nuovo interrogativo.
Il ragazzo scosse la testa impercettibilmente, come aveva imparato a fare quando la frustrazione lo colpiva, tempo prima avrebbe preso a saltare e a sbraitare che il maestro non capiva le sue parole e non sembrasse ragionare come un essere umano, a piccole gocce comunque la saggezza aveva lavato via, col passare dei giorni, questo lato del suo carattere, e ora riusciva a capire quanto i ragionamenti del maestro fossero aderenti alla sua domanda e la colpa di quegli interrogativi che gli venivano rivolti fosse interamente dell’incompletezza del suo pensiero, non di quello del maestro.
Sospirò, il giovane, cercando di trovare nuove parole « Ho sbagliato con le mie parole, non è la morte in sé ciò che suppongo debba fare paura, piuttosto gli attimi prima della morte. Mi dica, maestro, può non avere paura dell’attimo di sconforto e dubbio che precede la fine? Quell’attimo in cui, per quanto ragionevole, l’uomo si trova a desiderare più tempo, più possibilità di assaporare la vita; quell’attimo in cui ci si sente traditi dal mondo che ci fa una tale ingiustizia come quella della morte. Non c’è timore nel suo animo tale una parola di conforto potrebbe alleviare? » Ora sembrava, non fosse per la perenne espressione di tristezza, quasi soddisfatto del proprio pensiero e delle parole scelte per esprimerlo.
Il maestro alzò lo sguardo dagli occhi del giovane istintivamente, quando pensava tendeva a farlo e il suo sguardo di perdeva nei muri della casa o nel blu del cielo, in qualunque cosa omogenea che non stimolasse i suoi sensi e gli permettesse di concentrarsi solamente sul codice nella sua testa, sugli algoritmi e sulle parole che ogni secondo testavano le sue convinzioni cercando la risposta ad una domanda assillante.
« Devo, perché il mio carattere e il mio pensiero me lo impone, partire da lontano per rispondere alla tua domanda, perché per me la morte è un grande evento, o una grande catastrofe, in ogni caso l’espressione pura della potenza delle forze naturali. Le scienze biologiche ci insegnano che ogni cosa vivente è fatta di cellule, piccole camere, pillole di vita che fuse insieme danno origine ai grandi organismi come noi uomini. Altre ci parlano di come l’aria si muova e diventi venti e tempeste terribili, e tra i suoi strati generi velocissimi e letali fulmini che attraversano l’intero cielo più velocemente di quanto una palpebra riesce a raggiungere l’altra; oppure descrivono come la Terra in certi momenti della storia prenda vita e si stiri rompendosi e inghiottendo intere città. Tutto ciò è accomunato da una cosa, l’impotenza dell’essere umano. È vero, possiamo, ad esempio, catturare un fulmine se usiamo un lungo filo e un aquilone, o mantenere in salute le nostre cellule se facciamo esercizio, ma questi non sono che giochi di fronte alla forza inarrestabile della natura, se un fulmine è abbastanza intenso brucerà il nostro aquilone, una malattia mortale ucciderà anche l’atleta più diligente e talentuoso.
Di fronte a questi pensieri, all’infinitezza del mondo e all’infinitesimità dell’uomo si può provare paura, oppure meraviglia. E qui, infine, torna la Morte. Anch’essa è un’espressione della forza naturale, l’ultimo passo della vita, è il modo del mondo di tornare all’inizio e permettere alla vita di ricominciare e non c’è cosa che l’uomo possa fare per convincerla a continuare, non esiste impresa che possa cancellare il taglio delle Moire.
Di fronte alla Morte io ho scelto di provare meraviglia, perché la paura è un istinto da battaglia, ci permette di diventare forti e veloci per combattere una bestia o di scappare di fronte al suo branco; purtroppo non ho modo di fare né l’una ne l’altra cosa con la Morte, tutto ciò che posso fare è accoglierla nella mia casa, nel mio corpo;  in questa estrema debolezza trovo una bellezza incomparabile. Non c’è momento di più grande vulnerabilità che quello della Morte, per questo quel momento è anche quello di maggior libertà: tutto ciò che fai e pensi avrà un’unica conseguenza, l’ultima conseguenza, quindi tutto può essere fatto e tutto verrà perdonato.
