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Autore: Sea    31/08/2015    2 recensioni
Il ragazzo della biblioteca è il classico esempio di ragazzo emarginato, lontano dalla società e dai contatti amichevoli, ma dietro il suo aspetto e i suoi modi c'è una storia complessa, una grave perdita. La vita sembra essersi stancata di lui, ma Ed continua ad andare al lavoro e a combattere contro il suo patrigno e il suo fratellastro per non perdere l'eredità di suo nonno: la sua casa. Sua nonna e la sua chitarra sono le uniche cose che gli restano, ma gli eventi prenderanno una piega inaspettata e tra un lavoro e l'altro, Marina entrerà prepotentemente nella sua vita.
Ecco una nuova storia dopo Afire Love! Spero di non deludere le aspettative. :)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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VI


 

Non aveva ancora capito se quella fosse stata una tecnica di abbordaggio o cosa.
Cosa? Cosa voleva quella ragazza? Fare amicizia e basta? Ma chi più, al giorno d’oggi, voleva fare amicizia e basta? Con lui, poi.
Quella Marina non gliela raccontava giusta. Ormai la vedeva così spesso che gli sembrava di conoscerla, quando in realtà a stento ci aveva scambiato due parole e lei insisteva a trattarlo come se la sua vita le riguardasse. Come se si conoscessero da sempre.
Quella notte aveva riposato male, un po’ per il dolore alla spalla provocatogli da Ben, un po’ per tutta quella strana situazione che stava vivendo: Marina, l’Hawking Pub, Ben. Ben, soprattutto, che ultimamente riceveva visite da persone diverse, ma tutte con la stessa aria, lo stesso atteggiamento e una valigetta da lavoro. Era preoccupato, per questo: era convinto che gli stesse nascondendo qualcosa, ma a causa di Jeffry non riusciva mai ad origliare per più di un minuto, era sempre lì ad aspettarlo sulle scale e non credeva che fosse una casualità.
Sua nonna lo aveva messo in guardia, diceva sempre che quando qualcuno entra in una casa è sempre per lasciarci qualcosa. Ma cosa?
A parte l’insignificante fatto che quel mese sarebbero andati in rosso per la risonanza di sua nonna, il suo fratellastro lo stava coinvolgendo in qualcosa da cui voleva stare alla larga. Quando si era presentato in biblioteca il giorno prima, con quel foglietto, aveva rifiutato l’incarico che voleva affidargli, ma lui non ci mise molto a passare alle minacce: se non fosse andato a quell’appuntamento, avrebbe detto a Ben che la metà dei soldi che guadagnava, li spendeva per sua nonna. In quel caso, Evangeline sarebbe stata sfrattata dall’ospizio perché il suo patrigno avrebbe preso in gestione il suo conto corrente e purtroppo per lui, non era difficile che ci riuscisse, era un uomo dalle molte – troppe – conoscenze. Se non fosse stato in grado di lavorare, le cose per lui sarebbero finite molto, molto male. Avrebbero potuto cacciarlo di casa e non aprire la porta per giorni. Era già capitato.
Così, quella sera avrebbe dovuto armarsi di forza di volontà ed uscire verso mezzanotte per dirigersi in una bettola di periferia, per avere la consegna di Jef. Ovviamente, i soldi che chiunque avesse trovato avrebbe voluto in cambio, dovevano uscire dalla sua tasca.
Quella storia non gli piaceva, non gli piaceva per niente, ma non aveva altra scelta.
Quel pomeriggio, Marina non era in biblioteca e non c’era stata nemmeno quella mattina. Tra un po’ avrebbe chiuso la porta e sarebbe uscito di lì, senza sapere bene come sarebbe finita quella giornata. Quando fu fuori e il freddo gli penetrò le ossa, si sentì più stanco del solito, anche se erano solo le 18:00 e il cielo era sereno. Magari prima di tornare a casa poteva passare al cimitero da sua madre.
