Serie TV > The Vampire Diaries
Segui la storia  |       
Autore: everlily    03/09/2015    14 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
22

Pre-nota. Non lo so se siete ancora lì, meravigliose appassionate lettrici che hanno fatto crescere questa storia facendola diventare tutto ciò che è stata per me. So che i mesi sono stati lunghi e che TVD ha deluso molte (o almeno la sottoscritta), so che per un bel po' mi sono data al silenzio, e so che forse leggere la fine di questa storia adesso, con questo stato d'animo, magari non sarà la stessa cosa. Mi dispiace di averci messo così tanto e di aver lasciato tanti bellissimi commenti senza una risposta.

Comunque adesso è qui. Ci saranno due ultimi capitoli, questo che è il penultimo, ed il prossimo che è quello finale, più un epilogo.

Non dovrebbe passare molto tra la pubblicazione di uno e l'altro.

Al proposito, prima che leggiate, volevo solo dire che i flashback di questo capitolo e quelli del prossimo sono strettamente collegati. Si riferiscono alla stessa giornata, anche se con un focus diverso, ed è per questo che alcune cose di questi si capiranno solo nel prossimo, ed alcune cose del prossimo si possono capire solo tenendo a mente questi.

Le scene "tagliate" non le ho più pubblicate perché mi sono concentrata sul riuscire a finire la storia principale, e tornare a pubblicarla a settembre come avevo detto. Le riprenderò magari nelle prossime settimane, come extra.

Grazie delle vostre parole e grazie per avermi, nonostante tutto, riaccolta sempre con entusiasmo. Sarò felicissima di sentirvi ancora, se ci siete sempre.

Buona lettura, e a presto

ever



22.

All about you


- Here I am still holding on,
you’re finding ways to break the bonds,
they’re stronger than you realize

You could say that I’ve not tried,
I’ve let you down, left you behind
but you’re the one who’s saying goodbye -

(All about you - Birdy)


Elena


La prima volta che vidi Damon, lui non sapeva neanche che io esistessi.

Era l'homecoming del primo anno. Ero particolarmente eccitata e nervosa, all'idea della mia prima esibizione con la squadra di cheerleading, mano nella mano con Caroline, il pensiero del se sarei stata in grado di fare una capriola all'indietro davanti a tutte quelle persone la più grande delle mie preoccupazioni. Lui se ne stava appoggiato in disparte contro uno dei pali di sostegno, l'aria annoiata e vagamente infastidita. Stava aspettando una delle mie compagne di squadra, una del terzo anno, e mi ricordo di essermi chiesta se lei lo avesse notato, che quando le aveva sorriso per salutarla, lì sotto a quel sorrisetto sfrontato, l'aria annoiata e vagamente infastidita era rimasta fermamente intatta. Tre giorni dopo, la stessa ragazza era negli spogliatoi ad inveirgli contro, ad insultarlo dando fondo a tutto il repertorio che aveva, ed io avevo pensato tra me e me, "io non mi lascerò mai coinvolgere da ragazzi così".

La prima volta che avevamo parlato, avevo avuto un assaggio di quanto traballante potesse essere quel proposito. Lì a quel falò ma lontano dal fuoco e dalla musica e dal rumore, fu la scintilla a farmi vacillare. Quella che gli illuminò lo sguardo durante le poche frasi che avevamo scambiato. Quella scintilla che mi aveva fatto sentire audace e carina e meno la ragazzina che ancora ero. Avevo flirtato senza rendermi conto che lo stavo facendo, e mi era piaciuto. Mentre tornavamo a casa, mia madre mi aveva chiesto come mai stessi sorridendo, ed io mi ero mordicchiata le labbra per nasconderlo, quel sorriso segreto, rispondendo un "Nessun motivo" che non avrebbe probabilmente ingannato nessuno.

Come fossimo arrivati da lì ad essere ciò che eravamo era più difficile da dire. E' buffo come raramente ci si renda conto del vero inizio di qualcosa, finché non vi si è già del tutto dentro.

Forse era stata la coincidenza di trovarci più di una volta sulla stessa strada, agli stessi incroci.

Ma non sono le coincidenze ad attirare le persone. Non era coincidenza tutto ciò che avevamo intravisto, cercato, trovato, perso e ritrovato ancora e ancora l'una nell'altro. Non era coincidenza il modo in cui avevamo finito per legarci. Quello lo avevamo cercato. Voluto. Necessitato.

La prima volta che lo realizzai davvero fu quella notte: quella in cui si addormentò su di me, ammaccato e sfinito, sul mio petto che non la voleva smettere di girare per quel bacio che mi aveva tolto tutto il respiro che c'era da togliere. Quella notte già vicina all'alba in cui scivolai nel sonno pensando al ragazzo annoiato appoggiato contro il palo. A quello spezzato sul mio petto. A tutto ciò che c'era nel mezzo.

Ciò che non avevo considerato, però, era che la stessa cosa avrebbe potuto dirsi per ogni volta che ci facevamo a pezzi. Neanche ad allontanarci era la coincidenza; era che non potevamo farne a meno. Se lo avessi fatto, se avessi considerato anche quello, allora forse lo avrei saputo già, che il momento in cui credetti di averlo ritrovato era solo quello in cui lo stavo perdendo davvero.


***


E' decisamente troppo presto per essere al Grill. Sia perché non apriamo per almeno altre due ore, sia perché è Jenna ad avere il primo turno del mattino, ed io non dovrei essere qui almeno fino all'ora di pranzo. Ma ugualmente chiudo la porta alle mie spalle, lasciando entrare insieme a me un prezioso soffio di fresca aria mattutina, lascio la borsa ad un lato del bancone, mi lego i capelli, e do il via ad una routine automatica che è piatta e tediosa ma che è anche l'unica cosa che ho trovato da frapporre tra me e l'irrequietezza che mi pulsa dentro.

E' meglio essere qui, alle cinque e mezza in una frizzante mattina di sole che diventerà calda ed umida nel giro di poche ore, piuttosto che a rigirarsi in mezzo a lenzuola spiegazzate dopo un'altra notte mezza insonne come tutte le notti che ho avuto da quando ho lasciato San Francisco. E' meglio che dare occhiate nervose al telefono solo per trovare un'altra chiamata persa di Elijah, è meglio di questo dannato limbo in cui sono andata ad infilarmi, è meglio che stare senza far niente ed è meglio del decidersi a fare qualcosa riguardo a tutti i fili sottili che fino a poco tempo fa tenevano insieme la mia vita e che adesso non so più che diamine di fine abbiano fatto.

No, l'ultima è una bugia. Non è meglio. E' una lotta allo sfinimento con me stessa che sono troppo codarda per vincere.

Sono passati tre giorni da quando Stefan mi ha chiesto di mantenere la farsa e tenere nascosto il mio tradimento agli occhi dell'uomo a cui ho già mentito così a lungo, ed io non sono stata capace né di accettare né tantomeno di rifiutare. Tre giorni in cui temporeggio, considero cosa sia meglio fare, evito Elijah, prendo tempo, evito Damon, evito me stessa, temporeggio ancora un po'. E mi sono resa conto che è un giochetto a cui sono dannatamente brava. Fin troppo brava. Così brava che non lo so più neanche io, se sto prendendo tempo perché voglio concedere a Stefan e a quel suo complicato, frustrante, fratello il tempo che mi ha chiesto o semplicemente perché non decidere è quello che faccio. A volte, ho la sensazione di star temporeggiando, e fingendo, da quasi metà della mia vita.

