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Autore: Targaryen    31/08/2015    6 recensioni
Le vicende narrate in questo racconto si svolgono prevalentemente a Eryn Galen e coprono il periodo che va dall’inizio della Terza Era sino alla fondazione di Dol Guldur da parte di Sauron. Nonostante l’ombra che cala sul Reame Boscoso, questa non è una storia di guerra.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Amroth, Elrond, Galadriel, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sussurri di foglie e di vento'
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2. In aule di legno e di pietra (2 T.E.)
 



Il palazzo dei re Sindar di Eryn Galen non è una gemma preziosa che racchiude lontani fasti e non ha nulla in comune con le maestose residenze dei re elfici che in passato vissero nella Terra di Mezzo, né tantomeno con quelle dei signori che ancora vi abitano. Non possiede il loro splendore e non ricorda la magnificenza di coloro che mai lasciarono l’occidente, ma è un gioco di legno e di pietra che si snoda su più livelli sulla cima di una collina. E’ un dono della terra che fa del bosco la propria corona, e quando il sole svanisce oltre l’orizzonte le volte ne trattengono per un istante il calore, infiammandosi nel crepuscolo e risplendendo di una bellezza solida ed antica.
La strada di accesso è ampia e ben tenuta e sale lentamente sino al piazzale su cui si apre il massiccio portone di ingresso. Thranduil si è ricongiunto all’esercito del padre all’uscita dall’antica via e non ha mai soggiornato ai piedi degli Emyn Duir, ma ora ha l’impressione di riconoscere nelle forme della residenza che si fa sempre più vicina quella che lo ospitò ad Amon Lac, ormai ridotta ad un cumulo di rovine che la foresta sta già cancellando. Le costruzioni degli elfi dei boschi non sono pensate per sopravvivere ai loro creatori, ma per farsi da parte restituendo alla terra lo spazio preso in prestito non appena la loro utilità viene meno. Eppure, se vogliono, anche i silvani sanno erigere opere capaci di resistere al tempo, ed è facile scorgere i segni della loro maestria negli incastri tra le pietre e nelle forme rubate al legno, eleganti, leggiadre, opera di mani e di menti che racchiudono l’esperienza maturata nei secoli e che nessun mortale potrà mai eguagliare.
La guardia di palazzo è schierata ai bordi della strada, due lunghi cordoni rosso e oro che giungono sino in cima. Vi sono bandiere sulle guglie e stendardi issati su alti pennoni vicino ai battenti spalancati, e vi è una piccola folla in attesa.
In prossimità di essa Thranduil scende da cavallo e ringrazia con un cenno gli inservienti che gli si fanno incontro per prendere le briglie. Altri fanno lo stesso con Erynion e con i membri della sua scorta.
Due tra i presenti si staccano dal gruppo che osserva in silenzio, lui insolitamente basso per essere un membro dei Primi Nati e lei alta e bella anche tra gli elfi. A pochi passi da lui si fermano e chinano il capo. Hanno i capelli biondo scuro, entrambi, ed entrambi vestono i colori del bosco.
“Questo è un giorno di gioia, mio signore, perché il Reame Boscoso ha di nuovo il suo re”, dice l’elfo, “Io sono Hádhion, e attraverso la mia voce tutto il tuo popolo ti dà il benvenuto.”
Parla sindarin, ma le contaminazioni locali sono così forti da trasformarne a tratti la cadenza. Thranduil ne ha dimestichezza sin dai tempi di Amon Lanc, ma nonostante i sette anni trascorsi a stretto contatto con i suoi silvani non ne ha ancora subito l’influenza e si domanda quanto la sua pronuncia debba sembrare loro straniera. Forse col tempo anch’essa cambierà, come è accaduto in parte per suo padre, o forse non succederà mai.
Appoggia la mano al petto e lo saluta come è d’uso tra i membri della loro stirpe, cercano di pronunciarne bene almeno il nome.
“Ti ringrazio, Hádhion. Qual è la tua mansione?”
Non conosce nessuno di loro, e non sa quali compiti svolgano.
“Sono il sovrintendente di palazzo, mio signore”, risponde questi, “Sono stato scelto da re Oropher e rimetto la mia nomina al tuo volere.”
Thranduil sorride.
“Non vedo al momento ragioni per revocarla, e se hai servito mio padre conto che saprai fare lo stesso con me. ”
“Grazie, mio signore.”
Hádhion abbassa lo sguardo, forse in un gesto spontaneo o forse per celare qualcosa. Sorpresa o riconoscenza, Thranduil non saprebbe dirlo.