Montò in sella e cominciò a pedalare, lungo le strade la gente affollava i marciapiedi e spesso si fermava a far attraversare qualche vecchietta infreddolita. Il freddo e l’aria pulita di quella zona poco trafficata lo fecero rinvenire da quello stato di dormiveglia in cui era precipitato, portandolo a strofinarsi gli occhi e a sbadigliare. Quando riprese la marcia e svoltò l’angolo, pensò di essere davvero perseguitato da quella donna: era lì che attraversava la strada insieme alla stessa ragazza incinta che aveva visto quella volta al caffè. Era deciso ad ignorare la sua presenza e sperò che lei non lo notasse, mentre rallentava per deviare la sua traiettoria e lasciarsele alle spalle, ma non fece in tempo ad arrivare neanche alle strisce pedonali che dovette fermarsi di botto. La ragazza in dolce attesa era ferma in mezzo alla strada e non si muoveva. Non capì perché si fossero fermate finchè non la sentì urlare, lasciandosi cadere sulle ginocchia: c’era chiaramente qualcosa che non andava.
Sentì la voce di Marina urlare, mentre posava un piede a terra per fermarsi definitivamente.
  • Jody! Jody, cosa succede?
La vide accovacciarsi accanto all’amica. Non sapeva cosa fare.
  • Aiuto!
In un lampo, Marina scattò in piedi e si guardò intorno. Quando incontrò i suoi occhi verdi spaventati, non potè fare a meno di lasciar cadere la bicicletta a terra e andarle incontro. Come se lo conoscesse da sempre, si avvicinò a lui, mandando il suo cervello ancora più in confusione. Ed aveva le mani di Marina poggiate sui suoi avambracci e il suo viso contratto a poca distanza dal suo petto.
  • Calmati. – riuscì soltanto a dire. Non poteva negarle il suo aiuto.
  • Dobbiamo chiamare l’ambulanza! – fece lei, quasi senza fiato.
Senza pensarci due volte, prese il suo cellulare dalla tasca e compose il numero del Pronto Soccorso. Sentiva il cuore diventare tachicardico, mentre lei tornava dalla sua amica.
  • Sono Edward Sheeran e mi trovo in Privet Drive, c’è una donna incinta che sta male. No, non so cos’abbia, non riesce a parlare. – Marina lo guardò, terrorizzata e pallida.
Quando la centralinista chiuse la chiamata, si passò una mano tra i capelli rossi e si guardò intorno.
  • Marina – la chiamò per nome, come se fosse naturale. Lei si girò, forse non ci fece troppo caso. – Portiamola su quella panchina, non potete stare in mezzo alla strada.
Si avvicinò, mentre lei già prendeva l’amica sotto braccio. Sentì la sua voce incoraggiarla, dicendole che i soccorsi arrivavano, doveva resistere solo un po’.
Quando si fu accovacciato anche lui, prese il braccio della donna senza troppo timore e cercò di sollevarla. Fu inevitabile per lui toccare Marina, sentire lo spessore del suo braccio contro il proprio, ma non era certo il momento di pensarci.
La ragazza non riusciva a camminare, dovettero quasi trascinarla fino alla panchina e cercarono di farvela sedere piano. Respirava pesantemente quando la lasciò per andare a recuperare la bicicletta, prima che qualche auto la schiacciasse, poi tornò subito da lei, non sentendosela di andarsene e lasciarla sola con una donna in travaglio.
  • Resisti, Jody, i soccorsi arriveranno a momenti.
Qualche passante si fermò attorno a loro, chi per aiutare, chi solo per curiosità. Era pietrificato da quella situazione, dal suo sguardo così pungente mentre lo guardava alla ricerca di consolazione.
  • Tu… - disse, rivolta a lui. – Ti chiami Edward?
Riuscì perlomeno ad annuire, sentendo il suo nome uscire dalle sue labbra.
  • Scusa se ti disturbo ancora, potresti farmi fare una telefonata?
