Ship&Crew: James Potter,
Sirius Black | James/Sirius
Genere: Hurt/Comfort; Romance; Slash
Rating: G
Varie ed eventuali: questa fanfic appartiene a Nals (la pubblicazione
l'ha voluta lei, tbh), che dovrebbe odiarla per essere solo un inganno
(storia lunga) e che invece la ama. Bah. Creaturina strana, quella mia
soulmate ♥
Vi dico fin da subito che Sirius e James fanno cose e dicono cose,
tutto è molto cososo, perciò se è la bromance che state cercando,
ebbene, non è la bromance che avrete. Ciononostante, la Rana vi ama
tutti. ♥
La vostra amichevole Rana di quartiere.
____
«Did you see the
flares in the sky?
Were you blinded by the light?»
(The Script, Flares)
____
James Potter era solo quando bussarono alla
porta.
Doveva essersi appisolato mentre cercava di scrivere il suo tema di
Difesa Contro le Arti Oscure, perché i colpi lo fecero sobbalzare,
portandolo a rovesciarsi sulla maglietta buona parte dell'inchiostro che era
rimasto nella piuma.
Spingendo da parte i libri e cercando di attenuare la macchia con le dita
(finendo però solo per sbaffarla e allargarla), attraversò il
lungo corridoio annaffiato dalla luce del mattino, spalancando infine la porta.
Un brivido freddo gli increspò la pelle.
Sirius Black se ne stava sulla soglia, le mani ficcate in tasca e le spalle
ingobbite, sul viso l'espressione più ferita e dolente che gli avesse mai visto.
Perfino gli occhi grigi, solitamente brillanti e scaltri, adesso erano immobili,
fissi sullo zerbino di casa Potter, e sospettosamente lucidi. Ai suoi
piedi giaceva una federa sporca e strappata; da uno squarcio nella stoffa
sporgeva l'inconfondibile manica di una t-shirt.
James non aveva bisogno di chiedergli cosa fosse successo; sapeva fin troppo
delle burrascose, umilianti dinamiche dei Black. Inoltre, era scritto con
dolorosa evidenza sulla faccia di Sirius, inciso tra un lineamento e l'altro.
Raccolse il fagotto lurido che giaceva accanto alle sue scarpe e con l'altra
mano cercò il gomito di Sirius, che si lasciò mansuetamente guidare in casa,
dritto fino alla camera di James, al quale fu sufficiente un cenno sbrigativo
del mento per ordinare alla porta di chiudersi. Senza dire una parola, capovolse
l'involto e lo svuotò sul letto. Mandava un forte odore di fumo e conteneva meno
di quel che aveva immaginato: una divisa di scuola tutta spiegazzata, un paio di
pantaloni, due t-shirt e una felpa, nel cui cappuccio erano appallottolati due
calzini dall'orlo bruciacchiato. Il misero bagaglio di Sirius Black era tutto
lì.
James aggrottò la fronte. Sirius non aveva l'aria di uno che era andato a
trovarlo per un paio di giorni e cos'era quell'odore di bruciato, ad ogni modo?
"E
il resto della tua roba?"
"Bruciato," disse, la voce graffiante e affaticata. James lo guardò meglio.
Erano tracce di fuliggine, quelle sul collo? Inquieto, spinse da parte i
pochissimi averi di Sirius e sedette pesantemente. Le molle cigolarono
vivacemente. Non sapeva con precisione cosa fosse successo, ma poteva benissimo
farsene un'idea: Sirius aveva cercato di andarsene e la sua deliziosa madre
aveva tentato di impedirglielo appiccando fuoco alle sue cose. Quello,
probabilmente, era tutto ciò che era riuscito a salvare.
Lo guardò un'altra volta, stavolta con maggiore attenzione. Aveva un'aria
trasandata, sporca e sconfitta. In diversi punti la cenere aveva sbaffato la
stoffa e la pelle. Alcuni ciuffi del suoi capelli lunghi erano carbonizzati in
punta. Più in generale, sembrava così sconfortato che James non aveva idea di
cosa fare. Remus era quello empatico e compassionevole e gentile, non lui. Remus
avrebbe saputo perfettamente cosa dire e quando dirla, mentre lui era stato
capace solo di una domanda frettolosa e priva di tatto. Era il caso di
rintracciarlo e farlo venire? Provò a domandarglielo.
"Senti," tentò garbatamente, "chiamiamo Remus, ti va?"
Sirius sospirò e si lasciò cadere sul pavimento, sbattendo la testa contro il
muro prima di chiudere gli occhi. "Fai come ti pare."
Suonava decisamente come un no. Sirius era stato sempre quello forte del
gruppo, quello sfacciato e sicuro di sé; non avrebbe tollerato di farsi
vedere in quello stato dagli altri, men che meno da Remus, il cui peggior
difetto era quello di voler sempre dare qualche consiglio, perfino quando
espressamente non richiesti. Incerto, James stirò il copriletto con
movimenti lenti e meticolosi delle mani, come se l'ispirazione per la mossa
successiva fosse intessuta nelle fibre di cotone e così facendo fosse
possibile calamitarla ai palmi come per una qualche reazione elettromagnetica. In
realtà, aveva la mente più vuota di prima.
Lo guardò una volta ancora e pensò che forse era quella la mossa successiva:
starsene lì seduti senza parlare, in silenzio, perfino senza pensare.
James non si oppose.
Charlus e Dorea Potter furono piacevolmente colpiti di trovarlo lì.
Sirius era di casa, ormai. Sin dal loro primo anno non c'era stata pausa
estiva senza la lunga visita del ragazzo, che spesso e volentieri non
tornava addirittura in famiglia e trascorreva l'intera estate dai Potter.
Non che sua madre avesse mai posto obiezioni: era lieta di levarselo di
torno quanto più possibile per affondare indisturbata le unghie ancora più
in profondità nel cuore arrendevole di suo fratello Regulus, l'unico vero
erede. L'unico vero Black.
Fu difficile, per James, sopportare la vista di Sirius che si sforzava di
mantenere le apparenze, inscenando orribili sorrisi troppo carichi o risate
troppo rumorose. Se anche i suoi si fossero accorti di qualcosa, non diedero
a vederlo. Sua madre aveva un'idea fin troppo precisa di come funzionassero
le cose in qualsiasi famiglia Black fedelmente devota al proprio sangue.
Quella stessa idea l'aveva spinta a fuggire a gambe levate dalla sua, di
famiglia Black, trovando rifugio nelle braccia gentili di suo padre.
Quando fu l'ora di raccogliersi intorno alla tavola per il pranzo,
celermente servito da Vookey, il loro elfo domestico, il signor Potter
cercò di indirizzare la conversazione sulla Coppa del Mondo di Quidditch, la
cui finale quell'anno vedeva contrapposti i tedeschi e gli svedesi. Le
risate e i sorrisi di Sirius sembravano più sinceri, ma non del tutto
autentici. Fu comunque una buona idea e un buon pranzo, le cui redini erano
state tenute da James e suo padre, lanciati in un teatrino sui pregi e sui
difetti di entrambe le squadre (su cui ovviamente divergevano) tutto a
beneficio di Sirius.
James sperò che non se ne fosse accorto.