“Questi è Erynion”, continua, “Immagino lo conosciate. Ora l’esercito del Reame Boscoso è al suo comando. Ha fatto un lungo viaggio e ha bisogno di riposo, come ne hanno i membri della mia guardia e chiunque abbia combattuto a Mordor senza trovare al ritorno una casa in grado di accoglierlo. Procura loro stanze e indumenti puliti e metti a loro disposizione cibo e bevande, affinché possano riposare e recuperare le forze.”
“Sarà fatto, mio signore”, assicura Hádhion.
Thranduil si volge verso colei che non ha ancora proferito parola, ma che ora sembra comprendere la sua muta richiesta e che solleva gli occhi sfoggiando un’insolita sfumatura ambrata.
“Il mio nome è Maidhwen, mio signore”, si presenta, “Ho ricevuto da re Oropher l’incarico di occuparmi della famiglia reale, e anch’io mi rimetto alla tua volontà.”
Nonostante il prestigio che rivestono, i compiti svolti da Hádhion e Maidhwen non sono di alcun rilievo per il regno e non sarà lui a metterli in discussione, o comunque non lo farà a meno di validi motivi. Altre sono le priorità.
“Continua a farlo, dunque”, approva.
“Sarà un onore, mio signore”, china il capo Maidhwen, “Le tue stanze sono pronte. Mi sono permessa di far giungere a palazzo i tuoi effetti personali.”
“Ti ringrazio, e ti domando la cortesia di farmi strada”, sorride Thranduil, “Temo di necessitare anche io di riposo.”
Maidhwen si sposta di lato e indica l’ingresso.
“Da questa parte, mio signore.”
Prima di seguirla Thranduil richiama l’attenzione di Erynion, in piedi a breve distanza da lui.
“Voglio conoscere lo stato attuale delle nostre difese”, dice, “Riposa, dopo di che ispeziona ciò che ritieni opportuno e vieni da me insieme a chi ha ricevuto da mio padre l’incarico di occuparsene.”
“Sarò da te domani, mio signore”, assicura Erynion.
Thranduil scuote il capo e appoggia una mano sulla spalla del comandante.
“Domani? Facciamo almeno il giorno dopo, amico mio.”
L’ombra di un sorriso distende in maniera appena percettibile i lineamenti di Erynion, ma non vi è gioia in esso e Thranduil non si fa illusioni. Se ne andrà, lo sente, e forse anche Erynion si sta rendendo conto che quella è l’unica strada.
“Il giorno dopo, allora”, concede.
Thranduil annuisce e, guidato da Maidhwen, varca l’ingresso di quella che è ora la sua residenza.
Il cortile interno si sviluppa all’ombra di antichi alberi e vive della stessa quiete del bosco. Camminando lungo i bordi a Thranduil pare di udire il suono di acqua che scorre e che lambisce la roccia oltre la barriera dei tronchi, ma non pone domande. Nei giorni a venire cercherà da solo le risposte.
In silenzio percorre corridoi che profumano di legno e attraversa saloni dalle alte arcate. Vi sono scale scolpite in foggia di tronchi e di rami e logge che penetrano sin dentro le chiome degli abeti che sfiorano le facciate esterne. Al loro passaggio le teste si abbassano e la gente si fa da parte, ma Thranduil non si ferma a salutare. Anche per conoscere il personale di palazzo ci sarà tempo. Dinanzi ad una porta finemente decorata con motivi floreali Maidwen si ferma ed attende che due inservienti scostino i battenti, permettendo loro di entrare. Su suo invito egli si fa avanti e si ritrova in una sala ampia e luminosa, su cui si aprono numerose stanze laterali e le cui vetrate consentono di accedere ad un grande terrazzo coperto. Gli ambienti, ricavati prevalentemente nel legno, non rifulgono d’oro, ma sono raffinati e vi è armonia nelle dimensioni e nelle forme, e la loro bellezza è gentile come la carezza della primavera.
“Re Oropher ha voluto queste stanze per te, mio signore”, lo informa Maidhwen, “Le sue sono al livello inferiore, ma se le preferisci le farò approntare il più rapidamente possibile. Queste sono in ogni modo le migliori dell’intero palazzo, e sono le più spaziose.”
Thranduil abbassa le palpebre. Le implicazioni di quanto appena detto da Maidhwen lo fanno vacillare per un attimo e il suo cuore geme, stretto nella morsa di emozioni troppo intense. Oropher non si è mai opposto alla sua scelta di vivere lontano né ha mai agito in modo tale da suscitare in lui sensi di colpa, eppure ora Thranduil prova rimorso per non aver compreso quanto la sua vicinanza sia mancata al padre e quanto egli abbia sperato sino alla fine in un suo ritorno. Chissà se contava di dirgli delle stanze che aveva fatto approntare per lui se non fosse caduto tra la putredine delle Paludi Morte.