Non riuscì a far uscire la voce dalla gola, fu soltanto in grado di riprendere il cellulare dalla tasca, impigliandosi troppo spesso nel suo stesso cappotto blu e glielo porse. Lei compose il numero così velocemente che gli sembrò impossibile che lo avesse digitato correttamente, ma pochi secondi dopo parlava al telefono con una signora. Forse era la madre di quella Jody.
  • Grazie, io… - la vide portarsi una mano ai capelli e la sua gola si seccò nel notare le sue gote rosse. - …scusa, per tutto.
  • No, non- - tentò – non ti preoccupare. – fece, agitandosi.
Quando si sentirono le sirene in lontananza, si voltò con una scusa buona e alzò le braccia per farsi notare dal conducente. Guardò Marina e si spostò verso di lei, per non intralciare gli infermieri. La barella uscì dall’ambulanza e la giovane ragazza vi fu caricata sopra, ancora in preda al dolore.
  • Vengo con voi! – disse Marina all’infermiere.
  • È una parente?
No, non lo era, infatti la lasciarono fuori dal veicolo e andarono via.
  • Oddio.
La sua voce era rotta ed ora era più in imbarazzo di prima. Voleva dire qualcosa per tranquillizzarla, ma era come se la sua gola fosse stretta in una morsa, quasi non riusciva a muoversi, infatti fu lei ad anticipare qualsiasi sua mossa, voltandosi verso di lui e poggiando la fronte sulla sua spalla. Scoppiò a piangere, con le braccia raccolte al petto.
Ed allargò istintivamente le braccia, spaventato da quel contatto così improvviso. Si sforzò di poggiarle una mano sulla spalla, ma non sapeva se sarebbe servito a qualcosa.
  • Lei è una gravidanza a rischio. – lo informò. – Potrebbe perdere il bambino.
Oh, beh. Non era certo una bella informazione con cui convivere, in effetti, ma non poteva fare niente per lei se non restare fermo e assecondarla per un po’.
Ancora non capiva come si era ritrovato in quella situazione. Quella benedetta ragazza era ovunque, sempre ed ora piangeva sulla sua spalla. Era piccola e bassina, le sue braccia riuscivano appena a circondargli il collo, ora. Come riuscisse a comportarsi così, non lo sapeva, l’unica cosa di cui era sicuro era che si sentiva troppo agitato, davvero troppo.
Sentì il suo profumo salirgli alle narici, sapeva di lavanda e rose. Quell’insieme di lacrime e singhiozzi cominciò a svanire gradualmente, finchè non sentì il suo respiro tornare regolare.
Era chiaro che non potesse andare in ospedale e lui non poteva certo accompagnarla in bici fin lì. Tra loro e Jody ormai c’erano una ventina di chilometri.
  • Scusa. – disse, alzando il viso.
Lasciò cadere la mano dalla sua spalla e cercò qualcosa da dire.
  • Ma no…non fa niente. – rispose, in quell’imbarazzante posizione in cui lui era inerme e lei aggrappata alle sue spalle.
  • Se vuoi puoi andare, non voglio trattenerti oltre. – fece lei, cogliendo il suo imbarazzo.
Lo disse mentre si asciugava un’altra lacrima e tirava su col naso. In effetti, avrebbe potuto andarsene, ma ora che lei non cercava il suo sguardo, ora che lei lo stava congedando, qualcosa gli sembrò fuori posto. Era fastidioso. Quella sensazione di nostalgia lo colpì come un fulmine a ciel sereno: lui stava davvero cercando la complicità nei suoi occhi arrossati? Non si accorse di essere rimasto a fissarla finchè lei non si voltò e rise, guardandolo. Doveva avere una faccia davvero buffa, con i suoi capelli rossi, il labbro rotto e l’aria spaesata, perché quel sorriso sembrava spontaneo. Niente di calcolato. Magari…
  • Vuoi…
Se lei voleva…
  • Possiamo…
Ma sì, cosa c’era di male.
  • Ti va un caffè?!
Il tono con cui aveva posto la domanda, suonava strano anche alle sue orecchie, come se fosse chiaramente sorpreso, come se avesse appena visto qualcosa di straordinario. Strizzò gli occhi, mentre pronunciava quelle parole e contemporaneamente rifletteva sul suo insolito comportamento.