Sua madre, d'altra parte, fissava Sirius con un tale espressione tormentata
che James fu tentato di colpirla con un calcio. Attenendosi alle buone
maniere, cercò di intercettare i suoi occhi, pregandola mentalmente di
piantarla. Dorea obbedì con un'ultima, penosa occhiata a Sirius.
Il pranzo, tuttavia, fu solo una breve parentesi.
Tornati nell'intimità della camera di James, Sirius, seduto rigidamente sul
bordo del letto, tornò ad incupirsi e
zittirsi.
"Ti va qualche tiro a Quidditch?" domandò James, cercando di suonare
disinvolto e allettante. Sirius lo ignorò.
"Una partita a scacchi? O magari a Sparaschiocco?"
Sirius non lo guardò neppure. Inutile insistere, pensò James. L'amico
sembrava sprofondato in un mondo di ombre e rancori tutto suo, impossibile
da penetrare. Perciò fece quello che riteneva più saggio: niente. Lo lasciò
in pace, sebbene nutrisse dei dubbi sulla salubrità del troppo rimuginare.
James non pensava che Sirius se la sarebbe presa troppo se avesse terminato
il suo tema e, libri e piuma alla mano, cercò di focalizzarsi nuovamente
sulla consegna: la magia di cui i Dissennatori si servivano per attaccare
l'uomo. Si sforzò anche di ignorare il malessere in cui l'argomento lo
sprofondava, ripensando all'inverno precedente, quando un Dissennatore si
era avvicinato a Hogsmeade, traumatizzando più di uno studente e suscitando
l'ira di Dumbledore. Lo ricordava perfettamente: lui e Remus erano stati tra
quegli studenti.
La penna grattava velocemente il foglio di pergamena, intessendo parole
piccole e ordinate, sebbene un poco sbilenche. Era singolare fare i compiti
con Sirius che non cercava puntualmente di interromperlo o farlo sbagliare.
Se James si concentrava totalmente sul compito, era facilissimo illudersi di
essere solo, che nessuno era seduto sul bordo del suo letto. Tuttavia, cercò
sempre di tenere sempre un poco di attenzione su di lui, nel caso in cui a
Sirius fosse venuta voglia di parlare. Invece, James fece in tempo a finire il
tema e riporre ogni cosa e Sirius, comunque, non aveva manifestato la benché
minima intenzione di aprirsi.
Cautamente, gli sedette accanto, così vicino che le loro braccia nude
sfregavano ad ogni respiro.
Solo da quella prospettiva notò un taglio lungo e sottile che andava
dall'orecchio fino alla giunzione tra collo e spalla, perdendosi oltre
l'orlo della maglietta.
"È stata lei?" domandò - non aveva bisogno di alludere apertamente
a sua madre - e fece per toccare il taglio, ma non appena lo sfiorò
Sirius schiaffeggiò la sua mano, furioso. "Che diavolo fai?!" gridò,
balzando in piedi.
"Sirius," iniziò ragionevolmente, ma avvertendo sempre di più la pazienza
esaurirsi, "sto solo cercando di capire-"
"Capire," ripeté Sirius, con un tono talmente sprezzante e disgustato che
James sentì come uno strappo allo stomaco. "Cosa ne vuoi capire, tu,
che hai sempre avuto una vita perfetta con una famiglia perfetta? Che ne sai, tu?"
James sospirò. Era così che doveva andare, allora: restare lì e subire
passivamente la rabbia immeritata di Sirius finché l'altro non avrebbe
finito per dire qualcosa di orribile che l'avrebbe portato a reagire. Lo
aveva visto accadere molte volte e non era mai finita bene. Mai. Solitamente
c'era Remus a limitare i danni, finendo con loro che non si parlavano per
qualche giorno e poi accantonare tutto senza chiarirsi esplicitamente. Nei
casi peggiori, James aveva riportato un labbro gonfio e qualche osso rotto.
Dovette fare un particolare sforzo di volontà per tenere a mente che quella
volta non c'era alcun Remus a tenerli lontani.
"Il massimo della preoccupazione, per te, è chiederti se Lily Evans ti
manderà un'altra volta al diavolo o no. Dopodiché arrivano le vacanze tu
vieni qui, a goderti la tua bella pausa con la mamma che ti prepara la
colazione e papà che ti legge il giornale. Al diavolo! Come puoi anche solo
cercare di capire quando tu hai sempre avuto tutto su un piatto d'argento?"
Lascialo sfogare, si disse, stringendo i denti. Non ce l'ha con
te, è solo molto arrabbiato. Lasciati scivolare tutto addosso.
"Ti faccio pietà, vero? Magari è per questo che mi hai permesso di essere
tuo amico. Il povero, povero Sirius così maltrattato dalla mamma! Il povero
Sirius che mi fa pietà perché non ha nessun altro e allora lo tengo con me
come un dannato cane randagio!"
"Certo, Sirius," scattò, con buona pace delle sue migliori intenzioni.
"Certo, è proprio su questo che si basa la nostra amicizia. Sulla pietà che
provo per te, su cos'altro? Perché è impossibile che io, che ho
avuto una vita tanto perfetta, possa provare affetto per te. In
realtà sei la mia personale opera di bene, ma sai, vista la tua
ingratitudine, da domani mi occuperò degli orfanelli!"
Doveva aver alzato la voce, perché sua madre bussò alla porta e il suo viso
fece capolino da uno spiraglio stretto.
"Ragazzi?"
"Non è niente, mamma. Vai," disse James, lo sguardo ostile e furioso rivolto
a Sirius e ricambiato che tuttavia non faceva il paio con le sue parole
misurate. Dorea sembrava incerta, ma alla fine richiuse la porta e si
allontanò lungo le scale. Il silenzio che seguì fu peggio di tutto il resto.
"Nell'armadio ci sono dei vestiti puliti," gli disse con una voce così
abbattuta che un'ombra allarmata calò sul viso di Sirius. "Non ti chiederò
di andartene, ma non ti chiederò neppure di restare. È una tua scelta, Sirius."
James non aveva più altro da dirgli; aprì la porta e se la richiuse alle
spalle senza guardarsi indietro.
Alla fine, era
sempre lì che James Potter finiva quando era furioso, o turbato, o
spaventato: in quell'anfratto strettissimo, umido e ombroso dove Vookey teneva le scope, giù in cantina.
Un luogo che era stato confortevole e accogliente fino ai suoi tredici anni,
circa, prima che la pubertà stiracchiasse il suo corpo, ridimensionando
l'intimità del posticino, un tempo rinfrancante, adesso solo soffocante.
Ciononostante, James strisciò fino a dove poteva arrivare, finendo
letteralmente incastrato, con le gambe ritratte al petto e le setole dure
delle scope a pizzicargli la parte bassa della schiena, dove la maglietta
era risalita, scoprendo una striscia di pelle.
Posò gli occhiali davanti a sé e sfregò contro il muro che lo intrappolava
fino a chinarsi in avanti e poggiare la fronte sulle ginocchia. La cantina
era talmente buia che, pur chiudendo gli occhi, non cambiava nulla. Con le
tenebre e il silenzio che premevano da ogni lato, James sospirò come se
fosse stato esausto. Sapeva che Sirius non pensava quelle cose, lo sapeva. E, checché lui
ne dicesse, James capiva quanto dovesse essere difficile vivere
quella situazione. Non gliel'aveva mai detto, ma c'era stato un tempo - un
lungo tempo - in cui i suoi genitori litigavano spesso e furiosamente; per
la maggior parte delle volte, soleva finire con lui che li supplicava di smettere e
sua madre che gli urlava di andarsene, di non intromettersi, che non erano
affari suoi.