Così, invece di pensare a quello, riverso tutta la frustrazione e l'irrequietezza repressa su miriadi di piccole cose di decisamente più facile soluzione. Passo la spugna sui tavoli. Riordino le bottiglie sugli scaffali. Pulisco le macchine del caffè, metto ordine tra le ultime fatture, scrivo liste. L'inventario della dispensa, le cose in eccesso, le cose da ordinare. Turni del personale, mercoledì, giovedì, venerdì …

Parlare con Jenna.

Guardo l'ultima voce che ho appena scribacchiato sul piccolo bloc-notes giallo. Sollevo la penna e sto per scarabocchiarla via, mi fermo e la poso sul foglio.

E' uno di quei pensieri un po' folli, uno di quelli che mi è passato per la testa in una delle mie notti agitate. Uno di quegli "e se ..." che arrivano lampeggiando nella testa in un insieme un po' strano di  euforia e paura, e se, e poi quando si fa giorno ti lasciano lì a domandarti, l'ho davvero pensato, voglio farlo davvero.

Mordicchio la penna. La frase rimane lì.

La porta si spalanca di colpo, strappandomi dalle mie liste e dai miei "e se" e facendomi raddrizzare dal bancone. Caroline irrompe nel locale, io getto uno sguardo confuso verso l'orologio alla parete.

"Care!" le vado incontro. "Che ci fa qui così presto, non sono ancora neanche le set…"

Caroline mi taglia corto sollevando la mano sinistra davanti alla mia faccia, risplende in un sorriso e nell'alone di sole che filtra dalla porta aperta alle sue spalle.

"Sto per sposarmi!" grida.

Spalanco gli occhi e li sposto tra lei e lo scintillio sull'anulare che mi ha messo davanti. L'attimo dopo mi lancio su di lei abbracciandola così stretta da tirarle fuori un altro squittio acuto, sentendomi riempire fino all'orlo, scoppiare di felicità per lei, che ride stringendomi di rimando.

"Oh mio dio," rido. "Oh mio dio, sono così felice per te!"

La lascio andare solo per afferrarle la mano e rigirarmela davanti agli occhi in modo da poter dare un'occhiata come si deve alla nuova aggiunta attorno al suo dito. E' incantevole. Più piccolo del mio, ma è così perfetto, così delicato, così armonioso, e così Caroline da essere infinitamente più bello.

Torno a guardare lei, sorrido di nuovo. "Cosa ti ha fatto cambiare idea?"

Inclina appena la testa di lato, ed il sorriso che le curva le labbra si fa quasi timido.

"Stefan," risponde semplicemente, in un modo che da solo dice tutto e non avrebbe neanche bisogno di aggiungere altro. "Mi ha fatto capire che non vuole sposarmi per via di qualche concetto di ideale di come dovrebbe essere le cose. E' perché siamo noi. E in qualsiasi modo andranno le cose, qualsiasi cosa decideremo … basta che siamo noi."

Deglutisco a forza, attorno a qualcosa che adesso mi punge la gola. Ho gli occhi inumiditi di felicità per lei, ma anche di una piccola punta di retrogusto triste che mi ha appena amareggiato la bocca.

"Oh, non piangere," mi ammonisce lei con un colpetto sulla spalla. "Per favore. Perché se piangi tu, poi inizio a piangere anche io, ed ho smesso soltanto tipo un'ora fa, e proprio oggi non posso andare in giro con gli occhi gonfi, ok?"

Rido e mi asciugo sotto le palpebre. "Non posso promettere niente."

Caroline sorride. Poi, come ricordandosi improvvisamente qualcosa di molto più importante, mi afferra per entrambe le braccia.

"Ho bisogno del tuo locale. Oggi." Fa un ampio gesto con le mani. "Tipo, tutto quanto."

Sbatto le palpebre perplessa. "Cosa?"

"Per la festa di fidanzamento. Stasera."

"Stasera?… Non hai bisogno di almeno un paio di giorni per organiz-"

"Sette anni!" Mi interrompe subito lei. "Non ho intenzione di aspettare un giorno di più."

"Ma tutto in giorno solo, come-"

"Pronto? Lo sai con chi stai parlando, sì?" Si affretta a tirare fuori sia il telefono che l'agendina dalla tasca e semplicemente così, nel giro di mezzo secondo, la sua mente è già volata via. "Dunque. Devo chiamare Bonnie e tipo tutti quelli che conosco, e poi ritorno così possiamo parlare del cibo, e, oh, poi vado dal fioraio e vediamo anche per la musica, e naturalmente devo scegliere il vestito, e …" Prende un profondo respiro e dà il via al conto alla rovescia sul display del telefono. Solleva di nuovo lo sguardo con un largo sorriso. "Dodici ore. Tanto lavoro da fare. Ci vediamo!"

Mi schiocca un bacio sulla guancia e turbina via fuori dalla porta, senza neanche darmi il tempo di rispondere, lasciandomi frastornata in un locale vuoto improvvisamente ancora più silenzioso di prima.

Torno verso il bancone. Giocherello con le mie liste e le mie piccole cose di più facile soluzione, senza riuscire davvero a riprenderle da dove le avevo lasciate. Quel grumo felice e solo appena un pochino triste non lascia spazio a nient'altro.

Mi asciugo di nuovo gli occhi, anche se non lo so più queste che tipo di lacrime sono, ed esito appena un altro momento, prima di allungarmi verso la mia borsa. La piccola scatoletta di velluto dove ho richiuso l'anello che dovrebbe stare al mio dito mi guarda accusatoria dall'altro lato della zip aperta. Prendo il mio telefono.

Risponde subito, già senza più alcuna traccia di sonno nella voce. Quando parlo, devo prima prendermi un attimo per schiarirmi la voce.

"Ciao … " Inspiro. "Penso che dobbiamo parlare."


***


Strisce brillanti di sole che rompevano le ombre pallide della stanza. Il ragazzino dei giornali che gridava qualcosa fuori dalla finestra. Troppe poche ore di sonno ad ovattarmi la testa.

Impiegai qualche secondo, ed una stordita occhiata intorno, per capire cos'era che mi aveva appena svegliato.

Mio fratello era in piedi sulla soglia della mia camera, tra la stipite e lo spiraglio di porta aperto solo quel tanto che bastava per incorniciare la sua figura lunga e magrolina, intento a fissarmi.

No, non stava fissando solo me. Ma me accanto a Damon ancora profondamente addormentato, con la testa sul mio cuscino ed un braccio attorno al mio fianco per tenermi vicino a lui.

Piano, mi tirai su a sedere. Un afflusso di calore mi imporporò le guance, sotto allo sguardo incuriosito di mio fratello, e all'improvvisa consapevolezza di avere ancora la gonna disordinatamente aggrovigliata intorno ad una coscia, incastrata sotto alla gamba di Damon. La spinsi giù - cercando di non soffermarmi sul respiro regolare di Damon che soffiava piano sulla mia spalla, sul turbinio di sensazioni della scorsa notte che andava a riaccendere - e riportai lo sguardo su Jeremy.

Mi portai un dito sulla bocca, per fargli capire di fare silenzio.

"Scuola," mimò lui con le labbra.

Annuii ed aspettai che se ne andasse. Non lo fece.

Gettai un rapido sguardo verso Damon. Dovetti resistere all'impulso di scostargli una ciocca spettinata di capelli neri dalla fronte, lì sopra al taglio rattoppato che gli attraversava l'attaccatura dei capelli, e costringermi a mettere tutto da parte per un altro momento, uno senza mio fratello in pigiama ad aspettarmi sulla soglia della porta, per poter riuscire ad allontanarmi da quel letto. Gentilmente, mi sottrassi al suo abbraccio. Mi alzai.