Lei lo fissò senza vergogna, senza cercare di nascondere il suo stato di shock nel sentire quelle parole. Si sentì uno stupido in piena regola e abbassò lo sguardo mentre faceva un passo indietro. Povero illuso, cosa aveva cercato di fare? Forse lei non era diversa dalle altre, diversa da tutti.
  • Va bene. – la voce era un sibilo.
Rialzò lo sguardo su di lei così velocemente che quasi gli girò la testa, cercando di decifrare lo stato d’animo che lo invadeva. Cos’era? Paura? Felicità? Confusione? O magari tutto insieme?
Con i suoi capelli spettinati e gli occhi dilatati, chiuse la bocca e in silenzio, prese la bici.
Cominciarono a camminare lungo quella strada e quasi non osava guardarla. Aveva una tale vergogna di quella sua goffaggine: l’aveva invitata a prendere un caffè a quell’ora e mentre la sua amica correva all’ospedale. Si tormentava le mani, ancora agitata.
  • Tieni. – le porse il suo cellulare, di nuovo. – Chiama in ospedale.
Lei lo guardò per un secondo e ben presto ebbe il dispositivo all’orecchio. Non riuscì a non guardarla mentre chiedeva di Jody Sparks al centralinista. L’ansia la stava uccidendo, ma quello stato era condiviso.
Aveva una paura fottuta ad ogni passo che faceva. Cosa gli era passato per la testa?
Alzò gli occhi al cielo e chiese mentalmente a sua madre se quella fosse per lui la cosa giusta.
 
Era davvero una cosa fuori dall’ordinario, per lui, invitare qualcuno a prendere un caffè. Non aveva contatti con qualcuno che non fosse sua nonna dal giorno dell’incidente di sua madre e lei era la prima ad avere l’onore di sentire la sua voce e di ricevere un suo invito.
Erano seduti in quel vecchio bar da pochi secondi, nell’angolino più remoto e riservato, come se avesse paura di essere visto. Aveva una logica, in un certo senso, dato che Jeffry aveva fatto allontanare i suoi amici in un batter d’occhio, quindi forse il suo inconscio stava solo attivando un meccanismo di difesa. Qualcuno potrebbe dire che questo suo benedetto inconscio dovrebbe farsi un po’ i fatti suoi, ma non c’era da lamentarsi, perché il solo fatto che fosse seduto su quel minuscolo divanetto accanto a lei, era un grande esercizio di coscienza. In realtà, nel profondo, avrebbe voluto scappare il più lontano possibile. Gli esseri umani non facevano per lui.
  • Ha avuto un distacco della placenta. – disse Marina, guardando ancora lo schermo. – Ma sembra che siano intervenuti in tempo.
Prese il cellulare che gli porgeva, senza staccare gli occhi dal suo naso arrossato per il pianto.
  • Meno male. – disse, coraggiosamente.
Lei aprì la bocca per parlare, ma il cameriere la interruppe, chiedendo cosa desiderassero ordinare.
  • Per la signorina un the, per me un caffè. Grazie.
Era così abituato alle ordinazioni – e in generale agli ordini – che anche darli, gli veniva naturale. Lei sospirò, abbassando lo sguardo. Era davvero…piccola. E i suoi capelli erano davvero lunghi. Cominciò ad analizzarla, immersa nel suo cappotto verde: esternamente era una persona davvero semplice, con un semplice jeans e un semplice maglione rosso, ma dentro gli sembrava un labirinto e ancora doveva conoscerla. Lo sorprese ad osservarla, ma lo tolse dall’imbarazzo aprendo un discorso di sua spontanea volontà.
  • Pare che ci incontriamo spesso. – disse lei.
  • Già. – rispose annuendo, come se fossero le uniche parole da dire.
  • Allora, piacere. – la sua mano era tesa nel poco spazio che li divideva.
  • P-Piacere. – rispose, ricambiando la stretta. Anche le sue mani erano piccole.