“No, non occorre”, dice, costringendosi a mantenere salda la voce, “Puoi andare.”
Maidhwen annuisce.
“Sì, mio signore. Troverai acqua calda e tutto l’occorrente per lavarti nella sala da bagno. Le vesti pulite sono sul letto. Se lo desideri farò venire qualcuno affinché ti aiuti.”
“No, ti ringrazio”, rifiuta lui, “Non è necessario.”
“Come preferisci. Consumerai la cena qui o nella sala da pranzo?”
Thranduil sfila la spada e la depone sul lungo tavolo posto al centro della stanza. Come molti dei mobili, anch’esso è stato lavorato in maniera tale da riprodurre foglie e rami intrecciati.
“La consumerò qui”, risponde.
“Darò ordine che ti sia portata entro breve. Con permesso.”
Maidhwen si inchina ed esce, lasciandolo solo.
Con un sospiro Thranduil raggiunge il terrazzo e trasalisce dinanzi allo spettacolo inatteso che gli offre il bosco baciato dal sole della sera. Si lascia rapire dalla luce calda che accarezza le chiome e non si rende conto dello scorrere del tempo finché un refolo di vento non lo ridesta, avvisandolo che è ora di rientrare. Getta un’ultima occhiata alla foresta che si estende ai suoi piedi e cerca la stanza da bagno. Si lava senza indugiare troppo, quindi si riveste e apre uno dei bauli che lo hanno accompagnato sino a Mordor, estraendo lo scettro del padre ancora avvolto nel velluto che lui stesso ha usato per proteggerlo durante il viaggio. Lo libera dal tessuto e lo stringe tra le mani, cosciente come mai prima d’ora di cosa questo significhi. Lo scettro dei regnanti Sindar di Eryn Galen è stato intagliato nel legno della sua quercia più antica e donato dagli elfi dei boschi a colui che accolsero come loro re, ed è il simbolo della casa reale più della corona che cinge il capo del sovrano. Ora lo scettro è suo, insieme alla corona e insieme al regno.
Rintocchi leggeri giungono dalla porta. Thranduil rammenta le parole di Maidhwen.
“Entra”, dice, e torna a rivolgere la propria attenzione al baule.
Recupera il sostegno e lo mette in posizione mentre la porta si apre, infila l’asta nella scanalatura e lo sposta accanto alla parete più vicina.
Un fruscio di vesti accompagnato dal tintinnio di stoviglie attraversa la stanza e un vassoio viene deposto sul tavolo accanto alle vetrate.
“La tua cena è pronta, mio signore. Se non è di tuo gradimento provvederò a sostituirla.”
La voce non è quella di Maidhwen e Thranduil si gira verso colei che ha parlato.
Non ricorda di averla vista in mezzo a coloro che lo hanno accolto al suo arrivo. Tiene le mani raccolte in grembo, il capo lievemente chino e lo sguardo rivolto verso il basso. Non è alta quanto Maidhwen e non sembra essere dotata di altrettanta bellezza, eppure quando alza gli occhi su di lui Thranduil ha la sensazione di precipitare tra il verde del bosco che ha appena contemplato, e capisce all’istante di essersi sbagliato. Maidhwen è il guizzo di fiamma che brucia e che si spegne, mentre colei che sta guardando è la lanterna che rischiara la notte sino al sorgere dell’alba senza mai vacillare.
“Non sarà necessario”, dice, “Andrà bene.”
La vede sorridere e solo dopo averlo fatto si rende conto di aver sorriso anch’egli. E si convince di essere molto più stanco del previsto.
“Desideri cenare qui o in terrazzo?”, domanda lei.
Ha lunghissimi capelli leggermente mossi che hanno preso in prestito dalla foresta tutte le sfumature del legno.
“Non saprei”, ammette Thranduil, allacciandosi gli ultimi fermagli che chiudono la veste, “Posso affidarmi al tuo consiglio?”
Ella sorride di nuovo, e di nuovo Thranduil fa lo stesso.
“Ti consiglio il terrazzo, mio signore”, dice, “Le stelle stanno sorgendo.”
Poi un pensiero fugace sembra accedere il dubbio in lei.
“Ma forse hai già visto troppe stelle durante la tua lontananza e preferisci salde pareti intorno a te”, si corregge.
Troppe stelle … In un’altra circostanza Thranduil avrebbe accolto con un commento ironico una simile affermazione, ma ora l’idea di farlo non lo sfiora neppure. Ella non ha mai visto il cielo sopra il Gorgoroth e non sa cosa significhi non vedere la luce per anni. Non sa che ci si sente come se ci si stesse spegnendo.