Mio fratello si girò verso di me non appena ebbi richiuso la porta alle mie spalle.

"Scopate, voi due?"

"Jeremy, modera il linguaggio!" lo rimproverai, sospingendolo verso la sua camera e intimandogli di andare a vestirsi, con il viso in fiamme.

Andai anche io a lavarmi e vestirmi, nel bagno del piano terra, e quando entrai in cucina, trovai Jeremy già al tavolino impegnato a cacciarsi in bocca cucchiaiate di cereali. Aprii il frigo per prendere altro latte, solo per scoprire che non ce ne era più, così come non c'era più niente praticamente di qualsiasi cosa, ad eccezione di un mezzo barattolo di maionese ed alcuni avanzi di una cena portata a casa dal Grill. Sospirai, presi una manciata di cereali e li spruzzai con ciò che era rimasto sul fondo della bottiglia lasciata da mio fratello. Dovevo ricordare a mio padre di darmi i soldi per andare a fare la spesa.

"Papà è già uscito?" domandai.

Jeremy scrollò le spalle. "Non è mai tornato."

Mi bloccai. "Cosa?"

In risposta, ottenni solo un'altra scrollata di spalle.

Mi abbandonai all'indietro contro lo schienale della sedia, rigirando il cucchiaio tra i cereali secchi, senza mangiarli. Quella di mio padre di non presentarsi a casa neanche dopo l'orario di chiusura del locale era una novità recente delle ultime settimane che stava già diventando abitudine. O se ne andava in qualche bar fuori mano finendo per dormire in macchina fino a che non era abbastanza sobrio per tornare il mattino dopo; oppure direttamente non lasciava mai il locale, a volte con la scusa di un gruppetto di clienti che rimaneva oltre orario, a volta con quella di lavorare su fatture e ordini, e altre cose che non poteva fare durante il giorno. In ognuno di questi casi, le mie notti si consumavano nell'ansia, fino a che rientrava al mattino comportandosi come se io e Jeremy non lo avessimo neanche notato. Di solito, glielo lasciavo credere. A parte una volta, la settimana scorsa, in cui non ci ero riuscita. Avevo pianto, ed aveva pianto anche lui, una serie di implausibili, interminabili, scuse e promesse che non sarebbe successo mai più. Fino a che non sarebbe successo di nuovo.

Mentre ancora rigiravo, inappetente, il cucchiaio nei cereali, Jeremy si fermò a riflettere.

"Pensi che ci darebbero dei soldi se per caso morisse? Tipo un bonus orfani o cose del genere. Ho sentito dire che a Benny Riley hanno dato dei soldi dopo che è morto suo padre, forse sarebbe la stessa cosa anche per noi. Però lui ha ancora una mamma, noi no. Quindi forse ci manderebbero via lontano, da qualche zio cattivo, come in tutti quei libri sugli orfani. E lui ci ruberebbe tutti i soldi, e quello sì che farebbe schifo."

Corrugò la faccia in smorfia delusa, come se fosse quella la cosa più allarmante di tutto il suo discorso. Lo fissai ammutolita, mentre lui tornava tranquillo a ruminare i suoi cereali, ignaro dei brividi freddi che mi aveva appena fatto avere lungo la schiena. Mi tremò la voce.

"Come ti vengono in mente certe cose?"

Jeremy sollevò lo sguardo dalla ciotola. "Perché? Tanto è inutile in ogni caso."

La mia mano scattò senza pensare. Lo schiaffo che gli diedi fu così brusco e inaspettato che ci lasciò impietriti entrambi. Non avevo mai alzato le mani su mio fratello. Non avevo mai neanche pensato che avrei potuto farlo.

Jeremy mi guardò con gli occhi sgranati, portandosi una mano incredula sulla guancia adesso rosso brillante. La mia, di mano, stava ancora bruciando.

"Non ti azzardare," dissi piano, con una calma che non sentivo, "mai più, a dire cose del genere."

Jeremy spinse via la sedia, afferrò con stizza il suo zaino appeso allo schienale, e corse via.

Come lo schiocco del portone echeggiò nella casa, mi portai la faccia tra le mani, imponendomi di non piangere, di arginare tutti quei flutti di rabbia e frustrazione che mi stavano annegando dentro. Li lasciai ondeggiare e prendere il sopravvento, ma solo per alcuni istanti. Passati quelli, inspirai e li rimisi sotto controllo, come avevo imparato a fare.

Gettai un'occhiata verso il piano di sopra. Avrei voluto correre su per le scale, tornare a raggomitolarmi dove ero fino a poco fa, e sciogliermi contro il suo corpo fino a che di me non fosse rimasto più niente.

Invece, mi alzai, con lo stomaco ancora vuoto della colazione lasciata intatta, ed andai a prendere le chiavi di riserva del Grill. Prima di uscire, feci scivolare un biglietto sotto alla porta di camera.

Scusami se sono dovuta andare via.


***


"Quindi, non glielo hai detto."

Bonnie mi porge un'altra foto. Il Grill è chiuso al pubblico se non per gli addetti alla preparazione della festa di fidanzamento di stasera, ed è incredibile il modo in cui, sotto alla regia di Caroline, più la giornata progredisce più il locale si stia trasformando in uno spazio più intimo e romantico tutto a sua misura. Bonnie ed io abbiamo approfittato della sua tappa dal parrucchiere per mettere in atto la nostra piccola sorpresa. Abbiamo ancora più o meno mezz'ora per finire di nascondere tra segnaposto e decorazioni floreali varie foto della coppia nei loro anni insieme - da Mystic Falls edizione 2005, al college, ad istantanee recenti - così da fargliele trovare stasera.

E' stata Bonnie ad andare a cercare Damon per chiedergli se avesse del materiale da aggiungere. Io non ce l'avrei fatta, oggi, ad affrontare anche lui. La cosa a lei non è sfuggita.

"Stasera. Ci parlerò stasera," rispondo.

"Vuoi rompere con lui alla festa di fidanzamento della tua migliore amica? Piuttosto spietata come cosa."

"Lo so, è solo …" scuoto la testa. "E' solo che non ce la faccio ad andare avanti così, Bon."

Mi rigiro tra le mani l'immagine di Caroline e Stefan che sorridono all'obiettivo, Damon che passa di lì e rovina la foto cercando di leccare l'orecchio al fratello, uno scatto che io non avevo mai visto.

Forse è stato vedere il colorito radiante sul viso di Caroline questa mattina. Forse è stata quella nota amara in mezzo a tutta la felicità che sinceramente sento per lei. O forse, è solo che a volte arriva un momento, arriva e basta, in cui sai di non poter stare anche solo un giorno di più, senza dire la verità.

Finisco di attaccare la fotografia.

"Devo annullare questo matrimonio. Devo lasciar andare Elijah."

"E gli dirai la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità?" chiede la mia amica. Ci scambiamo uno sguardo, lei solleva un sopracciglio. "Sai … quella che inizia con la D?"

"Non ho intenzione di sbattergli in faccia qualsiasi cosa ci sia stata tra me e Damon, se è questo che intendi."

Del resto, neanche io sono poi così sicura di cosa esattamente ci sia stato, tra me e Damon. O di quale sia la situazione in cui ci troviamo adesso, di cosa finiremo per farne … La porta che mi ha chiuso in faccia quando ho tentato, ancora una volta, di raggiungerlo lì dove continua a non lasciarmi avvicinare, brucia ancora almeno quanto il pensiero della sua reazione a quella cartellina tra le mie mani, del muro che mi ha alzato davanti, e di quanto sia stata ingenua la mia speranza che magari potesse esserci un modo, nonostante tutto, di abbattere certe distanze e non dover continuare con il gioco al massacro ad ogni minimo confronto.

