VI
Non aveva ancora capito se quella fosse stata una tecnica di abbordaggio o cosa.
Cosa? Cosa voleva quella ragazza? Fare amicizia e basta? Ma chi più, al giorno d’oggi, voleva fare amicizia e basta? Con lui, poi.
Quella Marina non gliela raccontava giusta. Ormai la vedeva così spesso che gli sembrava di conoscerla, quando in realtà a stento ci aveva scambiato due parole e lei insisteva a trattarlo come se la sua vita le riguardasse. Come se si conoscessero da sempre.
Quella notte aveva riposato male, un po’ per il dolore alla spalla provocatogli da Ben, un po’ per tutta quella strana situazione che stava vivendo: Marina, l’Hawking Pub, Ben. Ben, soprattutto, che ultimamente riceveva visite da persone diverse, ma tutte con la stessa aria, lo stesso atteggiamento e una valigetta da lavoro. Era preoccupato, per questo: era convinto che gli stesse nascondendo qualcosa, ma a causa di Jeffry non riusciva mai ad origliare per più di un minuto, era sempre lì ad aspettarlo sulle scale e non credeva che fosse una casualità.
Sua nonna lo aveva messo in guardia, diceva sempre che quando qualcuno entra in una casa è sempre per lasciarci qualcosa. Ma cosa?
A parte l’insignificante fatto che quel mese sarebbero andati in rosso per la risonanza di sua nonna, il suo fratellastro lo stava coinvolgendo in qualcosa da cui voleva stare alla larga. Quando si era presentato in biblioteca il giorno prima, con quel foglietto, aveva rifiutato l’incarico che voleva affidargli, ma lui non ci mise molto a passare alle minacce: se non fosse andato a quell’appuntamento, avrebbe detto a Ben che la metà dei soldi che guadagnava, li spendeva per sua nonna. In quel caso, Evangeline sarebbe stata sfrattata dall’ospizio perché il suo patrigno avrebbe preso in gestione il suo conto corrente e purtroppo per lui, non era difficile che ci riuscisse, era un uomo dalle molte – troppe – conoscenze. Se non fosse stato in grado di lavorare, le cose per lui sarebbero finite molto, molto male. Avrebbero potuto cacciarlo di casa e non aprire la porta per giorni. Era già capitato.
Così, quella sera avrebbe dovuto armarsi di forza di volontà ed uscire verso mezzanotte per dirigersi in una bettola di periferia, per avere la consegna di Jef. Ovviamente, i soldi che chiunque avesse trovato avrebbe voluto in cambio, dovevano uscire dalla sua tasca.
Quella storia non gli piaceva, non gli piaceva per niente, ma non aveva altra scelta.
Quel pomeriggio, Marina non era in biblioteca e non c’era stata nemmeno quella mattina. Tra un po’ avrebbe chiuso la porta e sarebbe uscito di lì, senza sapere bene come sarebbe finita quella giornata. Quando fu fuori e il freddo gli penetrò le ossa, si sentì più stanco del solito, anche se erano solo le 18:00 e il cielo era sereno. Magari prima di tornare a casa poteva passare al cimitero da sua madre.
Montò in sella e cominciò a pedalare, lungo le strade la gente affollava i marciapiedi e spesso si fermava a far attraversare qualche vecchietta infreddolita. Il freddo e l’aria pulita di quella zona poco trafficata lo fecero rinvenire da quello stato di dormiveglia in cui era precipitato, portandolo a strofinarsi gli occhi e a sbadigliare. Quando riprese la marcia e svoltò l’angolo, pensò di essere davvero perseguitato da quella donna: era lì che attraversava la strada insieme alla stessa ragazza incinta che aveva visto quella volta al caffè. Era deciso ad ignorare la sua presenza e sperò che lei non lo notasse, mentre rallentava per deviare la sua traiettoria e lasciarsele alle spalle, ma non fece in tempo ad arrivare neanche alle strisce pedonali che dovette fermarsi di botto. La ragazza in dolce attesa era ferma in mezzo alla strada e non si muoveva. Non capì perché si fossero fermate finchè non la sentì urlare, lasciandosi cadere sulle ginocchia: c’era chiaramente qualcosa che non andava.
Sentì la voce di Marina urlare, mentre posava un piede a terra per fermarsi definitivamente.
- Jody! Jody, cosa succede?
- Aiuto!
- Calmati. – riuscì soltanto a dire. Non poteva negarle il suo aiuto.
- Dobbiamo chiamare l’ambulanza! – fece lei, quasi senza fiato.
- Sono Edward Sheeran e mi trovo in Privet Drive, c’è una donna incinta che sta male. No, non so cos’abbia, non riesce a parlare. – Marina lo guardò, terrorizzata e pallida.
- Marina – la chiamò per nome, come se fosse naturale. Lei si girò, forse non ci fece troppo caso. – Portiamola su quella panchina, non potete stare in mezzo alla strada.