Poi, con la morte dei suoi nonni paterni, le cose erano andate un po'
meglio. Oggi, di tanto in tanto, Charlus e Dorea si beccavano ancora, ma
privi dell'ostilità di un tempo.
Se Sirius si fosse preso la briga di controllare prima il cervello
e poi la lingua, prima di parlare, avrebbe senz'altro ricordato quel
dettaglio. L'ennesimo punto di convergenza che si era perduto nelle pieghe
ruvide della rabbia, aizzandoli l'uno contro l'altro.
Non voleva avercela con lui; un'altra persona ostile era l'ultima cosa di
cui Sirius avesse bisogno, adesso. Per quello si era rifugiato laggiù: per
lasciare la sua, di rabbia, nelle mani corrosive del buio e dell'umidità,
dove non avrebbe potuto fare male a nessuno. Era solo questioni di pochi
minuti, giusto il tempo di riempirsi un altro po' i polmoni di aria fredda e
pesante che potesse soffiare sulle fiammelle ancora accese della sua
irritazione.
Iniziò a contare, ma perse il filo quando ci furono dei passi sulla sua
testa, un paio di voci smorzate e una porta che si chiudeva sbattendo forte.
Contò nuovamente, stavolta concentrandosi sul suono dei suoi respiri, ma era
un conto alla rovescia che partì da diciassette e terminò nell'esatto
momento in cui la porta della cantina si spalancò, rigando le scale di luce.
Diciassette respiri, che era come dire quasi un minuto intero.
Che era come dire che tanto impiegava il mondo di Sirius ad essere scosso
dai sensi di colpa, spingendolo a tornare strisciando da lui.
C'era sempre
stata una linea sottile tra il perdono di James e il rimorso di Sirius.
Un confine che, tuttavia, non divideva, ma univa; dove c'era l'uno, doveva
esserci anche l'altro. Era un contorno sfocato e pallido, sconfinare da una
parte o dall'altra era facilissimo. Per questo, dopo ogni scaramuccia,
nessuno avrebbe saputo dire chi per primo, tra loro due, avesse mosso un
passo nella direzione dell'altro. Accadeva e basta; porsi ulteriori domande
sembrava stupido.
Anche adesso non era poi così diverso: Sirius si era mosso quando James
aveva deciso che era passato abbastanza tempo. Alla fine, se il loro
rapporto - con tutti i suoi annessi e connessi - veniva scandagliato,
sviscerato e sezionato, si riduceva tutto ad un solo nucleo, ad una
cellulare basilare: il bisogno che sentivano l'uno dell'altro. E sebbene si
sforzasse di negarlo, James sapeva che, tra i due, era lui quello a
necessitare maggiormente dell'altro. Era un sentimento singolare, con cui si
sforzava di convivere o lottare - dipendeva tutto dalle situazioni e dalle
disposizioni d'umore - sin dall'estate dei suoi quattordici anni, quando
anche un solo giorno lontano da Sirius diventava un anno di miseria. Peggio
ancora, un semplice litigio bastava a scatenargli delle crisi emotive così
accentuate che impiegava giorni a liberarsene - il tempo che occorreva a
Sirius per tornare da lui.
E c'era quel pizzicorino caldo sulla nuca ogni volta che Sirius era troppo
vicino che sembrava suggerirgli un desiderio equamente spartito tra la
voglia di allontanarsi e quella inspiegabile di avvicinarsi. Tra tutti gli
stravolgimenti incontro a cui il suo rapporto con Sirius era andato, quello
era senza alcun dubbio il più bizzarro, il più esasperante, il più destabilizzante.
Lo stesso brivido che sentiva soffiare sul collo adesso che, sebbene immersi
nel buio pesto, Sirius si era spostato davanti a lui, dopo aver sceso le
scale con il suo passo sempre così incredibilmente silenzioso. Non poteva
vederlo, ma nel suo sangue c'era sufficiente magia a percepirlo con
strabiliante chiarezza. E forse, pensò la parte più codarda di sé, era
meglio così; non era sicuro di voler vedere quello che indugiava sul suo
viso.
"Sei di nuovo in questa intercapedine? L'ultima volta tuo padre ha
dovuto tirarti fuori con un incantesimo."
"Oh, sta' zitto," gemette, rivivendo un'esperienza del tutto sgradevole di
cui avrebbe fatto a meno. Sirius sbuffò una risata.
"Adesso vengo là dentro."
"Non farlo! Non c'è abbastanza spazio per-- ow! Sirius, che dia-- Ow, era il
mio ginocchio, quello, imbecille!"
Sirius stava cercando di infilarsi a forza nel cubicolo, colpendo
inevitabilmente James ovunque nel tentativo di accucciarsi davanti a
lui. James riuscì a salvare gli occhiali, infilandoli velocemente nella
tasca del calzoncini. Imprecazioni e bestemmie si intrecciarono al fruscio di abiti sfregati
contro il muro e all'inconfondibile strappo secco della stoffa che cedeva.
"Era la mia camicia, cazzo."
Sordo ai rimproveri di James, che aveva a malapena lo spazio per muovere le
braccia e spingerlo via, Sirius fece un ultimo momento, disse a voce forte e
allarmata "Ow!" e infine si immobilizzò.
"James," lo chiamò, la voce turbata e vagamente imbarazzata che arrivava da
qualche parte vicino alla testa di James. "Mi sono incastrato."
James l'avrebbe preso a schiaffi, se avesse potuto. Invece, tutte e dieci le
dita erano in contatto con le spalle di Sirius, i gomiti incastrati che
premevano dolorosamente contro le pareti, come vittima di un eterno
stiracchiamento sospeso a metà. Le spalle iniziarono immediatamente a
dolere.
Sirius doveva essere inginocchiato da qualche parte davanti a lui, perché
erano chiaramente delle cosce quelle che premevano contro le sue ginocchia
nodose.
"Te l'avevo detto che non c'era spazio per tutti e due. Lo sai che
questo sarà molto imbarazzante quando verremo ritrovati da mio padre, vero?"
"Dirò che è stata colpa tua. Dirò che volevi rubare la mia virtù e fare di
me la tua concubina, e che io ho solo cercato di difendere il mio onore."
"Quello l'hai perso quando, durante Trasfigurazione, hai alzato la mano per
intervenire e hai fatto sparire i tuoi vestiti per vincere una scommessa con
Remus."
"Ehi, non li avevo dieci galeoni da spendere in Cioccoli ripieni alla
nocciola e caramello."
"Perché Remus te li aveva rubati il giorno prima, in modo da
costringerti a vincere
la scommessa."
"Cosa?!"
"Pensavi di bruciargli il compito e restare impunito?"
"Ecco perché poi sono magicamente riapparsi sotto il letto. E, tecnicamente,
è stato un incidente. Non l'ho fatto apposta."
"Sirius, volevi bruciargli il libro di Babbanologia."
"Appunto!"