  • Quindi, il tuo nome è Edward. Come sai il mio?
  • Sabato…l’altra cameriera ti ha chiamato per nome. Ed anche Kathy. – spiegò lui, rivivendo quel momento nella sua mente.
  • Caspita, hai una buona memoria. – disse lei, quasi di proposito.
In quel momento voleva dare un bacio al cameriere che poggiava le tazze sul tavolo, tirandolo fuori dall’imbarazzo in cui altrimenti sarebbe annegato. Tuttavia, non riuscì ad evitare di arrossire.
  • Ho capito che sei timido, scusa se sono così invadente. È il mio carattere. – lo disse mentre immergeva la bustina di the nell’acqua.
  • L’avevo capito. – rispose. Quel giorno si sentiva proprio un eroe, riuscendo a rispondere normalmente a qualcuno. A lei.
Si portò il caffè alle labbra, scottandosi un po’ la lingua. Erano troppo vicini su quel divanetto, non avevano due sgabelli? Le loro spalle si urtavano.
  • Allora, Edward, si può sapere chi sei? – lui la guardò, confuso. – Un giorno mi sembra di darti fastidio e un altro ci prendiamo un caffè. – cercò di spiegare lei.
  • Oh. Beh…diciamo che “è il mio carattere”.
  • Non ti fidi molto delle persone.
  • No. Per niente. – disse lui, quasi seccamente.
Lo leggeva nei suoi occhi che si stava chiedendo perché mai l’avesse portata al bar, ma sperò che non trasformasse quel punto interrogativo in parole.
  • Quanti lavori hai? – fece, sorseggiando il the. Il profumo di vaniglia lo distraeva.
  • Lavoro in biblioteca, arrangio qualcosa suonando e faccio il cameriere. – fece una pausa prima di aggiungere – Ma tanto lo sai.
Lei, forse per quella risposta, si fece andare un po’ d’acqua calda di traverso e prese a tossire, chiaramente spiazzata dall’ultima osservazione.
  • Tu… - cominciò, perdendo quel barlume di sarcasmo. - …cosa fai?
  • Io insegno in una scuola dell’infanzia, con Jody.
Capì immediatamente che si trattava di quella stessa scuola che era alle loro spalle mentre attraversavano.
  • E cosa vieni a fare in biblioteca? – mamma mia, due domande in meno di un minuto. Era un record.
  • Sto preparando la tesi per la specializzazione e non ho tutti i libri che mi servono.
  • Oh, capisco.
Calò un improvviso silenzio, come se avessero consumato tutte le energie per concludere quella breve conversazione. Ed infilò il naso nella tazza, concentrandosi sul caffè caldo che lo stava aiutando a scaldarsi. La sentì muoversi. Si stava sfilando il cappotto. Solo in quel momento si fece del tutto cosciente del fatto che fosse al bar con una ragazza e ancora non ci credeva. Si sentiva come se la sua mente fosse obnubilata.
  • Tu…sei solo? – chiese, senza guardarlo.
  • Cosa intendi?
  • Se sei solo, qui o hai una famiglia, una…fidanzata.
  • I-io vivo col mio patrigno e il mio fratellastro. – si affrettò a dire, per cancellare la parola fidanzata dalla sua testa. – E poi c’è mia nonna.
  • Tua madre e tuo padre? – chiese, guardandolo di nuovo, simulando naturalezza.
  • È morta 5 anni fa in un incidente, dopo che mio padre l'aveva lasciata. – la vide sbiancare, pronta a scusarsi per la domanda, ma la fermò. – Non preoccuparti. T-tu, invece?
  • Io – rispose, ancora in imbarazzo. – vivo sola. I miei sono a Londra, io mi sono trasferita qui da un paio d’anni, perché ho trovato lavoro in quella scuola.
  • E perché lavori all’Hawking? – chiese, inaspettatamente curioso.
  • Ho conosciuto Pit, il proprietario, una sera che sono uscita con Jody e mi disse che cercava una cameriera. A me serviva un lavoro part-time per arrotondare e così…A proposito, sei bravo con la chitarra. – sorrise. – Sabato suonerai ancora?