Ma tutto questo, Damon … è qualcos'altro. Qualcosa che potrà avermi messo di fronte a tutto ciò che non volevo vedere, ma non è Damon il motivo per cui quell'anello è tornato nella sua scatoletta invece di stare al mio dito. Quel motivo sono io.

"Damon è irrilevante," finisco.

Bonnie sospira. "Penso che possiamo smetterla tutti di far finta che Damon sia mai veramente stato irrilevante per te."

Non so bene neanche io cosa rispondere a ciò, in questo momento, così mi limito al silenzio e a tornare a cercare il nascondiglio per la prossima foto.

"Oh, quasi dimenticavo," dice Bonnie, per fortuna lasciando cadere il discorso. Si fruga in una tasca per tirarne fuori un pezzettino di carta che mi porge con un mezzo sorriso. Lo prendo in mano incuriosita.

"E' il contatto di un professore e consulente studentesco al Whitmore, un buon amico di mia nonna. Ha seguito spesso persone che si sono iscritte tardi al college, e può aiutarti con tutte quelle questioni pratiche e amministrative, magari consigliarti un po' … Gli ho già detto che lo chiamerai."

Sposto stupita lo sguardo tra lei e il nome e numero di telefono scritti a mano sopra al foglietto, senza sapere bene cosa dire.

"Bonnie, io non …"

"Mi hai detto tu che ci stavi pensando, no? Di iscriverti al college. Così ho pensato …"

"No, sì, lo so, è solo che …" Rivolto il pezzetto di carta tra le dita, sentendomi al tempo stesso un po' sciocca ed un po' emozionata esattamente come nel momento in cui mi sono lasciata sfuggire quella cosa con Bonnie, quel pensiero un po' folle da notti insonni di dare tutta un'altra direzione alla mia vita. Mi ritrovo a farfugliare. "Voglio dire, lo so cosa ho detto, ma non so se sia poi una buona idea, insomma dovrei pensare a cosa fare per la retta, e poi c'è tutta la questione del bar, non posso semplicemente …"

Mi interrompo da sola, quando la mia stessa scrittura salta su davanti ai miei occhi - parlare con Jenna -, sollevo di nuovo gli occhi su Bonnie. La mia amica sta sorridendo.

"Credo che quando smetterai di raccontarti scuse su ciò che non puoi fare, Elena … Troverai il modo di fare anche tutto il resto."


***


La deviazione che feci per passare dal Grill prima di andare a scuola, per controllare che mio padre fosse lì, mi costò quarantacinque minuti di ritardo a lezione, ed altri trenta passati nell'ufficio della consulente scolastica, che con aria grave iniziò il solito ispirato discorso su quanto fosse importante non iniziare il nuovo anno scolastico nello stesso modo in cui avevo concluso il precedente, tra ritardi ingiustificati e oscillanti alti e bassi nel rendimento.

Ascoltai, annuii. Mi rassegnai al fatto che, come non era la prima, non sarebbe stata neanche l'ultima volta che lo avrei sentito.

Il resto della mattinata fu penosamente lento da far passare. Ogni minuto si dilatava all'infinito; ad ogni occhiata di lato verso l'orologio, le lancette si erano mosse a malapena.

La voce dell'incidente di Stefan della notte prima si era sparsa in fretta, era la notizia del giorno. Perfino Matt mi aveva avvicinato prima di entrare in classe, per chiedermi se per caso ne sapessi qualcosa, se Stefan stesse bene. C'era uno spesso livido bluastro al di sotto del suo occhio destro, ma mi guardai dal fare domande. Tutta la situazione era già fin troppo imbarazzata così. Non ci eravamo più parlati, da dopo quella notte.

Ma, in verità, ero io ad essere completamente fuori dal mondo. Niente di ciò che mi circondava o accadeva intorno a me riusciva davvero a focalizzare la mia attenzione. Ognuno dei pensieri che avevo messo da parte al mattino, ogni dettaglio della notte passata, era tornato più vivo che mai, a prendere il sopravvento su qualsiasi altra cosa.

A matematica, a inglese, a storia … non ero lì. Ero nel letto con Damon. Dietro agli occhi appena chiusi, dietro lo sguardo perso sulla parete distante, il mento posato sulla mano, c'erano ogni istante e ogni sfumatura del modo in cui mi aveva baciato - lento e irrefrenabile, dolce e intenso. E tutto dentro di me si faceva fuso e tremante, pulsante e irrequieto, e niente esisteva al di fuori di quello. Delle sue mani sotto la gonna, del timore che non mi volesse più nella sua vita, delle sue labbra posate appena su quella porzione sensibile di pelle sotto il mio orecchio, che non sapevo più se fosse davvero sempre esistita o se l'avesse appena inventata lui, di quel sapore, quell'odore, quel calore, di più, di più, di più.

Ti amo.

Il mio respiro si interrompeva di colpo, ogni volta che arrivavo a quella parte. Esattamente come la notte scorsa, altrettanto bruscamente. Ed era un calore di tutt'altro genere quello che portava con sé.  Non era di quel tipo tenue e confortevole che aveva reso così facile restituire le stesse parole quando a dirlo era stato Matt. Questo era aggressivo, carico di energie proprie, era una sbirciata su tutto ciò che dava respiro e lo toglieva, era solo domande e nessuna risposta.

Cosa eravamo adesso? Cosa ne avremmo fatto di tutto questo?

Come fanno le persone a sopravvivere a qualcosa così? Davvero ci riescono? Davvero ci sarei riuscita io?

E se se ne fosse andato, lasciandomi e basta, perché non ero stata capace di rispondere niente?

(Lo sapeva, che era solo perché non potevo respirare?)

E se fosse rimasto, cosa gli avrei detto, nel momento in cui lo avrei rivisto? Mi avrebbe baciato ancora?

(Dio, fa che mi baci ancora.)

Mi mossi sulla sedia, le gambe più liquide al solo pensiero. Intercettai Bonnie intenta a lanciarmi una mezza occhiata interrogativa, un paio di file di banchi più giù.

"Stai bene?" mi chiese muovendo appena le labbra.

Annuii e riportai a disagio lo sguardo sopra il blocco per gli appunti aperto sotto alla mia penna, nient'altro che un turbinio di scarabocchi sotto alla data di oggi.

Bonnie mi strinse comunque all'angolo non appena finì la lezione, con la spalla appoggiata contro l'armadietto accanto al mio per non darmi nessuna possibilità di fuga.

"Hai sentito Caroline? Mi ha mandato un messaggio che non sarebbe venuta a scuola oggi."

Misi via i miei libri. "Forse é andata da Stefan."

"Si, penso anche io. Ehi," mi diede un colpetto sulla spalla. "Che ti prende oggi?"

"Niente," replicai evasiva, scegliendo i libri per la prossima lezione. "Perché?"

"Perché sei chiaramente da tutt'altra parte."

"Ero con Caroline al pronto soccorso la notte scorsa. Non ho dormito molto."

"Ed é per questo che ..." mi scrutò attentamente. ".... sei appena arrossita?"

Mi morsi l'interno della guancia. Non era rossore. Era fuoco vivo a divorarmi le guance ogni volta che il solo concetto di "la notte scorsa" mi attraversava la mente. Chiusi la porta dell'armadietto. Magari avevo solo bisogno di lasciar uscire tutto quanto. Inspirai a fondo.