James sospirò. Come al solito, si erano lasciati prendere la mano ed erano
partiti per una tangente senza capo né coda. Ci fu un lungo, scomodissimo
(letteralmente) minuto di silenzio. Poi: "Ti ho detto delle cose
terribili."
"Sirius, passi la vita ad incazzarti e dire cose terribili a chi cerca di
aiutarti. Ci abbiamo fatto tutti il callo, non preoccuparti."
"Lo so!" esclamò con enfasi, muovendosi e riuscendo a disincagliarsi (o
incastrarsi ulteriormente) quel tanto che bastava a far scivolare le mani di
James sul suo collo. Cercò di tenere le dita lontane, ma si arrese quasi
immediatamente: quell'ulteriore tensione portava scariche di dolore
insopportabile alle spalle, già di per sé provate dalla posizione.
"Lo so, va bene? Lo so. È questo il problema: lo so. Ed è veramente un gran casino, perché perdo la
testa-- e voi non riuscite mai a prendermi a calci e farmi smettere."
James aggrottò la fronte, carico di sarcasmo. Espressione sprecata, dal
momento che erano praticamente ciechi.
"È colpa nostra, adesso?"
"Sì. No! È colpa mia, naturalmente. Ma voi dovete smetterla di essere così
cavalieri e dirmi chiaramente che sto esagerando."
"Basterebbe a fermarti?"
Sirius tacque e James ipotizzò che ci stesse pensando su. "Non lo so. Voglio
dire, ci avete già provato, no?"
Sì, ci avevano già provato e ben più di una volta, ma James non aveva voglia
di dirlo ad alta voce. A che sarebbe servito, poi? Sirius sembrava essersi
calmato e tornato in sé, non era il caso di soffiare su delle braci che
ancora ammiccavano.
Impensierito dal
suo silenzio, Sirius lo chiamò.
"Cosa?"
"Non tornerò, stavolta. A Grimmauld Place, intendo. Finirò la scuola e
dopo... non lo so, forse chiederò a mio zio Alphard di ospitarmi. E poi, poi
si vedrà; là fuori non è per niente bello."
James ripensò ad un articolo che aveva letto sulla Gazzetta del Profeta
giusto la sera prima: un dipendente dell'Ufficio Misteri e la sua famiglia
erano stati assassinati. Quando li avevano trovati, il Marchio Nero ancora
scintillava spettrale nel lembo di cielo sopra la loro casa. E quello era
solo l'ultimo dei numerosissimi necrologi. Non troppo tempo prima, Alastor
Moody era andato a trovare suo padre e l'aveva sentito dire: "Muoiono come
mosche, Charlus." James supponeva avesse ragione. Quanto a quello che lui
avrebbe fatto dopo aver lasciato il nido rinfrancante di Hogwarts non aveva
nulla da dire perché, semplicemente, non ci aveva pensato, non
concretamente. Dalla piega che gli eventi stavano prendendo, da lì alla fine
dell'anno Voldemort avrebbe guadagnato ogni striscia di terreno disponibile.
Nessuno era nella posizione di fare progetti a lungo termine, men che meno
uno studente non ancora diplomato.
"No," confermò James, "non è per niente bello."
Ci fu un nuovo, lungo silenzio, e il disagio di James era dolorosamente
aumentato. Aveva perso sensibilità nelle braccia e nelle spalle; il dolore
era colato lungo la schiena, irrigidendola.
"Sirius, è ora di uscire da qui. Non mi sento più le braccia."
"Aspetta, ci provo," soffiò in un rantolo sforzato, mentre cercava di
disincagliarsi. Altre cuciture cedettero e lo spazio angusto si riempì
dell'odore del sangue. Era intenso e soffocante. Sirius gemette e una volta
gridò con la voce piena di arrabbiato dolore. James sfregò le braccia contro
il muro, avvertendo i gomiti scorticarsi. Strinse i denti, fece leva e
finalmente le braccia tornarono contro il petto, rannicchiate ma non più
compresse. Il sangue riprese a circolare e fu doppiamente doloroso. Giurò a
se stesso che avrebbe murato personalmente quell'intercapedine mortale.
Spingendo contro il petto di Sirius e facendo leva su ogni muscolo
disponibile, dopo essersi miracolosamente riuscito a mettersi sulle
ginocchia, dopo molti sbuffi e ringhi e gemiti di dolore, improvvisamente
furono liberi di ogni costrizione e la gravità li scaraventò contro il
pavimento.
Sirius fu il primo ad atterrare contro le mattonelle fredde. L'impatto gli
tolse il fiato, ma il corpo di James che cadeva lungo disteso sul suo gli
strappò un urlo non tanto di dolore, quanto di sorpresa. Restarono così per
un secondo, poi James scivolò via da lui, il cuore che batteva violentemente
nel petto, riverberandosi nella punta delle dita, nel retro delle ginocchia.
Perché per quel secondo, per quel misero, unico secondo, aveva sentito
l'intero corpo di Sirius premuto contro il suo, vicini in una maniera che
non avrebbe mai ritenuto possibile. E quando qualcosa stava iniziando a succedere nel basso ventre, James era rotolato via, terrorizzato da se
stesso e dall'eventualità che Sirius se ne fosse accorto. Attese che la voce
dell'altro arrivasse a prenderlo in giro o, peggio, accusarlo, ma non
ricevette altro che silenzio.
Alla fine, Sirius parlò.
"Mentre leggeva il giornale, ha detto che anche tu e Remus meritavate una
visita dei Mangiamorte. Che forse i prossimi necrologi sarebbero stati i
vostri. Voi, feccia, voi, mostri, voi, traditori del vostro sangue. Non le
ho neppure risposto; sono andato in camera e ho iniziato a raccogliere le
mie cose. Quando è arrivata, ha iniziato ad urlare e quando ha capito che
non la stavo ascoltando, mi ha colpito con una maledizione, bruciando poi
tutte le mie cose."
James, troppo agghiacciato per dire qualcosa, sentì distintamente uno
sfregamento ed ebbe l'improvvisa certezza che Sirius stesse passando il
palmo sul taglio che gli segnava il collo.
Ancora silenzio, poi: "Questo deve restare qui sotto, Potter," sbottò
bruscamente, ma la nota vulnerabilissima non sfuggì alle orecchie di James,
che tuttavia si limitò ad annuire con un verso di gola. Non si fidava della
propria bocca, in quel momento: Merlino solo sapeva cosa sarebbe potuto
uscirne dopo aver saputo che qualcuno, al mondo, augurava a lui, alla sua
famiglia e a quella di Remus di morire sotto la bacchetta di un Mangiamorte.
James non ebbe materialmente il tempo di disprezzare Walburga Black, la
quale sfortunatamente per tutti condivideva un legame di sangue con sua
madre e quindi con lui stesso, perché ogni pensiero esplose al tocco della
mano di Sirius che cercò e strinse la sua, forse incoraggiato dal buio e
dalla consapevolezza di essere soli e vicini.
Eppure, non appena James fece per stringere cautamente la punta delle sue
dita, Sirius si divincolò e con un movimento sciolto e veloce gli salì
letteralmente addosso, puntellandosi tuttavia sulle mani e sulle ginocchia
così da non schiacciarlo e non entrare in contatto con lui in nessun modo.