“No, signora”, sussurra, “Sono stato lontano dalle stelle per così tanto tempo che non basterà l’eternità perché me ne possa saziare.”
Qualcosa attraversa il volto di lei, una ragnatela di stati d’animo che mutano troppo rapidamente affinché egli possa afferrarli.
“Perdonami”, la sente dire a voce bassa, “Ho parlato senza riflettere.”
La mente di Thranduil corre ad Erynion e alla conversazione avuta con lui durante il viaggio di ritorno.
“Ultimamente sembra che tutti siano convinti di dovermi chiedere perdono per qualche loro sbaglio”, afferma, “Non mi hai offeso. Cenerò in terrazzo.”
“Sì, mio signore”, annuisce lei.
Prende il vassoio ed esce, ne dispone il contenuto sul tavolo ed accende una ad una le lucerne appese. La loro luminescenza soffusa allontana la notte, ma lo fa con gentilezza e non cancella le luci che stanno conquistando il firmamento.
Thranduil la osserva mentre si muove silenziosa sul pavimento di legno e in più occasioni ha l’impressione che non cammini, ma che danzi seguendo segrete melodie che solo lei conosce. I suoi pensieri lo stanno conducendo su terreni che non gli sono famigliari e che non riesce a definire. Distoglie lo sguardo, confuso, e siede dove lei gli ha indicato.
Getta un’occhiata veloce a quello che ha di fronte e si chiede come possa il vassoio, ora vuoto, aver contenuto tutto, ma si trattiene dal porre la domanda. Si concede, invece, l’altra domanda, quella più importante.
“Non so come devo chiamarti”, dice.
Il vino che ella sta versando ondeggia appena e Thranduil si ritrova a rimpiangere di non essere riuscito a cogliere il riflesso che hanno assunto i suoi occhi in quel momento, perché è sicuro che qualcosa in essi sia cambiato, anche se solo per il tempo di un battito d’ali. Si sente più confuso di prima, ma la vita alla corte di Gil-Galad gli ha insegnato come nascondere ciò che si agita sotto la superficie ed esternamente nulla traspare.
“Perdonami”, si scusa lei, per la seconda volta quella sera, “Ho mancato di presentarmi. Il mio nome è Amariel.”
Thranduil alza il calice ed assapora la fragranza del vino. Ha imparato ad apprezzare il dorwinion ad Amon Lanc e non se ne è più separato: un piccolo innocente piacere a cui non vede ragione di rinunciare.
“Hai un nome che ti si addice, dama Amariel.”
Amariel lo guarda e a Thranduil sembra che le sue guance abbiano ora la stessa sfumatura del dorwinion, e che ella sia sorpresa quanto lui di fronte a quella insolita reazione. Il complimento che le ha fatto non ha nulla che la giustifichi.
“Grazie, mio signore”, sussurra lei, una nota calda nella voce che ha il potere di far vibrare qualcosa nel profondo del suo animo.
“Ringrazia chi te lo ha dato”, sorride Thranduil, e inizia a consumare la cena per consentire a lei di ricomporsi e a sé stesso di liberarsi da quell’atmosfera incantata che, con il calar della notte, sembra aver avvolto il terrazzo e le sue stanze.
 
***

Le difese del Reame Boscoso sono tutto tranne che solide. Thranduil lo capisce in un batter d’occhio, ma ascolta sino in fondo le spiegazioni dettagliate di Erynion e i rapporti di chi occupa posizioni chiave.
Siede sul trono in legno che fu di Oropher, la corona sul capo e lo scettro stretto in una mano, e resta in silenzio mentre a turno coloro che prendono la parola ripetono che il bosco è la loro difesa. Ma il bosco non impedisce l’accesso alle loro terre e vi sono punti in cui può essere attraversato con facilità. Lo ha fatto lui con un’intera armata e potrebbe farlo chiunque. Ciononostante non ribatte. Scaccia la voglia di andarsene prima del previsto ed annuisce, quindi a metà giornata ringrazia e licenzia tutti tranne Erynion ed un silvano insolitamente massiccio, vestito di pelle e con una lunga spada allacciata sulla schiena. Si occupa della coordinazione della cintura di torri più esterna e ha detto solo poche parole, ma ha detto quelle giuste.
Thranduil si alza e fa cenno ai due di accompagnarlo nella stanza adiacente alla sala del trono, quindi siede e depone lo scettro.
“Come proporresti di aiutare il bosco, Amath?”, domanda.
L’elfo lo guarda dritto negli occhi, e come poco prima mostra rispetto ma non soggezione. Qualcun altro a cui il nome si addice, riflette Thranduil, e non per la prima volta dal loro incontro i suoi pensieri volano a lei. Ma ora parte della nebbia si è dissolta e ciò che comincia a rivelare lo inquieta.