"Ho baciato Damon."

Bonnie spalancò gli occhi.

"Cosa? Perc... Perché mai faresti una cosa del genere? E' ..." l'incredulità nel suo tono cedette il passo al disgusto. "... Damon."

"Grazie per avermi ricordato il suo nome," risposi sarcastica, gettandole un'occhiata di traverso.

"Quello che voglio dire é ..." sospirò, e si sporse di più verso di me, abbassando la voce. "Dimmi che non stai seriamente considerando di farti coinvolgere con lui."

Non la guardai in faccia, mentre rispondevo altrettanto piano. "Magari si."

"Oh, andiamo, sul serio? Devo davvero ricordarti che si é fatto almeno metà di questa scuola senza che gliene fregasse mai veramente qualcosa? O che ha tradito la sua ragazza con la sua migliore amica, ti sei dimenticata di questo?"

Deglutii con sforzo. Non lo avevo fatto. Ma per tutto ciò che Bonnie mi stava mettendo davanti agli occhi, c'era anche così tanto altro, qualcosa che mi sembrava di aver solo appena iniziato a scoprire, e c'era una parte di me che lo desiderava con tutto ciò che aveva che fosse questo a contare di più.

"Senti, lo so che Damon può essere ... difficile da capire a volte. Ma ... tu non lo conosci come me. C'é sempre stato, quando ho avuto bisogno di lui."

"Sì, finché non é così. Lascia perdere come si è comportato con chiunque altro, ma quante volte ha fatto soffrire te? Solo la settimana scorsa hai pianto per tre giorni interi, perché ti ha detto di sparire e non cercarlo più. Pensi che non lo farebbe di nuovo, alla minima cosa?"

Piccole schegge affilate mi raschiarono l'intera lunghezza della gola. Scossi la testa per scacciare quel pensiero, per non farle vedere quanto in realtà quella prospettiva mi terrorizzasse più che mai.

L'espressione di Bonnie si addolcì, mentre la mia amica mi prendeva la mano e proseguiva, "E' solo che odio vederti soffrire a causa sua."

"Lo so. Ma ... " Rialzai esitante lo sguardo su di lei. "Penso di essere innamorata di lui."

Bonnie aprì la bocca per parlare, ma la richiuse senza dire niente. La campanella suono'.

Io mi allontanai in fretta giù per il corridoio, con il cuore che batteva più forte di quanto fossi in grado di sopportare.


Damon non si fece sentire. Ad ogni minuto che passava senza una sua chiamata o anche solo un suo messaggio, uno sgradevole malessere cresceva nel mio stomaco. Sarebbe dovuto essere già sveglio. Non avrei dovuto lasciare quel biglietto. Stupido biglietto. Non intendeva davvero quello che aveva detto la notte scorsa. Lo intendeva ma non voleva più vedermi perché non lo avevo detto anche io. E se Bonnie avesse avuto ragione?

Mi concentrai sul dare una mano ai tavoli del Grill, sul cercare di studiare nei momenti morti. Ma era inutile.

Jeremy, intanto, ancora non mi parlava. Teneva il broncio e se ne stava chiuso ad un tavolino d'angolo, curvo sul suo videogioco portatile, senza neanche alzare lo sguardo.

Pensai al frigo vuoto a casa, andai nella dispensa a riempire una busta con cui lo avrei rifornito più tardi. Cercai mio padre con l'intenzione di chiedergli i soldi per poter andare al negozio a prendere quello che mancava.

Sapevo che era nell'ufficio, ma trovai la porta chiusa. Voci arrabbiate provenivano dall'interno.

"Non puoi essere davvero così egoista, John! Non è una gran somma per te, e ti ho già detto che ti ridarò ogni centesimo. Sono tuo fratello, dannazione!"

"Non è quello!" replicò l'altra voce, pari a quella di mio padre sia in collera che in intensità. "Vuoi i miei soldi? Allora smettila con quella merda. E quando avrai smesso di bere, allora ne riparleremo."

Non conoscevo molto bene lo zio John. Papà parlava raramente di lui. Non credo che andassero molto d'accordo. L'ultima volta che lo avevo visto era stato al funerale di mamma - una carezza tra i capelli, un sorriso triste, e se ne è era già andato, il tutto avvolto nella stessa nebbia vuota di quei primi giorni.

Sapevo che non avrei dovuto. Ma rimasi lo stesso immobile lì, appoggiata contro la parete del corridoio vicino alla porta chiusa, incapace di smettere di ascoltare.

"Non ho bisogno di smettere di bere," ribatté mio padre. "Un paio di bicchieri a sera non mi rendono un alcolizzato. Quello di cui ho bisogno è che tu mi presti qualche soldo."

Mi voltai quando mi resi conto che anche Jeremy era appena apparso all'entrata del corridoio, con quell'espressione seria che non sta mai bene addosso un bambino della sua età. Avrei dovuto farlo andare via, ma non lo feci. Mi limitai a fargli cenno di non fare rumore. Mio fratello si avvicinò, mi circondò in silenzio la vita con le braccia sottili, rimase con la testa poggiata contro il mio fianco.

"Fanculo, stai uno schifo. Ti fai vedere così anche dai tuoi figli?"

"Non ti azzardare a parlare dei miei figli. Non hai nessun diritto di venire qui a farmi prediche. Cosa diavolo ne sai di quello che ho passato? Tu che non hai mai pensato a nient'altro che a te stesso?"

Avevo sentito abbastanza. Ingoiando amaro, feci segno a Jeremy di muoversi, le voci che si facevano più indistinte mano a mano che ci allontanavamo dal corridoio. Portai Jeremy fino all'ingresso delle cucine.

"Perché non vai a vedere se è rimasta ancora della torta al cioccolato? Non so te, ma avrei davvero voglia di un po' cioccolato adesso," gli dissi con un sorriso che fece un discreto lavoro a non lasciar trasparire ciò che sentivo veramente.

Lui inclinò la testa. "Tu non vieni?"

"Solo un momento, ok? Solo un momento e arrivo subito."

Jeremy annuì solenne e corse via, come se gli avessi appena assegnato un compito di vitale importanza. Io invece affrettai il passo nella direzione opposta, oltre la dispensa, oltre la porta sul retro, che spinsi in avanti per spalancarla di fronte a me.

Ripresi a respirare solo quando misi piede fuori, lasciando andare le spalle contro il muro del vicolo laterale, gli occhi chiusi all'aria calda e spessa di quell'estate persistente, solo un accenno di freddo che iniziava appena ad infiltrarcisi. Respirai quello, quello spiraglio di autunno, lentamente e a fondo, fino a che il caos interiore non iniziò piano piano a placarsi. Come avevo imparato a fare.

Fu in quel momento che mi resi conto che c'era qualcuno davanti a me. Riaprii le palpebre.

Damon aveva i capelli ancora arruffati e scompigliati, graffietti rossi sulle guance, un po' più lividi attorno ai tagli più profondi. Era così bello che mi sentii sul punto di scoppiettare nell'aria in mille piccoli frammenti.

"Ero appena entrato, e ti ho visto uscire da questa parte," spiegò. Lentamente, la sua bocca disegnò l'accenno di un sorriso. "Ciao."

Le mie labbra mimarono spontanee lo stesso identico sorriso.

"Ciao," sussurrai.

I secondi si dilatarono. Il silenzio si riempì di incertezza. L'elettricità mi percorse la pelle.