Infine, senza alcuna spiegazione, senza alcuna esitazione, fletté le braccia
e si abbassò finché la sua bocca non fu premuta contro quella di James. Non
c'era niente di romantico o delicato o eclatante nelle labbra di Sirius, che
erano semplicemente pressate alle sue - sembrava perfino un gesto freddo,
scientifico, controllato - ma ogni cosa, dal suo stomaco in giù, non la
pensava allo stesso modo.
Non la pensavano così le viscere che gli si cappottarono nella pancia,
giacendo all'insù e contorcendosi come i Vermicoli quando
accidentalmente si ribaltavano.
Non la pensava così lo stomaco, che si riempì di cose vive e nervose.
Non la pensava così l'erezione che andava, con suo sommo imbarazzo e orrore,
gonfiandosi nelle mutande.
Improvvisamente, fu assurdamente contento che Sirius se ne stesse così, a
gattoni su di lui, senza sfiorarlo nient'altro che con la bocca.
Lo sentì deglutire e scansarsi con disinvoltura. Si rialzò e colpì i vestiti per liberarli dalla polvere, e con voce
assolutamente tranquilla e sfaccendata disse: "Anche questo può rimanere qui
sotto, se vuoi."
Ovviamente!, urlò una voce indignata nella sua testa. Ma poi
qualcos'altro sussurrò: ovviamente non voglio che resti qui sotto.
La porta che si apriva e si richiudeva sbattendo suonò come una condanna. Si
sforzò disperatamente di pensare a Lily Evans.
Una voce fredda e canzonatoria, però, fu l'unica cosa che il cervello gli
restituì.
Lily Evans? E chi è, Lily Evans?
Quando il collo
iniziò ad essere talmente rigido da dolere ad ogni respiro, James Potter
decise che era ora di tornare di sopra, dove, poteva sentirli chiaramente,
Sirius e suo padre parlavano animatamente di qualcosa. Era stupito, ad onor
del vero, che sua madre non fosse ancora scesa ad assicurarsi che Sirius non
l'avesse assassinato e nascosto il suo cadavere. Probabilmente il suo amico
godeva presso i suoi genitori di più di fiducia di quel che pensasse.
Dolorante, con parecchie ossa che crocchiarono tutte insieme, si rimise in
piedi e a tentoni cercò il corrimano, aggrappandovisi come un vecchio
avvizzito, mordendosi la lingua ogni volta che si sorprendeva a passarsela
sulle labbra, come a punirsi. Si sentiva abbastanza ridicolo.
Anche e soprattutto quando la mano indugiò a lungo sulla maniglia, prima di
girarla e rientrare in casa. E quando finalmente la porta si spalancò fu
solo perché Sirius l'aprì per lui, fissandolo come se fosse stato un
perfetto idiota.
La disinvoltura con cui agiva lo irritava.
"Che stai facendo? Da quanto sei lì?"
James fece per rispondere, ma Sirius gli chiuse la bocca con una mano. Un
sentore intenso di sapone gli riempì il naso e un'occhiata rapida gli
confermò che si era fatto guarire le ferite, presumibilmente prima di una
doccian 7.
"Tu e Remus avete lo stesso problema: rimuginate troppo sulle cose." E se ne
andò, lasciandolo lì a rimuginare sulle cose.
Come se non fosse stata colpa sua.
Come se James non continuasse a sentire il fantasma della sua bocca premuta
contro la propria.
E la situazione, come scoprì, non ebbe modo di cambiare nei giorni che
seguirono. Sirius gli stava accanto, gli parlava, lo toccava perfino, senza
mostrare insicurezza, ritrosia o disagio. Era perfettamente tranquillo e
dopo la sua infelice confessione era tornato pienamente se stesso.
James, d'altro canto, aveva iniziato ad essere tutto ciò Sirius mostrava di
non essere: insicuro, riluttante, imbarazzato. Cercava di nasconderlo,
naturalmente, di lasciare quel bacio giù in cantina, ma più ci provava, più
era chiaro che quel bacio non sarebbe rimasto in cantina, ma lì, nel
suo qui-e-adesso, a tormentarlo per il resto della sua vita. Una volta sua
madre gli aveva detto che solo le cose importanti potevano dargli il
tormento e benché si sforzasse di negarlo, quello che avevano condiviso -
non solo il bacio, ma anche tutto il resto - era importante.
In tantissime maniere che neanche lui riusciva ad capire. Se ne sentiva
irritato, così come si sentiva irritato dal fatto che per Sirius non
sembrava importante, ma solo una serie di gesti a cui non aveva pensato e
che col senno di poi non meritavano neppure un minuto di riflessione.
Si sentiva deluso dal fatto per Sirius non sembrava importante, per
ragioni che non sapeva neppure spiegarsi. Giunse alla conclusione, mentre
mettevano piede a Diagon Alley per acquistare il materiale scolastico (la
lettera da Hogwarts era arrivata il giorno prima), che Sirius Black, in
qualche modo, doveva averlo rotto.
Si lasciò trascinare al Ghirigoro, all'Emporio del gufo (sua madre insisté
per comprargliene uno così da tenersi sempre in contatto, specialmente
durante quell'anno scolastico che si stava per aprire sotto i peggiori
auspici della guerra imminente) e da Madama McClan, dove Charlus gli infilò
discretamente in tasca una manciata di monete d'oro, bisbigliando: "Compra
qualcosa per Sirius, ma non dirglielo o non l'accetterà mai! Mettilo davanti
al fatto compiuto, James".
Non aveva voglia di comprare alcunché per Sirius, ma lo sguardo perentorio
di suo padre non sembrava lasciargli molta scelta.
"Fate con calma," disse l'uomo ad alta voce, mentre Sirius adocchiava con
fare critico una lunga veste del genere che sarebbe piaciuto da matti a
Dumbledore (azzurrina con centinaia di piccole lune ricamante a filo
d'argento) e scuoteva distrattamente la testa per dar cenno d'aver capito.
James ne approfittò per acquistare una nuova divisa scolastica, dal momento
che la sua, nell'ultimo anno, si era accorciata di parecchi centimetri,
lasciandogli le caviglie interamente scoperte. Poi, svogliato e distratto,
si guardò intorno, arraffando tutto ciò che sembrava potesse andar bene per
Sirius o almeno sposare qualcuno dei suoi gusti incontentabili.
Quando James si avviò al bancone per pagare, lo vide oscurarsi e uscire in
fretta dal negozio.
Il malumore tornò ad impossessarsi di Sirius, che non disse più nulla per
tutto il tempo. James pensò di risollevarlo vuotando il sacchetto pieno di
abiti nuovi sul suo letto.
"Ecco."
"Ecco cosa?"
"Il tuo nuovo guardaroba, ovviamente."
Sirius aggrottò la fronte, come se non avesse capito. James gli spiegò
pazientemente che non poteva tornare a scuola vestito dei suoi abiti (che,
per giunta, gli calzavano troppo piccoli) e che non poteva affrontare
l'inverno solo con la divisa e il poco che era riuscito a portare via.
Sirius sembrava ignorarlo mentre afferrava un pullover nero, morbido come il
pelo di un cucciolo, e se lo lasciava scivolare tra le dita, la stoffa che
si afflosciava sul copriletto in pieghe voluttuose.