Alla morte io attribuisco quel carattere che la Filosofia ha battezzato come “Sublime”, quella meraviglia travolgente e terrificante che colpisce quando ci si trova di fronte a una forza inarrestabile, questa è la mia Morte, l’ultimo capolavoro che avrò l’opportunità di sentire prima di addormentarmi. »
Il giovane lo vede zittirsi e piegarsi su sé stesso, indebolito da quel pensare e quel lungo monologo, ma fu lieto di avere una risposta, fu felice di poter capire cosa passasse per la testa del maestro, almeno questa volta, per questo azzardò solo un’altra domanda a riguardo, sapeva già la risposta ma voleva che il maestro la mettesse in chiaro, questo era l’ultimo capitolo e tutto quello che non era stato detto doveva essere spiegato.
« E dopo la Morte? » lo disse con un’insicurezza tale che anche il vecchio, in quei suoi ultimi minuti capì che nemmeno lui la riteneva una domanda importante.
« Ragazzo mio, io sono uomo, son fatto di carne e pelle e ossa e cervello, di ciò che non stuzzica nulla di essi non mi preoccupo, non è affar mio. »
Sorrisero debolmente entrambi mentre una serie di passi iniziava a farsi sentire facendo vibrare il pavimento. Il prete bussò e si sporse dalla porta proprio mentre il ragazzo poneva la sua ultima domanda.
« C’è un’ultima cosa che posso fare per il mio maestro? »
E il vecchio rispose senza esitazione, come se avesse pianificato quelle parole da tanto tempo e avesse provato ogni loro sillaba.
« Va’ a dormire, torna a casa e riposa, poi, tra qualche giorno, porta dei fiori sulla lapide di questo vecchio, non devono essere belli, solo, colorati: non mi è mai piaciuto il grigio dei cimiteri. Va’! » E dicendo così lo spinse con la mano all’altezza dell’anca, il giovane si inchinò lievemente, gesto che aveva preso dagli orientali che visitavano ogni tanto quelle lande e che lo aveva tanto affascinato. C’era in quella tradizione una magia che gli occidentali non avevano mai imparato a padroneggiare e che, anzi, sembrava sempre spaventarli; un inchino è un gesto di rispetto, di suprema devozione, è come urlare “Ti porgo il mio collo, fanne ciò che desideri” e allo stesso tempo sapere che l’interlocutore terrà le sue armi nei loro foderi. Rispetto e fiducia, come poteva decidere di onorare il proprio maestro se non dicendo questo quindi, in punto di morte, se non rivelando per un’ultima volta che anche in quegli ultimi momenti si sarebbe volentieri sottomesso al suo volere, non per paura, sarebbe scappato altrimenti, semplicemente per affetto.
Il giovane e il prete si scambiarono di posto, si regalarono un breve sguardo col quale il prelato tentò di carpire il risultato della conversazione dei due, ma non trovando nulla tornò a voltarsi verso il moribondo; lui andava a dare un finto addio ad un morto sordo e riluttante ad ascoltare, l’altro usciva da quella tomba diverso, con un morto loquace nelle orecchie che sembrava aver riacquistato tutto il proprio vigore, come se l’aver abbandonato il proprio corpo gli avesse permesso di infestare quello del giovane, di sedersi sulla sua spalla come un gargoyle sul doccione di una chiesa, deciso a non abbandonare mai quella posizione: Il futuro che vedeva da lassù era troppo luminoso per essere abbandonato, e il giovane Immanuel seppe per tutta la sua vita che, in una parte nascosta della sua mente, abitava un saggio vecchio che sussurrava consigli e rimproveri. 
  
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