“Trappole, mio signore”, risponde Amath.
Di nuovo le giuste parole.
“Sì, trappole”, approva, “E maggiore controllo del territorio dentro e fuori i confini.”
Un lampo di soddisfazione nasce e muore nello sguardo di Amath, ma il riverbero di quella luce resta e Thranduil sorride tra sé, chiedendosi in quante occasioni egli debba aver fatto presente quell’esigenza a suo padre restando inascoltato. Oropher è sempre stato ostinato, e alla fine questo l’ha ucciso.
“Sospetto che non sia la prima volta che questo pensiero ti sfiora, Amath”, continua, “Mettilo su carta e poi torna da me. Nel frattempo aumenta il numero delle torri di osservazione e sposta la linea esterna verso sud. Se una foglia si muove a nord dell’antica via io voglio saperlo.”
Amath annuisce e questa volta si inchina.
“Sarà fatto, mio signore.”
Thranduil si volge verso Erynion.
“Disponiamo di esploratori e molti tra coloro che hanno combattuto a Mordor hanno svolto incarichi simili. Organizza una rete di osservazione a sud dell’antica via, sino ad Amon Lanc ed oltre. Non possiamo costruire mura a nostra difesa, perché la vita che conduciamo è incompatibile con esse. Eryn Galen è la nostra casa e non possiamo fortificare la foresta, ma se riusciremo a vedere il nemico prima che varchi i confini del nostro regno allora potremo usarla a nostro vantaggio, e difenderci meglio di ciò che faremmo usando la pietra.”
“Provvederò immediatamente”, assicura Erynion, e per un istante Thranduil scorge in lui qualcosa di diverso dalla semplice accettazione.
Non abbastanza per farlo restare, ma è comunque un inizio.
Con un cenno congeda entrambi e si abbandona contro l’alto schienale, le palpebre socchiuse e tante domande a cui ora si è aggiunta anche lei.
 
***

Si parla molto di re Thranduil in quei giorni, alla luce del sole o bisbigliando in compagnia delle stelle, e si parla di cose importanti e di altre che invece di importanza non ne rivestono alcuna. Si esprimono opinioni circa i cambiamenti che sta introducendo poco a poco e si cerca di dare un nome al colore dei suoi capelli, ma Amariel non si sorprende. Si parla sempre del re, soprattutto agli inizi del suo regno. Col passare del tempo di molte cose non si parlerà più, ci si farà una ragione di come anche l’argento possa trattenere il calore dell’oro e solo ciò che conta resterà.
Nel frattempo ella ascolta, e a volte sorride tra sé immaginando la reazione che egli avrebbe se avesse la possibilità di ascoltare insieme a lei, ma non dice nulla perché nessuno parla con malevolenza e anche il buon umore è un segno che la guerra è finita.  
Talvolta, invece, non ascolta, e i suoi pensieri cominciano a percorrere da soli sentieri sconosciuti lungo i quali, da qualche parte, il re non è più il re. Quando accade sussulta, turbata dal suo stesso ardire, e si rimprovera con più foga di quanto facesse in passato durante le rare occasioni in cui si domandava come egli fosse, perché ora tutto è diverso. Molte cose le deve ancora immaginare, poiché di lui si sa poco, ma altre le deve solo ricordare, e sono queste le cose che la spaventano. E’ la fiamma inaspettata che le ha scaldato il cuore in quella sala, la sensazione che si prova quando si scorgono le luci di casa dopo esserne rimasti lontani per troppo tempo, ed è il cielo che è caduto su di lei quando egli l’ha guardata, colmando quel vuoto che abitava la sua anima e di cui non conosceva l’esistenza.
Amariel vive da molti secoli, ma non è antica e al di qua del mare ha solo qualche lontano parente tra gli Avari dell’estremo nord. Li incontra raramente, anche se invia sempre doni quando può. Sin dai tempi di Amon Lanc è al servizio della casa di Oropher e ha pianto quando ha saputo della morte del re. Non lo conosceva personalmente, ma era il suo re ed era un buon re.