Quando tornò a guardarlo, sembrava arrabbiato. Furioso, a dire il vero.
"Tra un paio di mesi è il tuo compleanno. Accettalo come regalo e basta,"
gli intimò, più aspramente di quel che avrebbe voluto, ma quello bastò a
chiudergli la bocca. Non aveva voglia di litigare con lui per quel motivo,
soprattutto perché avrebbe finito inevitabilmente per coinvolgere i suoi.
L'attrito tra loro poteva sopportarlo; quello tra Sirius e i suoi no,
decisamente no.
"Grazie," disse rigidamente, dopo un lungo silenzio imbronciato. Troppo
formale, troppo compassato.
"Di niente." Improvvisamente, si comportavano come due estranei. Nemmeno
durante i primi giorni a Hogwarts erano stati così ingessati e goffi.
Un'improvvisa consapevolezza lo colpì come uno schiaffo in pieno viso: non
c'era mai stato così tanto silenzio, tra loro. Avevano sempre avuto qualcosa
da dire, progettare, confabulare. Non avevano avuto tempo per tacere, o
voglia. Da giorni, invece, le loro giornate erano piene di momenti di vuoto,
in cui si limitavano a starsene semplicemente zitti, nella stessa stanza, ma
in due luoghi completamente differenti.
Non si riteneva un grande esperto di relazioni, ma era certo che quando
iniziava il silenzio, allora qualcosa finiva. Forse stava solo ingigantendo
tutto. Forse erano solo paranoie figlie di un gesto insolito che lo aveva
sconvolto. O forse, semplicemente, non avevano più niente da dirsi.
Era mai possibile? Due come loro, giunti al capolinea? E per cosa, poi? Per
un bacio insignificante su cui aveva rimuginato troppo, fino a lasciarsene
ossessionare?
Lo guardò con un'espressione disperata e urgente, sforzandosi di trovare
qualcosa da dire, qualsiasi cosa, ma la sua schiena dritta e larga non
suggeriva niente. Aprì la bocca, la chiuse, l'aprì ancora e la chiuse
ancora. Per la prima volta dopo anni, certi sentimenti bizzosi e imbronciati
dell'infanzia tornarono in superficie, come la voglia arrabbiata di piangere
quando non riusciva a fare qualcosa, o quando, dopo tanto impegno, il suo
bel castello di Magicostruzioni crollava da sé, mandando all'aria tutto il
suo pomeriggio di meticolosa concentrazione.
Sirius scelse quel momento per voltarsi e James, biasimandosi, si affrettò a
ricomporsi, ricordando che di anni adesso ne aveva diciassette, che era
ufficialmente un mago adulto e che certe emozioni dovevano appartenere al
passato e lì restare.
Ciononostante, non fu abbastanza veloce. Glielo vide in faccia, che non fu
abbastanza veloce. L'ombra allarmata di qualche giorno prima tornò in
picchiata sul suo viso, trattenendosi più del necessario. Fece per parlare,
ma la mano di James scattò a mezz'aria, tremò nervosamente e, lentamente, la
riabbassò. Non voleva ascoltare nulla. Non era vero che la loro amicizia
fosse al capolinea; non sarebbe finita, non l'avrebbe permesso. Quelli erano
stati solo pensieri cupi ed estemporanei che non gli appartenevano, che non
dovevano appartenergli.
Perché il bisogno di Sirius era soffocante e a volte scomodo, ma era vero, e
concreto. Qualcosa a cui aggrapparsi nei momenti di maggiore difficoltà. Una
bolla piena d'aria da respirare quando gli mancava il fiato.
E una vita senza Sirius era inesistente.
Sirius era in
giardino ad aiutare suo padre a liberarsi di certi gnomi che avevano preso
casa lì quando James scese in salotto dove Dorea stava ricamando, sedette
goffamente accanto a lei e le disse: "Sono in un gran casino e stavolta non
so proprio come uscirne."
Lei non si scompose. Con tutto il garbo del mondo, posò tutto il suo
materiale da ricamo accanto a sé, sfilò gli occhialetti tondi, li chiuse
delicatamente e, con un sospiro di sollievo, guardò fuori dalla finestra,
dove Sirius e Charlus osservavano da vicino quello che sembrava un cucciolo
di gnomo, parlando vivacemente. James ringraziò qualsiasi entità per avergli
dato una madre così intuitiva e sensibile, alla quale non serviva che il
figlio specificasse il gran casino in cui era incappato.
"Oh, io credo," disse Dorea, dopo molto tempo e molto silenzio (una
componente sgradevole che ormai stava diventando un'altrettanto sgradevole
costante nella sua vita, rifletté amaramente James), "che tu sappia
perfettamente come uscirne. Usa questa, ogni tanto," e gli picchiettò la
fronte con un dito affusolato, alzandosi e piazzandogli un bacio sulla
sommità della testa prima di raccogliere le sue cose e scomparire oltre la
soglia.
James annuì al pavimento, poi fissò la piantina posata sul tavolino basso
davanti alle sue gambe e sbottò: "E quello che diavolo voleva dire?"
Ma la piantina, o il pavimento, non aveva nessuna risposta. Quella, secondo
sua madre, era lì, proprio ad un tiro di schioppo, direttamente nella sua
testa. Celata dietro un muro insondabile come un cielo a notte fonda, senza
stelle o luna a mitigarne l'oscurità.
Guardò fuori dalla finestra.
Sirius sbottò in una risata divertita e James sorrise di riflesso. Era bello
quando rideva, Sirius; i lineamenti raffinati, da vecchia aristocrazia, si
piegavano in una forma più morbida e meno rigida, svecchiando quei tratti
somatici che, suo malgrado o per sua fortuna, erano l'unico retaggio della
sua nobile famiglia. Quando rideva, Sirius lo faceva come un ragazzino:
sfrenato, di tutto cuore, con la schiena un po' inarcata e le mani sulla
pancia. Non si preoccupava dei capelli che gli scivolavano sugli occhi o
della voce eccessivamente alta: non si preoccupava mai di nulla, Sirius.
Era tutto cuore e zero testa, Sirius. Quella doveva metterla James per
entrambi, il tanto che bastava a tenerli fuori dai guai, da quelli veri, da
quelli pesanti che sarebbero valsi loro ben più di una semplice punizione.
Ma era Sirius e non sarebbe esistito mai un motivo abbastanza valido
per cambiarlo e costringerlo a diventare qualcos'altro.
Si accorse tardi che la sua occhiata vacua adesso era ricambiata. Sulla sua
bocca aleggiava ancora il cenno di un sorriso, ma i suoi occhi erano seri e
grigi come l'acciaio alla luce del mattino. Lo salutò con un cenno della
mano e lo vide voltarsi e andare via senza neppure ricambiarlo.
Solo la promessa fatta a se stesso e il vago indolenzimento che ancora
sentiva alla schiena e alle spalle lo trattennero dal correre nel suo spazio
angusto, giù in cantina.
Afferrò la sua bacchetta, poggiata sul tavolino proprio accanto alla
piantina, e se la rigirò tra le mani, di malumore. Fece per Trasfigurare la
pianta in un coniglio, ma ottenne solo un'orrenda pianta carnivora che
spalancò le fauci per strappargli la mano a morsi. Sobbalzando, James gridò
allarmato:
"Evanesco!" e la pianta squilibrata evaporò come neve al sole.