Quando si fu accovacciato anche lui, prese il braccio della donna senza troppo timore e cercò di sollevarla. Fu inevitabile per lui toccare Marina, sentire lo spessore del suo braccio contro il proprio, ma non era certo il momento di pensarci.
La ragazza non riusciva a camminare, dovettero quasi trascinarla fino alla panchina e cercarono di farvela sedere piano. Respirava pesantemente quando la lasciò per andare a recuperare la bicicletta, prima che qualche auto la schiacciasse, poi tornò subito da lei, non sentendosela di andarsene e lasciarla sola con una donna in travaglio.
- Resisti, Jody, i soccorsi arriveranno a momenti.
- Tu… - disse, rivolta a lui. – Ti chiami Edward?
- Scusa se ti disturbo ancora, potresti farmi fare una telefonata?
- Grazie, io… - la vide portarsi una mano ai capelli e la sua gola si seccò nel notare le sue gote rosse. - …scusa, per tutto.
- No, non- - tentò – non ti preoccupare. – fece, agitandosi.
- Vengo con voi! – disse Marina all’infermiere.
- È una parente?
- Oddio.
Ed allargò istintivamente le braccia, spaventato da quel contatto così improvviso. Si sforzò di poggiarle una mano sulla spalla, ma non sapeva se sarebbe servito a qualcosa.
- Lei è una gravidanza a rischio. – lo informò. – Potrebbe perdere il bambino.
Ancora non capiva come si era ritrovato in quella situazione. Quella benedetta ragazza era ovunque, sempre ed ora piangeva sulla sua spalla. Era piccola e bassina, le sue braccia riuscivano appena a circondargli il collo, ora. Come riuscisse a comportarsi così, non lo sapeva, l’unica cosa di cui era sicuro era che si sentiva troppo agitato, davvero troppo.
Sentì il suo profumo salirgli alle narici, sapeva di lavanda e rose. Quell’insieme di lacrime e singhiozzi cominciò a svanire gradualmente, finchè non sentì il suo respiro tornare regolare.
Era chiaro che non potesse andare in ospedale e lui non poteva certo accompagnarla in bici fin lì. Tra loro e Jody ormai c’erano una ventina di chilometri.
- Scusa. – disse, alzando il viso.
- Ma no…non fa niente. – rispose, in quell’imbarazzante posizione in cui lui era inerme e lei aggrappata alle sue spalle.
- Se vuoi puoi andare, non voglio trattenerti oltre. – fece lei, cogliendo il suo imbarazzo.
- Vuoi…
- Possiamo…
- Ti va un caffè?!
Lei lo fissò senza vergogna, senza cercare di nascondere il suo stato di shock nel sentire quelle parole. Si sentì uno stupido in piena regola e abbassò lo sguardo mentre faceva un passo indietro. Povero illuso, cosa aveva cercato di fare? Forse lei non era diversa dalle altre, diversa da tutti.
- Va bene. – la voce era un sibilo.
Con i suoi capelli spettinati e gli occhi dilatati, chiuse la bocca e in silenzio, prese la bici.
Cominciarono a camminare lungo quella strada e quasi non osava guardarla. Aveva una tale vergogna di quella sua goffaggine: l’aveva invitata a prendere un caffè a quell’ora e mentre la sua amica correva all’ospedale. Si tormentava le mani, ancora agitata.
- Tieni. – le porse il suo cellulare, di nuovo. – Chiama in ospedale.
Aveva una paura fottuta ad ogni passo che faceva. Cosa gli era passato per la testa?
Alzò gli occhi al cielo e chiese mentalmente a sua madre se quella fosse per lui la cosa giusta.
Era davvero una cosa fuori dall’ordinario, per lui, invitare qualcuno a prendere un caffè. Non aveva contatti con qualcuno che non fosse sua nonna dal giorno dell’incidente di sua madre e lei era la prima ad avere l’onore di sentire la sua voce e di ricevere un suo invito.
Erano seduti in quel vecchio bar da pochi secondi, nell’angolino più remoto e riservato, come se avesse paura di essere visto. Aveva una logica, in un certo senso, dato che Jeffry aveva fatto allontanare i suoi amici in un batter d’occhio, quindi forse il suo inconscio stava solo attivando un meccanismo di difesa. Qualcuno potrebbe dire che questo suo benedetto inconscio dovrebbe farsi un po’ i fatti suoi, ma non c’era da lamentarsi, perché il solo fatto che fosse seduto su quel minuscolo divanetto accanto a lei, era un grande esercizio di coscienza. In realtà, nel profondo, avrebbe voluto scappare il più lontano possibile. Gli esseri umani non facevano per lui.
- Ha avuto un distacco della placenta. – disse Marina, guardando ancora lo schermo. – Ma sembra che siano intervenuti in tempo.
- Meno male. – disse, coraggiosamente.
- Per la signorina un the, per me un caffè. Grazie.
- Pare che ci incontriamo spesso. – disse lei.
- Già. – rispose annuendo, come se fossero le uniche parole da dire.
- Allora, piacere. – la sua mano era tesa nel poco spazio che li divideva.