  • Grazie, io… - quel complimento lo fece andare in tilt, facendogli passare una mano tra i capelli. - …sì, il proprietario mi ha chiesto di tornare.
  • Cerca di non evitarmi stavolta. – rise lei, col naso nella tazza.
Era così pieno di vergogna che nemmeno riuscì a rispondere, limitandosi ad abbassare gli occhi e a prendere un sorso di caffè. Sembrava una ragazza a posto, forse era solo lui il problema, lui e la sua paura delle relazioni umane. Stavano soltanto chiacchierando e il suo cuore batteva come se stesse correndo. Il caldo di quel posto o forse l’agitazione, lo fecero accaldare e dopo attenta riflessione, si sfilò il cappotto anche lui. Sentì immediatamente i suoi occhi correre su di lui, facendolo sentire nudo e leggibile, ma dovette mettere da parte quella sensazione quando lei prese a studiare il suo labbro rotto. Quando la guardò, gli sembrò che i suoi occhi lo penetrassero. Era una sensazione strana eppure così netta: come se lei stesse scrutando il suo animo attraverso una porta che stava aprendo lui. Lesse in lei il turbinio di domande che voleva fargli ed ebbe paura. Non avrebbe avuto una risposta da darle.
Per un po’ stettero in silenzio, finchè lei non prese a parlare di nuovo, chiedendogli quando avesse cominciato a suonare. Lo stava invitando a nozze.
  • Quando avevo 5 anni, mio padre mi comprò una chitarra per bambini e da allora non l’ho più mollata. Ho imparato a suonare anche altri strumenti, come il violoncello, il basso, la batteria, ma nessuno mi identifica come la chitarra.
Lei rispondeva con un interesse vivo negli occhi, come se volesse sapere davvero chi fosse il tizio rosso della biblioteca. Le sue labbra rosse, incurvate, erano un invitante incentivo a continuare. Non parlava con una tale naturalezza da anni, ma mentre lei lo ascoltava attentamente, si sentì consolato. La remota sensazione di sentirsi a casa faceva capolino nel suo petto, scombussolando totalmente la sua visione delle cose.
Quando il suo cellulare squillò, si accorse che erano le 21:07 e Ben lo avrebbe ammazzato. Per fortuna lei convenne che fosse il caso di rientrare. Fecero un tratto di strada insieme e poi all’incrocio si salutarono.
  • Scusami ancora, Edward. E grazie per il the.
  • Ho solo ricambiato il favore. – disse, l’anima che vibrava ancora.
  • Ci vediamo domani, in biblioteca. Ciao.
Lui alzò la mano, mentre lei si voltava per andare via. Per qualche secondo restò a guardarla, ancora imbambolato e confuso dall’aroma del caffè. Salì in sella prima di poterla vedere voltarsi indietro e pedalò verso casa pregando per la sua vita.







Angolo autrice:

Ciao gentaglia, torniamo a guardare il mondo dagli occhi di Ed. Pian piano la storia comincia a farsi più interessante e proprio da qui comincerete a vedere i primi sviluppi. :)
Spero che intanto non vi stia annoiando, ma purtroppo - contrariamente alla mia iniziale volontà - ho preso questa storia alla lunga e mantenere un reale filo logico nei suoi avvenimenti, mi richiede anche diverse ricerche. Abbiate pazienza, il meglio sta arrivando!
Vi ringrazio infinitamente per le visite e le recensioni, soprattutto un grazie a GinevraMollyArkanian, che puntualmente recensisce la storia. Ciaone :D
Fatemi sapere cosa pensate della storia e del capitolo e se vi fa piacere aggiungete la storia alle seguite, ricordate o preferite.
Approfitto di questo spazio per ringraziarvi ancora del numero stratosferico di visite che ha accumulato Afire Love, ormai nelle preferite di 10 lettori. Per me un grande risultato. ^-^
Non vi annoio oltre.
Alla prossima! :)

S.
  
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