"Pensavo non avrei mai vissuto abbastanza per assistere a questo giorno,"
commentò drammaticamente Sirius, poggiato allo stipite della porta con
un'espressione ingannevolmente sconvolta.
"Quale giorno?" chiese James, passandosi una mano tra i capelli e tradendo
il suo nervosismo.
"Quello in cui avresti clamorosamente fallito con una Trasfigurazione.""
"Non ho fallito!"
"Quindi avevi in mente una pianta squilibrata che ti staccasse via la mano?"
"Be', non proprio."
"Sai," iniziò, con aria studiatamente indifferente ma volontariamente
suadente, avvicinandosi anche troppo, per i recenti gusti di James. "Se io potessi usare la magia, non me ne starei qui a tentare
trasfigurazioni fallimentari..."
"Le mie trasfigurazioni-"
"...piuttosto mi Smaterializzerei in qualche posto interessante, a godermi
quanto resta delle vacanze, cioè poco, pochissimo."
"Non ho mai fatto una Smaterializzazione congiunta."
"E allora?" ribatté, come se fosse stata roba da poco.
"E allora?! E allora non voglio che tu finisca Spaccato, Sirius!"
"Oh, carino da parte tua preoccuparti per me," lo prese in giro, ma James
era troppo nervoso per scorgere la nota insolitamente morbida nella sua
voce, finendo inevitabilmente per fraintendere.
"Certo che mi preoccupo! Passo metà del mio tempo a preoccuparmi per te!"
"Davvero?"
"Sì, davvero!" gridò e la parola restò a galleggiare tra loro, che, in piedi
nel mezzo del salotto, si fissavano cercando di interpretarsi, di imparare a
leggere le persone che erano diventate in quella manciata di giorni. E
James, un tempo così bravo a tradurre ogni guizzo del volto di Sirius,
adesso non riusciva a vedere che una maschera di dura impenetrabilità.
Quando iniziava il silenzio, qualcosa cominciava a finire. Ma quando uno non
era più capace di capire l'altro, allora voleva dire che qualcosa era già
finito.
Vacillò, lasciandosi cadere sul bracciolo, guardando la bacchetta con
un'espressione stralunata, come se non avesse idea del perché l'avesse in
mano. La gettò sul divano, fissando furioso le proprie scarpe.
"James," lo chiamò, strattonandogli il mento con un movimento secco per
costringerlo a fissarlo. Sembrava un gigante e il fatto che lo superasse di
una spanna in altezza non contribuiva a smorzare l'effetto. C'era una tale
risolutezza, nel suo sguardo, che James si domandò cosa gli stesse passando
per la testa. Di solito quell'aria decisa e concentrata precedeva un'azione
di cui James si sarebbe immediatamente pentito. Quando Sirius Black faceva
quella faccia, solitamente, entrambi si ritrovavano ad un passo
dall'espulsione. Il fatto che non fossero a scuola e che Remus non fosse nei
paragi a limitare i danni lo impensierì al punto da fargli dimenticare tutta
la rabbia che gli aveva riempito la testa fino all'attimo prima.
"Adesso ti bacio," gli disse, ma suonò più come un'imposizione e non c'era
traccia di imbarazzo nella sua voce o nei suoi occhi.
E James non poté fare altro che guardarlo e dire, con voce pigolante e
insolitamente acuta: "Okay."
La risposta che tanto aveva smaniosamente aveva cercato la trovò
inaspettatamente lì, sulle labbra di Sirius.
Contrariamente a
quello che la maggior parte dei suoi compagni credevano, James non aveva
passato i precedenti sei anni a baciare innumerevoli ragazze. Certo, era
rarissimo non vederlo accompagnato da qualche compagna, ma questo non
significava che lui dovesse baciarle tutte. Una voce che Sirius aveva
ritenuto divertente far prosperare, perché, aveva detto, l'aria del playboy
aggiungeva solo punti.
Non ne sapeva granché di baci, non tanto quanto Sirius comunque; tra i due,
era lui quello avvezzo a baciare le ragazze (voleva stabilire un record
mondiale). Sapeva solo che a volte erano piacevoli, altre volte gli
provocavano dei crampetti deliziosi allo stomaco e altre ancora, bene, altre
ancora lo eccitavano.
Ma i baci che scambiò con Sirius quella notte, ingarbugliati nelle lenzuola
sudate, con i capelli di Sirius che finivano continuamente tra le loro
labbra, erano cose che non aveva mai conosciuto. Cose che mai avrebbe
pensato di poter provare.
Erano cose che lo facevano sentire come un segugio quando catturava una scia
di sangue e schiumava d'eccitazione, che gli facevano desiderare cose
di cui ignorava perfino la meccanica.
Sirius aveva sghignazzato a mezza voce dei suoi maldestri tentativi di
togliergli la maglietta, salvo poi sussultare sorpreso quando James
aveva spinto la lingua nella sua bocca, inchiodandogli la testa contro il
cuscino con entrambe le mani. I capelli di Sirius erano morbidi e caldi al
tatto, ma anche umidi e scivolosi.
La calura estiva non si era ancora allentata e stare così avvinti procurava
loro un calore quasi insopportabile, ma non lo ritennero un buon motivo per
separarsi.
Era come se ci fossero anni di occasioni e baci perduti da recuperare nello
spazio di una notte, freneticamente, goffamente. Avevano continuato a
baciarsi fino alle prime luci dell'alba, ma la foga iniziale era già
scomparsa da ore. Adesso i movimenti erano più lenti, misurati, intimi. Come
se dopo un primo, veloce giro di ricognizione generale, adesso si stessero
conoscendo meglio. Paradossalmente, fu quell'implacabile lentezza ad
imbarazzare James e si sentì colpevolmente sollevato quando, con un ultimo
schiocco basso, Sirius si accasciò accanto a lui, giacendo supino su un
letto sfatto e bagnato di sudore.
La calura della sera aveva ceduto il passo al fresco pungente dell'alba e
l'aria fredda che sbuffava dalla finestra aperta era ancora più fastidiosa
sulla pelle sudata, soprattutto adesso che Sirius gli giaceva accanto, senza
toccarlo. Rabbrividì piano ma non osò prendere il lenzuolo. Per qualche
ragione, non aveva voglia di parlare. Per la prima volta da giorni, quel
silenzio era giusto e piacevole. Durò abbastanza da permettere ai bagliori
del crepuscolo di ingrigire la camera, gettando ombre lunghe sui muri,
abbastanza da permettergli di vedere gli occhi di Sirius brillare mentre
tornava a parlargli.
"Allora," disse, come per riprendere un discorso lasciato a metà o tirare i
fili di una discussione.
"Allora," gli fece eco James, decisamente meno propenso a parlare di lui.
Adesso che poteva guardarlo dritto in faccia, provava sentimenti
ambivalenti: imbarazzo, vergogna, ma anche piacere, e desiderio. Non
riusciva a capire come quello che avevano avuto potesse sopravvivere alla
luce del mattino. Come potesse non restare giù, nella cantina dov'erano
successe cose importanti.
"È strano, mh? Voglio dire, io e te. In questa maniera."