Il figlio di Oropher, invece, non lo aveva mai incontrato prima di quella sera, anche se le erano giunte molte voci su di lui e sulla sua singolare scelta di vivere tra i Noldor. La guerra contro Sauron ne ha aggiunte delle nuove e qualcuno racconta ancora di come egli sia riuscito a rimediare all’errore di Oropher e a riportare a casa chi è sopravvissuto. Amariel non sa se ciò che si dice corrisponda al vero, ma ora ci sono due cose di cui è sicura: re Thranduil differisce in molto dal padre e non è l’aspetto ciò che più li divide, e la quiete che si legge sul suo volto è solo apparente. Ci sono emozioni intense in lui, seppellite in profondità oltre quello sguardo che a tratti sembra più antico di quello di Oropher, e ci sono cicatrici non ancora rimarginate e ombre dense che il tempo non ha dissolto. Ha visto la solitudine nei suoi occhi e ha visto la sofferenza, e ancora sente il dolore della ferita che si è aperta in lei. E sente altro, e nonostante i suoi sforzi non trova risposte a ciò che ha provato una volta varcata quella soglia. E’ tornata indietro col vassoio vuoto e i battenti sono stati chiusi, ma non per lei.
Sua madre le direbbe che non deve avere timore del nuovo corso che la vita può prendere, perché ogni cosa tende al suo compimento e se il suo cuore è cambiato significa che era questo ciò a cui anelava. Ma il cuore del re a cosa anela?
Amariel lo osserva mentre siede sotto l’albero più alto, lo scettro appoggiato al tronco e le mani sui braccioli. Indossa la nuova corona che i silvani hanno plasmato per lui e che gli ha consegnato il loro portavoce, come in passato è stato fatto con Oropher. Gli artigiani del Reame Boscoso hanno creato un’opera di squisita bellezza, un intreccio di rami che si elevano al cielo e che trattengono il marrone caldo dei tronchi e lo splendore dell’oro, e Amariel non riesce a pensare a nulla di più adatto a lui.
Poco prima il re ha aperto i festeggiamenti per l’arrivo della primavera e tutte le tradizioni sono state rispettate. Ora il bosco è in festa e vi sono musica e canti intorno a loro, vi sono risa e danze e banchetti al centro delle radure. Le lanterne sono state accese ovunque e le stelle ondeggiano appese ai rami, in un muto saluto rivolto a quelle che rallegrano il cielo.
Sono pensieri insensati quelli che la accompagnano mentre aggira il cerchio dei danzatori rifiutando gli inviti ad unirsi a loro, ma il sorriso che il re sta offrendo a coloro che gli rendono omaggio è un sorriso di circostanza, e non importa se ella pecca di presunzione nel suo tentativo di allontanare le ombre che lo tormentano. Qualcosa le impedisce di restare semplicemente a guardare.
Si avvicina a passi lievi e attende a debita distanza che egli sia di nuovo solo, quindi respira a fondo mettendo a tacere quella voce che continua a ripeterle che si sta comportando in maniera del tutto sconsiderata. Da molti giorni ne sente un’altra, più forte, che la fa sembrare null’altro che un fastidioso mormorio.
Fa un passo nella sua direzione, solo uno, perché Thranduil si volge verso di lei in quel preciso momento, quasi ne avesse avvertito la presenza. Amariel intravede una luce nuova aggiungersi a quelle che sempre abitano i suoi occhi, e l’ombra di un’emozione a cui non riesce a dare un nome e che subito viene nascosta. Le sorride, un sorriso genuino con cui sembra chiederle di avvicinarsi e che la incoraggia a proseguire. Amariel riprende a camminare, ma si ferma prima che lo spazio che li divide si riduca oltre il consentito e si inchina.
“Dama Amariel”, la precede lui, sorprendendola ancora, “Stavo pensando di disertare per una sera la sala da pranzo per assicurarmi che tu fossi ancora a palazzo, ma a quanto pare non occorre più che lo faccia.”
Amariel cerca disperatamente una risposta appropriata. Ciò che il re le ha appena rivelato è qualcosa che non si sarebbe mai aspettata e che si abbatte su di lei con la forza di un masso lanciato nelle placide acque delle sue emozioni.
“Molti sono coloro che ti servono senza mostrarsi, mio signore”, sussurra.
Thranduil abbassa lo sguardo, ma Amariel non vede i ricordi risvegliarsi a quelle parole perché anch’ella sta fissando il terreno davanti ai suoi piedi.
“Lo so, e sono grato a tutti loro pur non conoscendoli”, dice, una nota di amarezza nella voce che stride con l’atmosfera festosa in cui sono immersi.
Quindi si alza e raccoglie lo scettro, avvicinandosi a lei ed invitandola tacitamente a sollevare gli occhi. Sin da quella sera Amariel è convinta che non vi sia nessuno che egli debba guardare dal basso e la corona lo fa svettare ancora più in alto, accentuando il contrasto tra loro.  
“Per quest’oggi credo di aver ricevuto un numero sufficiente di persone e vorrei ritirarmi in luoghi più tranquilli”, le confida, “Ritieni sconveniente da parte mia sperare nella tua compagnia?”
“No, mio signore.”