Damon si schiarì la voce. "Ho pensato che forse dovremmo parl-"

Si interruppe quando feci un passo avanti e gli presi la mano, stringendola con forza nella mia. Vi abbassò sopra lo sguardo, e serrò la presa ancora più saldamente, lasciando che le nostre dita scivolassero ad intrecciarsi tra di loro. Diedi un leggero strattone, alla sua mano nella mia.

"Portami via di qui."


***


"Certo. Va bene, a domani allora. Grazie, Professor Shane."

Chiudo la telefonata con un piccolo sorriso soddisfatto a tirarmi in su le labbra.

Il sole sta tramontando con una calda sfumatura di giallo e arancio sui profili distanti della boscaglia alla mia destra, quasi la stessa tonalità dorata scelta da Caroline come tema per il suo fidanzamento lampo di fine estate. Da dentro il Grill proviene un rumore addolcito di musica e risate.

Prima di voltarmi e rientrare, controllo con una contrazione al petto se per caso Elijah abbia chiamato o stia per arrivare. Preferirei riuscire a parlarci in un momento più tranquillo, magari da un'altra parte, piuttosto che alla piccola serata perfetta che i miei amici si sono ritagliati in mezzo alle loro personali difficoltà. Sto per far partire la chiamata, quando vedo Bonnie fare capolino dalla porta di ingresso.

"Eccoti!" Agita una mano impaziente nella mia direzione, mi fa cenno di tornare dentro. "Andiamo, Caroline ha trovato la prima foto. Non vuoi perdertelo."

La seguo dentro. Il Grill in questo momento non è più solo un locale: tra le luci avvolte in carta dorata che pendono dal soffitto, le ombre morbide del tramonto fuori, i gigli bianchi ai bordi dei tavoli, è un luminoso raggio di sole. Gli invitati stanno adesso battendo le mani e fischiando verso Stefan, che ha appena trovato un'altra delle foto nascoste. La sventola verso Caroline con aria trionfante. A quanto pare, i due si sono lanciati in una competitiva caccia al tesoro su chi riesce a trovarne di più, e Caroline sta già mettendo su un finto broncio per essere appena andata in svantaggio. Cerca di strappargliela dalle mani, lui gliela sottrae, lei fa una linguaccia.

Scoppio a ridere, insieme a Bonnie accanto a me, insieme al resto della stanza. Un sorriso residuo è ancora sulle mie labbra, quando i miei occhi slittano via dalla coppia felice, verso un'altra familiare figura che ho appena notato appoggiata contro un tavolo lì vicino.

Deve essere arrivato da poco.

Damon scuote la testa e nasconde un mezzo sorriso in un sorso dal suo bicchiere. Quando rialza il viso, e il guizzo azzurro nei suoi occhi trova i miei, la sua espressione cambia, si immobilizza. Il mio cuore spinge più forte contro le costole. Ma Damon è particolarmente veloce a sviare lo sguardo e girarsi da un'altra parte, prima che io possa anche solo accennare, anche solo capire.

Non so cosa pensarne. Così, anche se non vorrei, distolgo gli occhi e guardo altrove anche io.


L'erba umida a solleticarmi i palmi e i polpastrelli. Un cielo pallido di nuvole grasse e instabili, mezze bianche, mezze grigie. Il sole tiepido a scaldarmi le gambe. L'acqua che scrosciava energica dalla cascata più in là sulla sinistra.

Gettai la testa all'indietro ed inspirai.

"Come conosci questo posto?"

Damon era appoggiato sui gomiti, una gamba allungata in avanti, una piegata al ginocchio. Una rapida sfumatura più distante gli passò nello sguardo.

"Ci portava mio padre quando eravamo piccoli. Ma non ci tornavo da anni. E' un po' diverso, adesso."

Gettai una lunga occhiata verso tutto ciò che ci stava attorno - dagli alberi alti e scuri che ci circondavano e le ombre allungate che riflettevano, al sentiero quasi invisibile, impossibile da trovare senza conoscerlo, da cui eravamo arrivati dopo aver lasciato l'auto sulla strada, alla ripida discesa erbacea che finiva nel fiume, immensamente tranquillo rispetto allo scoppiettio della piccola cascata d'acqua che andava ad infrangercisi poco più avanti, una delle tante di questa zona da cui la stessa Mystic Falls prendeva il nome.

"E' perfetto," commentai. Mi voltai verso di lui. "Perché non ci sei più venuto?"

Damon si tirò su a sedere, piegò entrambe le gambe per posare le braccia sulle ginocchia. Si strinse nelle spalle, mi gettò un veloce sorriso che mi sembrò quasi nostalgico.

"Abbiamo smesso di essere piccoli."

Mi tirai su anche io, appoggiandomi all'indietro sui palmi delle mani.

Gli ero grata. Di non aver fatto domande. Di avermi semplicemente portato verso la scintillante jeep rossa nuova di zecca prelevata dal garage, quella di Stefan che suo fratello usava per imparare a guidare, borbottando ad ogni curva che la vecchia Camaro - povera vecchia Camaro che in quel momento giaceva mezza distrutta in qualche deposito dimenticato - era lo stesso, sempre e comunque, infinitamente migliore.

Gli avevo chiesto di Stefan. Sapevo quindi che era andato a trovarlo, che stava bene, che stava già iniziando a tornare il solito "seccante, pedante, virtuoso" se stesso, anche attraverso le medicine. Ma non mi erano sfuggiti l'irrigidimento nelle sue labbra, o l'ombra di senso di colpa nel suo sguardo. Avevo raggiunto la sua mano, "Non è stata colpa tua".

Damon aveva annuito, ma dubito che avesse davvero ascoltato.

Dopo quello, avevamo continuato a guidare in silenzio, i suoi occhi sulla strada, i miei fuori dal finestrino, scivolando giusto di tanto in tanto verso la sua direzione.

Non aveva detto altro, sulla sua giornata prima di passare dal Grill. Ed avevo l'impressione che ci fosse qualcosa nella sua testa, qualcosa nel modo in cui fissava la strada, qualcosa di cui non aveva davvero intenzione di parlare.

Ma era sparito e lontano, adesso. Adesso che mi aveva sorriso, adesso in questo piccolo posto perfetto, adesso che era lontano anche tutto il resto.


Scivolo dietro al bancone, per vedere se Jenna e Sage hanno bisogno di aiuto con i drink, ma loro mi cacciano via. Mi fermo a chiacchierare con Bonnie ed un gruppetto di vecchie compagne di liceo, ma la maggior parte di loro a malapena le sopporto. Poso per una foto ogni volta che Caroline mi passa accanto, mi afferra per una mano, solleva in alto la videocamera del suo telefono. Cerco di togliermi dalla testa la presenza di Damon, le domande su cosa gli stia davvero passando per la mente. Non qui, non stasera, mi ripeto. Prima devo fare la cosa giusta per una volta, chiudere un capitolo che non mi rappresenta più.

Ma Elijah è in ritardo. Lavoro, traffico. E quest'attesa che si trascina, di ore e minuti, mi logora più di quella di tutti i giorni che ho già perso.

Sto pensando che forse dovrei aspettarlo a casa, Caroline dovrebbe capire, quando con la coda dell'occhio noto una nuca bionda, che si guarda attorno con aria annoiata. Mi blocco all'istante, sorpresa della sua presenza qui.

Mi avvicino a lei, poso il mio bicchiere sul tavolino lì accanto.

"Rebekah?" la chiamo.