"Strano come?" si lasciò sfuggire, più agitato di quel che avrebbe
voluto dare a vedere.
"Strano bello. E strano scontato, anche. Cioè, non so tu, ma io avevo la
sensazione che saremmo finiti così da anni."
Anche James, guardando a tutti quei suoi bizzarri cambiamenti nel rapporto
con Sirius nel corso degli ultimi tre anni, adesso sapeva che era così che
doveva finire. Che quel pizzicorino lieve era un segnale che solo la bocca
di Sirius è riuscita a decodificare.
Sì, era strano bello. Ma anche strano giusto.
"Quindi, io e te."
"Come sempre, Prongs."
Ma non era vero. Non erano sempre stati in quel modo. Forse mancava un
da adesso in poi. Di punto in bianco, James spalancò gli occhi, come
se un'idea lo avesse colpito così forte da stordirlo. Tutti quei silenzi,
tutte quelle piccole cose che finivano... erano loro. Loro che erano
giunti al capolinea di quella prima fase. Era il loro rapporto come lo
conoscevano che era terminato, non il loro rapporto e basta. Tutto doveva
finire per rinascere in quella forma, nella culla morbida di quel letto
disordinato.
Forse, tra tutte, era questa la risposta che aveva rincorso, quella che sua
madre gli aveva suggerito di cercare nella sua testa.
Sulle labbra di Sirius aveva trovato altro, ma non meno importante.
"Cosa dovremmo essere, adesso?" chiese, ma più a se stesso, che a lui.
Ciononostante, Sirius rispose.
"Il solito, che altro? Io e te, e basta. In qualsiasi modo ci passi per la
testa. Questo," e sventolò una mano, come ad indicare la notte appena
passata, "è solo un'altra cosa che possiamo essere. Amici, alleati, nemici,
rivali... questo. Siamo troppo eccezionali per vivere in una
nicchia esclusiva," disse superbamente, con la nota scherzosa che appena si
percepiva. Quella era colpa di Dumbledore, pensò James; l'anno prima avevano
sorpreso lui e Flitwick parlare degli studenti più promettenti e il Preside
aveva detto: "James Potter e Sirius Black sono tra i migliori che Hogwarts
abbia mai avuto, ebbene su questo non ho alcun dubbio."
Da quel momento, l'ego di Sirius non era stato più lo stesso.
James lo fissò per un momento prima di dire: "Ma sta' zitto," e sbadigliare,
finendo per mettersi più comodo, con la testa che, chissà come, era finita
premuta contro la spalla di Sirius.
Il tempo delle conversazioni era finito. Ora iniziava quello del riposo.
Ora iniziava quello della rinascita.
Remus Lupin
sembrava aver guadagnato ulteriori centimetri in altezza quando apparve
sulla soglia dello scompartimento, trascinandosi dietro il suo baule dagli
angoli scheggiati. Con discrezione, James sciolse le proprie dita da quelle
di Sirius, sperando di non farsi vedere dall'amico, e lo saluto: "Moony! Ci
sei mancato così tanto, vecchio lupastro."
"Sì, Moony, vecchio lupastro, la nostra estate è stata terribilmente
sregolata senza i tuoi rimproveri e il tuo buonsenso," rincarò Sirius,
spingendolo a sedere sul sedile davanti al loro mentre sistemava il suo
bagaglio.
"Immagino," replicò Remus, levando brevemente gli occhi al cielo col solito
sorriso indulgente che ormai apparteneva a loro. Senza aspettare, tirò fuori
una tavoletta di cioccolato, la spartì in quattro pezzi e solo allora,
mentre li distribuiva, si rese conto dell'assenza.
"E Peter?"
"Avrà rovesciato il suo baule. Lo fa ogni anno, lo sai. Arriverà, non ti
preoccupare," spiegò Sirius e sventolò la mano come a sminuire la cosa.
Remus avvolse nella carta il pezzo destinato a Peter, lo posò accanto a sé e
prese a mangiucchiare il suo.
Era una specie di rito, quello: spezzare il cioccolato e mangiarlo con loro.
Andava avanti fin dal settembre del secondo anno e non c'erano motivi per
interromperlo, specialmente adesso che si approssimavano a tornare a
Hogwarts per l'ultima volta.
"Allora, Remus," iniziò Sirius, inghiottendo l'ultimo pezzo di cioccolato in
un boccone esageratamente grosso, "racconta. Come sono andate le vacanze?
Hai letto altri duecento libri o cosa?"
"A dire il vero, ho scoperto che mi piace molto il teatro. Ho seguito
diverse prime interessanti."
Sirius approfittò dello starnuto improvviso di Remus per far finta di
vomitare oltre il sedile. James gli sgomitò nel fianco, ma tremava tutto nel
tentativo di non ridere.
"Sirius, ti ho visto."
"Visto cosa?"
"Solo perché tu sei biologicamente incompatibile con qualsiasi forma d'arte,
non vuol dire che il teatro faccia oggettivamente schifo. Anzi, penso che
piacerebbe anche a te, con tutte quelle ballerine nei loro tutù," buttò là e
a nessuno dei due sfuggì il sorrisetto malizioso sulle labbra di Remus. Era
un evento raro che Remus peccasse di malizia.
Sirius alzò le sopracciglia, positivamente colpito. E poi, rilassandosi
contro lo schienale, con una spalla premuta al braccio di James, ghignò e
disse: "Ballerine in tutù, eh? Sai, Remus, forse potrei anche rivalutare il
teatro."
"Sicuramente," rise l'altro, domandando poi come loro avessero trascorso le
vacanze.
Il cuore di James batté un po' più forte.
"Niente di nuovo," rispose laconicamente, la faccia insondabile che
resistette perfino all'assalto curioso dello sguardo di Remus. Eppure,
qualcosa dovette trasparire perché le sue labbra si tesero in un sorriso di
comprensione e gli occhi ambrati scintillarono come di trionfo.
"Immagino che quest'anno sarà interessante, eh?"
James, di punto in bianco, fu pervaso dalla certezza che Remus, in qualche
modo, avesse capito tutto.
Era molto imbarazzante.
L'intervento di Peter che entrò nello scompartimento caracollando addosso a
Remus fu provvidenziale. Sirius approfittò della confusione per chinarsi sul
suo orecchio, le labbra così vicine da sfiorargli continuamente la pelle,
risvegliandogli quel pizzicorino lieve sul collo.
"Allora, sarà un anno interessante, eh, James?"
James finse di stringersi nelle spalle, come se la cosa non lo riguardasse.
"Suppongo di sì."
Sirius rise e, dopo aver scoccato un'occhiata in tralice a Peter e Remus che
ancora cercavano di rimettere insieme il bagaglio dell'ultimo arrivato, gli
lasciò un bacio silenzioso dietro l'orecchio, tornando poi ad appiattirsi
sul sedile.
Restarono in silenzio a guardare i due amici raccogliere le cose di Peter,
ma era un silenzio benevolo e disteso, di quelli che James aveva imparato ad
apprezzare durante gli ultimissimi giorni di vacanza, disteso di traverso
sul pavimento freddo della cantina con la testa mollemente abbandonata sullo
stomaco di Sirius.
Andava tutto bene.
Amo i tuoi
silenzi.