Amariel sente il cuore lanciarsi in una corsa sfrenata e solo dopo aver parlato si rende conto di averlo fatto, ma non si pente perché Thranduil sorride di nuovo e anche questa volta è la sua anima a farlo.
Sembra sul punto di allungare la mano per guidarla lontano da lì, ma si trattiene e si limita ad indicarle la via. Amariel lo asseconda e si inoltra sotto gli alberi insieme a lui, e non fa caso agli sguardi che li accompagnano. Li avverte come una nota stonata appena oltre la soglia della percezione, qualcosa che esiste ma che non merita attenzione.
 
 
L’aria della notte conserva ancora il ricordo dell’inverno appena trascorso, ma contiene già il canto della primavera e sembra che anch’essa esulti insieme al suo popolo pizzicando corde di legno e di foglie. L’ha accompagnata sino ai bordi di uno dei tanti rivi che dissetano la foresta e adesso siede con lei sull’erba, l’acqua che scorre fuggendo tra le ombre dinanzi a loro e l’eco dei festeggiamenti alle spalle. Hanno camminato in silenzio, a lungo, allontanandosi dalle voci e dagli sguardi della gente, e ora Thranduil si trova di fronte alla necessità di dover dire qualcosa senza tuttavia trovare nulla di adatto, lui che non resta mai a corto di parole. Vorrebbe farle mille domande, ma è consapevole di non poterselo permettere. Più trascorrono i giorni e più si rende conto di come l’eldar che gioiva della vita nelle foreste intorno all’Esgalduin non esista più agli occhi di Arda. Egli è per tutti il re, solo il re, e anche una semplice domanda rischia di essere scambiata per un ordine. E il solo pensiero di dama Amariel che gli racconta di lei perché lo considera suo dovere gli procura malessere.
“Trovi piacevole la vita qui, mio signore?”, la sente domandare, ma avverte una sorta di titubanza in lei, qualcosa che sempre traspare quando si teme di osare troppo e non si conosce l’arte della finzione.
“Più di quanto potessi mai immaginare”, risponde, e il suo cuore dimentica qualche battito alla vista del volto di Amariel rasserenarsi e sbocciare in un sorriso sotto la luce delle stelle. Per un istante Thranduil ha la sensazione di non aver mai veduto nulla di più bello in vita sua.
“E tu?”, azzarda, “Sei sempre vissuta qui?”
Amariel sorride di nuovo  e solleva una mano, invitando la lucciola che si è posata su di essa a riprendere il volo. Ce ne sono tante intorno a loro, come sempre succede nel bosco in primavera.
“Sono nata ad est di Colle Calvo, prima che arrivasse re Oropher”, dice, “Ero una bambina quando attraversò le Montagne Nebbiose. Mio padre e mia madre si trasferirono nei pressi di Amon Lanc ed entrarono al suo servizio, e appena ne fui in grado io feci lo stesso. I miei genitori non erano guerrieri. Durante il viaggio verso gli Emyn Duir vennero attaccati dai warg. Morirono. Io non ero con loro e mi salvai. Ho visto questo palazzo prendere forma tronco dopo tronco, pietra dopo pietra, e ho sempre servito la tua famiglia.”
Thranduil serra le palpebre, travolto da una sofferenze viva quanto le immagini evocate da quelle parole: due volti sconosciuti dilaniati dai mannari e un volto sin troppo noto aperto dal taglio di una spada, mentre il bosco diviene palude.
“Mi dispiace”, sussurra, per lei e per lui, e regala una muta preghiera a chiunque lo ascolti per averla tenuta lontana dal luogo in cui i genitori incontrarono la morte.
Sente il suo sguardo su di sé e percepisce preoccupazione nel suo silenzio, ma non può tranquillizzarla finché quella memoria non tornerà silente.  
Pur non potendo leggere nei suoi occhi Amariel sembra intuire quale corso abbiano imboccato i suoi pensieri e si volge verso di lui, quasi volesse offrigli sostegno senza tuttavia osare farsi più vicina.
“Li rivedremo un giorno, mio signore”, lo conforta.
Thranduil dovrebbe sorprendersi di fronte a quelle parole, ma non lo fa perché una parte di lui sapeva che ella avrebbe capito pur non riuscendo a spiegarsene la ragione. Solleva le palpebre e la guarda.
“Sì, ma perderli fa male lo stesso.”
Amariel annuisce, sin troppo consapevole della verità racchiusa in quelle parole, e Thranduil si sente pervadere da un improvviso senso di colpa: come ringraziamento per la sua compagnia l’ha costretta a rivivere ricordi dolorosi che andrebbero consegnati all’oblio. 