La sorella di Elijah volta lo sguardo. Mi squadra dalla testa ai piedi, e poi dai piedi alla testa. Il modo in cui le sue labbra si arricciano in disapprovazione mentre esamina il modo in cui ho semi-raccolto i capelli, o la scollatura incrociata del mio vestito aranciato in tema con la festa, mi dice che non le piace niente di ciò che vede. Ma questa non è una novità. Nelle poche occasioni in cui ci siamo incontrate, ho sempre ricevuto lo stesso sguardo da parte sua, e sono piuttosto sicura che non ha niente a che vedere con acconciature o vestiti, ma con quello che ci sta dentro. Me.

Quando io ed Elijah avevamo appena iniziato ad uscire insieme, avevo sinceramente sperato che saremmo potute andare d'accordo, sua sorella ed io. Adesso, mi ritrovo a pensare che il freddo distacco con cui mi ha sempre trattato … beh, forse lo ha sempre saputo, quanto io fossi fasulla.

"Elena. Naturalmente sei qui," mi saluta, adorabile come sempre. Segue un sorriso tirato, un doppio bacio sulla guancia, cortesie di circostanza che nessuna di noi due sente veramente.

"Cosa ci fai qui?"

"Aspetto Elijah, mi ha detto che potevamo incontrarci qui, prima del mio volo di ritorno domani mattina. Che non arriverà mai abbastanza presto," aggiunge con una smorfia ed un lungo sorso del suo Martini cocktail. "Lo hai sentito?"

"Dovrebbe stare per arrivare, ma io intendevo …" Corrugo le sopracciglia, confusa. "Cosa ci fai a Mystic Falls?"

"Oh. Quello." Pilucca l'oliva sullo stecchino del drink. "Una causa di divorzio, una scocciatura immensa. Quei due là."

Con l'estremità appuntita del bastoncino, indica qualcosa all'altro lato della stanza.

Quando mi volto, perdo un battito. Nell'angolo vicino all'entrata, Damon e Katherine stanno discutendo, animatamente, i volti vicini come se stessero parlando a bassa voce. E' impossibile sapere cosa si stiano dicendo. Ma lei ha un'aria immensamente stizzita, mentre Damon sembra … così spaesato e turbato che impiego qualche secondo prima di rendermi conto che Rebekah sta ancora parlando.

"Una totale perdita di tempo," sta dicendo, prima di finire con un sorso il resto del bicchiere. "Una delle mie migliori trattative, sono stata così vicina al portarmi via tutto, e quell'idiota cosa fa? Mi dice che non vuole andare avanti. Niente divorzio. Fottuti uomini."

Il cuore mi cade, di colpo, sul fondo delle viscere. Niente divorzio?

Mi giro con un scatto verso di lei. "Cosa? Perché? Com …"

Mi interrompo da sola quando noto che Rebekah adesso non mi sta soltanto osservando, ma sta studiando la mia reazione con una nuova scintilla di sospetto che mi rende all'improvviso perfettamente consapevole di quanto mi sono appena lasciata sfuggire, nella mia voce e nella mia espressione. Mi sento arrossire, ma provo a nasconderlo in un sorso d'acqua.

"Voglio dire," dico rimettendo giù il bicchiere. "Deve essere stata una vera seccatura, per te."

I suoi occhi azzurro chiaro mi stanno ancora scandagliando come quelli di un predatore, o di una mamma orsa, che ha appena odorato qualcosa. "Li conosci?"

"Io …" Prima di potermi fermare, il mio sguardo è già slittato di nuovo nella loro direzione. Katherine sta per andarsene via. Damon la afferra per un braccio. L'aria persa e supplicante che compare sul suo volto mi fa contorcere lo stomaco. Mi costringo a guardare altrove.

"E' il fratello di Stefan," spiego schiarendomi la voce. Rebekah mi guarda senza capire. "Stefan, che si è fidanzato con la mia amica Caroline," indico il locale intorno a noi. Lei sbatte le palpebre come se stessi parlando di alieni. "Questa festa di fidanzamento? E' per loro."

"Ooh. E' una festa di fidanzamento? Ma pensa." Rebekah si sposta i capelli all'indietro sulla spalla, un gesto che dice banale, banale, banale, e la noia torna a cadere sulla sua faccia. "Ho bisogno di bere qualcosa."

Come si volta per dirigersi verso il bar, senza naturalmente degnarsi di aggiungere neanche un basilare "ciao", i miei occhi balenano di nuovo verso l'angolo accanto all'ingresso.

Con un lieve martellare sordo nelle vene, mi faccio strada tra i tavoli e gli invitati fino a che non sono che ad un paio di metri di distanza. Ma l'unica cosa che riesco a cogliere è Katherine che si strattona via dalla mano di Damon, tira a sé la porta e se ne va. Damon che sospira e si passa frustrato una mano tra i capelli. E poi, con uno scatto impulsivo, si volta e si curva su se stesso, tira un ancora più frustrato pugno dritto contro il muro.

"Ehi!" gli dico, affrettando il passo ed avvicinandomi fino a potergli prendere la mano.

Lui d'istinto la sottrae, io la riafferro, questa volta non si oppone. La giro nella mia per vedere che c'è un po' di sangue lì dove i mattonicini grezzi del muro hanno appena graffiato, e l'inizio di un gonfiore appena al di sotto delle nocche. Turbata, sollevo lo sguardo su di lui.

"Cos'è che ti fa venire voglia di distruggermi il bar?"

Damon si appoggia contro la parete, lascia uscire una breve risata, ma è tutt'altro che divertita.

"Il tuo bar è piuttosto duro, credimi."

Mormora un'imprecazione mentre si scrolla la mano, flette le dita, ed una vaga smorfia gli attraversa la bocca.

"Vieni," sospiro. "Ti serve acqua fredda per quello."

Lo prendo per l'altra mano e lui mi segue senza fare parola, verso il bagno. Sempre in silenzio, Damon si dirige verso il lavandino per aprire il rubinetto dell'acqua, io richiudo la porta.

Vado ad appoggiarmi contro il mobile lì accanto, giocherello con il cestino delle saponette nel tentativo di ignorare il vago calore che mi pizzica la pelle quando sono più vicino a lui. Fallisco, così come fallisco nel mantenere il mio tono casuale e indifferente quando, dopo interminabili secondi, mi decido a domandare, "Di che si tratta?"

Ma Damon non sembra neanche notarlo, il mio tono non del tutto casuale e indifferente.

Con gli occhi incollati sull'acqua fredda che sta scorrendo sulla sua mano, risponde piano, "Solo Katherine che mi fotte la testa."

Sbircio da sotto in su, alla ricerca sul suo volto di quella smorfia o di quel sarcasmo che avrebbe dovuto trasparire ma che non era nella sua voce, ma non lo trovo neanche lì. Chiude il rubinetto con uno scatto secco, allunga la mano verso le carta per asciugarsi. Il mio stomaco si annoda un po' di più, ripensando a ciò che mi ha appena detto Rebekah.

"E' per questo … per questo che non vuoi più divorziare?"

Per la prima volta in tutta la sera, i suoi occhi si alzano spontaneamente per trovare i miei. Guardo dritto attraverso quell'azzurro adombrato, rendendomi conto con un sottile nodo alla gola che questa è una di quelle rare volte in cui non sono in grado, non importa quanto ci provi, di sapere davvero cosa ci stia passando dentro. Nessuna di quelle volte è mai finita bene per noi.

Damon esita. Poi corruga le sopracciglia, riporta lo sguardo sull'operazione di tamponarsi piano le nocche.

"Io … Le cose si sono … complicate. Non sono sicuro di come … scomplicarle."