- P-Piacere. – rispose, ricambiando la stretta. Anche le sue mani erano piccole.
- Quindi, il tuo nome è Edward. Come sai il mio?
- Sabato…l’altra cameriera ti ha chiamato per nome. Ed anche Kathy. – spiegò lui, rivivendo quel momento nella sua mente.
- Caspita, hai una buona memoria. – disse lei, quasi di proposito.
- Ho capito che sei timido, scusa se sono così invadente. È il mio carattere. – lo disse mentre immergeva la bustina di the nell’acqua.
- L’avevo capito. – rispose. Quel giorno si sentiva proprio un eroe, riuscendo a rispondere normalmente a qualcuno. A lei.
- Allora, Edward, si può sapere chi sei? – lui la guardò, confuso. – Un giorno mi sembra di darti fastidio e un altro ci prendiamo un caffè. – cercò di spiegare lei.
- Oh. Beh…diciamo che “è il mio carattere”.
- Non ti fidi molto delle persone.
- No. Per niente. – disse lui, quasi seccamente.
- Quanti lavori hai? – fece, sorseggiando il the. Il profumo di vaniglia lo distraeva.
- Lavoro in biblioteca, arrangio qualcosa suonando e faccio il cameriere. – fece una pausa prima di aggiungere – Ma tanto lo sai.
- Tu… - cominciò, perdendo quel barlume di sarcasmo. - …cosa fai?
- Io insegno in una scuola dell’infanzia, con Jody.
- E cosa vieni a fare in biblioteca? – mamma mia, due domande in meno di un minuto. Era un record.
- Sto preparando la tesi per la specializzazione e non ho tutti i libri che mi servono.
- Oh, capisco.
- Tu…sei solo? – chiese, senza guardarlo.
- Cosa intendi?
- Se sei solo, qui o hai una famiglia, una…fidanzata.
- I-io vivo col mio patrigno e il mio fratellastro. – si affrettò a dire, per cancellare la parola fidanzata dalla sua testa. – E poi c’è mia nonna.
- Tua madre e tuo padre? – chiese, guardandolo di nuovo, simulando naturalezza.
- È morta 5 anni fa in un incidente, dopo che mio padre l'aveva lasciata. – la vide sbiancare, pronta a scusarsi per la domanda, ma la fermò. – Non preoccuparti. T-tu, invece?
- Io – rispose, ancora in imbarazzo. – vivo sola. I miei sono a Londra, io mi sono trasferita qui da un paio d’anni, perché ho trovato lavoro in quella scuola.
- E perché lavori all’Hawking? – chiese, inaspettatamente curioso.
- Ho conosciuto Pit, il proprietario, una sera che sono uscita con Jody e mi disse che cercava una cameriera. A me serviva un lavoro part-time per arrotondare e così…A proposito, sei bravo con la chitarra. – sorrise. – Sabato suonerai ancora?
- Grazie, io… - quel complimento lo fece andare in tilt, facendogli passare una mano tra i capelli. - …sì, il proprietario mi ha chiesto di tornare.
- Cerca di non evitarmi stavolta. – rise lei, col naso nella tazza.
Per un po’ stettero in silenzio, finchè lei non prese a parlare di nuovo, chiedendogli quando avesse cominciato a suonare. Lo stava invitando a nozze.
- Quando avevo 5 anni, mio padre mi comprò una chitarra per bambini e da allora non l’ho più mollata. Ho imparato a suonare anche altri strumenti, come il violoncello, il basso, la batteria, ma nessuno mi identifica come la chitarra.
Quando il suo cellulare squillò, si accorse che erano le 21:07 e Ben lo avrebbe ammazzato. Per fortuna lei convenne che fosse il caso di rientrare. Fecero un tratto di strada insieme e poi all’incrocio si salutarono.
- Scusami ancora, Edward. E grazie per il the.
- Ho solo ricambiato il favore. – disse, l’anima che vibrava ancora.
- Ci vediamo domani, in biblioteca. Ciao.
Angolo autrice:
Ciao gentaglia, torniamo a guardare il mondo dagli occhi di Ed. Pian piano la storia comincia a farsi più interessante e proprio da qui comincerete a vedere i primi sviluppi. :)
Spero che intanto non vi stia annoiando, ma purtroppo - contrariamente alla mia iniziale volontà - ho preso questa storia alla lunga e mantenere un reale filo logico nei suoi avvenimenti, mi richiede anche diverse ricerche. Abbiate pazienza, il meglio sta arrivando!
Vi ringrazio infinitamente per le visite e le recensioni, soprattutto un grazie a GinevraMollyArkanian, che puntualmente recensisce la storia. Ciaone :D
Fatemi sapere cosa pensate della storia e del capitolo e se vi fa piacere aggiungete la storia alle seguite, ricordate o preferite.
Approfitto di questo spazio per ringraziarvi ancora del numero stratosferico di visite che ha accumulato Afire Love, ormai nelle preferite di 10 lettori. Per me un grande risultato. ^-^
Non vi annoio oltre.
Alla prossima! :)
S.