“Ti chiedo perdono”, sussurra, “Rattristarti era l’ultima cosa che volevo.”
“Non te ne preoccupare, mio signore”, sorride lei, “E’ una tristezza passeggera. Fa parte di me, ma non consuma il mio spirito.”
Poi un pensiero sembra turbarla. Abbassa lo sguardo ed esita, e Thranduil trattiene il respiro senza neppure rendersene conto.
“Non ti arrendere alle ombre”, la sente dire, le parole che gli giungono come una supplica.
“No, non lo farò”, si affretta a rispondere, e sorride quasi a suggellare una promessa.
Una promessa che giura a sé stesso di mantenere.
Amariel annuisce e ride quando si accorge della lucciola che è tornata a posarsi sulla sua mano.
“Le piaci”, scherza Thranduil, facendola ridere ancora e ridendo con lei.
“Sei già stato in biblioteca?”, domanda.
“Sì, e ne sono rimasto sorpreso”, risponde lui, “Mio padre leggeva, ma non posso dire che amasse i libri. Ad Amon Lanc non aveva una biblioteca.”
Amariel allontana delicatamente il piccolo insetto per la seconda volta.
“Ci sono libri scritti in una lingua che nessuno di noi comprende”, dice, “Sono convinta che non l’abbia voluta per sé.”
Thranduil si sente sopraffare dallo stesso rimpianto che lo ha accolto al suo arrivo di fronte alla scoperta degli appartamenti che suo padre ha voluto per lui. Oropher non ha costruito la biblioteca per sé, così come non ha costruito per sé le sale dove ora Thranduil vive, ed egli lo ha capito nell’istante stesso in cui ha aperto uno di quei libri. Così come lo ha capito Amariel.
“La lingua degli assassini”, sussurra, quasi quelli fossero argomenti non adatti al Reame Boscoso, “Elu Thingol la bandì molto tempo fa. Comprendo le ragioni per cui lo fece e so quanto le emozioni possano essere potenti, ma quel tempo è passato. Molto della nostra storia è stato scritto in quella lingua e non conoscerla significa rimanere nell’ignoranza. Mi sono trovato tra gente che poteva insegnarmela e l’ho imparata. Ho visto Golodhrim morire accanto ai silvani per la salvezza di questa terra, ho visto il loro re affrontare Sauron senza mai vacillare e ho pianto quando è caduto. I Golodhrim non sono tutti uguali. Ognuno è un mondo a sé, e l’antica lingua  può essere usata da chi è nobile come da chi è malvagio.”
Le sue parole sono accompagnate da un lungo silenzio interrotto solo dai bisbigli del bosco, e quando Amariel torna a guardarlo Thranduil è sicuro di leggere approvazione nel verde dei suoi occhi. Non riesce a dare un nome alla sensazione che lo pervade nel saperla d’accordo con lui, ma di qualunque cosa si tratti ha il potere di sciogliere dubbi che si portava appresso da secoli.
“Parli in modo saggio, mio signore”, afferma lei.
Thranduil scrolla il capo, divertito.
“Forse parlo in modo saggio, ma presto scoprirai che sono tutt’altro che saggio”, dice.
“Le tue azioni dimostrano il contrario”, replica con gentilezza Amariel, e torna a seguire il volo delle lucciole.
Di nuovo la quiete li avvolge, una quiete che dà pace come le parole che si scambiano. Thranduil le racconta della vita passata, del Doriath e della città dalle mille caverne scavata nella roccia, delle colonne in cui era scolpita la vita del bosco e dei suoi infiniti colori. Le domanda della sua infanzia e ascolta mentre Amariel dispiega per lui lontani ricordi che profumano di semplicità, e che sono talmente differenti dai propri da sembrare il retaggio di un mondo diverso e a tratti migliore.
Non si accorgono dello scorrere del tempo e solo quando veli di luce cominciano a posarsi sulle chiome degli alberi si alzano e ripercorrono in senso opposto la via che li ha condotti sin lì. Sorridono e si salutano, consapevoli che ciò che è appena accaduto accadrà di nuovo.


 
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Nota:
Il termine "Golodhrim" (= "gente dotata di profonda conoscenza") rappresenta l'appellativo con cui i Sindar identificavano gli esuli Noldor ed è qui utilizzato unicamente in funzione della sua origine sindarin, tralasciando eventuali connotazioni positive o negative che gli si attribuiscono in base al periodo storico.

Amariel (“Figlia della terra”), Amath (“Scudo”), Hádhion (“Figlio di colui che è devoto”) e Maidhwen  (“Dama pallida”) sono personaggi di mia invenzione. Tra parentesi è riportato il significato dei nomi nella lingua degli elfi dei boschi.



  
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