Annuisco, anche se non c'è davvero niente a cui asserire. Provo a respingere l'irrazionale pensiero che magari è semplicemente di questo che si tratta, che ha dopotutto deciso che qualsiasi cosa complicata abbia con quella che è sua moglie sia più importante di qualsiasi cosa potremmo mai avere noi, che tutto si è esaurito in qualche giorno a San Francisco, che lui è andato avanti e non c'è più niente da dire. Provo a respingerlo, ma continua a tornare su, come un riflesso indesiderato, mentre annuisco un'altra volta, in uno stridente, "Certo. Lo capisco," che in realtà non capisce assolutamente niente.

Gli passo davanti diretta alla porta, prima di ritrovarmi a piangere davanti a lui, ma Damon mi ferma afferrandomi per una mano. Ha le dita fredde, ma il tepore si insinua lo stesso sotto alla mia pelle, quando le intreccia alle mie.

Mi volto, piano, verso di lui. Quando lo faccio, è un attimo, un battito che pulsa più intenso, per sapere che non c'è nessuna Katherine, lì nel suo sguardo, lì nella sua testa, lì nel modo in cui mi sta guardando. Nel movimento impercettibile delle dita con cui mi tira verso di sé.

Mi basta quello.

Il mio corpo reagisce prima ancora che lo faccia la mia testa. Le mie mani lo avvolgono, la mia bocca si chiude sulla sua, e tutto in me lo accoglie con un tale immediato abbandono che fa quasi male, sapere quanto ho desiderato poterlo baciare di nuovo.


"Scendi di lì, Elena! E' un'idea idiota!"

Come risposta, oscillando le braccia per mantenere meglio l'equilibrio, gli rivolsi un gran sorriso.

"Sì, un'idea tua!" gridai di rimando, in modo da farmi sentire anche al di sopra del rombo della cascata.

Damon portò le mani attorno alla bocca, per amplificare meglio la sua replica.

"Non intendevo sul serio che dovessi provarci tu!"

Lo ignorai. Ero troppo concentrata a mettere i piedi attentamente uno davanti all'altro, per trovare il sentiero migliore sopra alle rocce lisce e scivolose che portavano verso la sommità della cascata. Guardai giù.

Al limitare della riva, lì dove il getto d'acqua trovava la sua fine nell'insenatura del fiume sollevando intorno un fine spruzzo nebbioso, Damon mi osservava con la fronte corrugata, una linea preoccupata in mezzo alle sopracciglia. Gli mostrai la lingua.

Era iniziato in modo stupido. Gli avevo chiesto quanto pensava che fosse alta la cascata. Non tanto, aveva scrollato le spalle, più o meno sette metri, informandomi con un sorrisetto compiaciuto che lui l'aveva pure saltata, almeno un paio di volte. La cosa aveva fatto morire Stefan di paura. Lanciando uno sguardo alle rocce da cui l'acqua si catapultava, alcune nascoste dagli spruzzi, e al modo in cui la pozza d'acqua si restringeva appena sotto di essa, potevo capire il sentimento di suo fratello. Ma non ero riuscita a trattenermi dall'andare a stuzzicare il suo orgoglio con un noncurante, "Non mi sembra questa gran cosa."

Uno sbuffo di risposta da parte sua. "Vorrei vedere te, salire lassù."

Così lassù ero salita. Gli ci era voluto un po', per capire cosa stessi facendo, quando avevo iniziato a sfilarmi le sneakers di tela e la t-shirt, e lasciato cadere gli shorts intorno alle caviglie sotto alla sua espressione spaesata. Erano stati quello sguardo smarrito, quei titubanti "Che diavolo stai facendo?", la soddisfazione di averlo lasciato senza parole insieme alla carica di esaltazione di quel proposito azzardato, a farmi persino scordare, sul momento, di essere appena rimasta soltanto in biancheria davanti a lui. Per quando anche lui aveva realizzato quali fossero davvero le mie intenzioni, ed era scattato in piedi, io ero già a metà strada verso la cima.

"Sei fottutamente pazza!" mi urlò.

Sorrisi, tra me e me. C'era un sottotono orgoglioso, dentro a quella frase, che neanche tutta la parte da stronzo protettivo che stava recitando sarebbe mai riuscita a mascherare del tutto.

Feci un altro passo, verso l'alto, tra rivoli di acqua fredda che già scorrevano sotto ai miei piedi nudi. La roccia sottostante tremò, la mia presa slittò, persi l'equilibrio, lanciai un grido. Rocce e rami mi graffiarono le gambe, Damon urlò qualcosa, afferrai al volo un ramo più spesso che mi impedì di cadere del tutto e sfracellarmi. Sbirciai nuovamente in giù verso le rocce, questa volta con il respiro più corto e affannato. Damon era pallidissimo.

"Ok, basta così, smettila adesso!"

"Sto bene, sono quasi arrivata!"

Con una mano pulii dal sangue i graffi sul ginocchio, mi tirai su e ripresi la salita. Dal basso, mi arrivarono una serie ovattata di "cazzo" e altre imprecazioni. Quando diedi un'altra occhiata, Damon aveva già tirato via la sua maglietta e stava per togliersi anche i jeans. Un piacevole calore, sul petto e sulle guance, mi costrinse a mordermi le labbra e distogliere lo sguardo. Troppa distrazione. L'apice della cascata era solo ad un paio di passi di distanza.

Attentamente, bilanciandomi con le braccia, serrando la presa nelle dita dei piedi, mi alzai sopra di essa. Fu ebbrezza pura a riempirmi il petto, un brivido di euforia e di un soffio più freddo di vento, il batticuore pulsante e vivo dentro le vene. Non mi ero mai sentita così dannatamente bene.

"Te lo dico solo un'altra volta, vieni via di lì, o ti vengo a prendere io!"

Gli lanciai un sorriso, a Damon immerso nell'acqua fino ai fianchi, a Damon spaventato come doveva a sua volta esserlo stato suo fratello.

"Con piacere!" risposi.

E saltai.


Fu un afflusso di sangue e adrenalina così potente, improvviso, elettrizzante, da lasciarmi senza respiro, almeno quanto l'impatto con l'acqua gelida. Per un istante, vidi solo bianco e oscurità. Poi scattai d'istinto di nuovo su verso la superficie, ansimando alla ricerca d'aria. Come l'ossigeno tornò a riempirmi i polmoni, scoppiai in una risata, carica di vita.

"Oh mio dio!" gridai. "Oh mio dio, l'ho fatto davvero! E' stato fantastico!"

Scostai dagli occhi acqua e ciocche appiccicose di capelli bagnati, in respiri corti e affannati, senza smettere di ridere. Tra l'appannamento sottile della nebbiolina sottile di gocce d'acqua che spruzzava alle mie spalle, la figura di Damon prese forma, ondeggiando davanti a me.

"Lo hai visto?" domandai eccitata afferrandolo per le spalle. "Mi hai visto? E' stato incredibile!"

Damon provò a trattenersi, ma poi un lato della sua bocca scattò ugualmente all'insù.

"Lo so, vero?"

Risi di nuovo, incapace di contenermi, con le mani aggrappate alle sue spalle, galleggiando su e giù nella corrente gelata che non riusciva comunque a scacciare o rivaleggiare con quel brivido di euforia. Gettai un altro sguardo all'indietro, verso l'alto, per ricordarmi che ero davvero, davvero, appena saltata da lì.

Damon mi diede una leggera spinta sulla spalla, tornando serio. "Mi hai spaventato a morte."

Ridacchiai, reciprocando il colpetto. "Quello è stato parte del divertimento."

Un'altra spinta, un altro strattone, una finta di schermaglia, e l'incastro era già fatto.

Le mie braccia gli circondarono la nuca e le mie gambe il torace, cercando il contatto del suo corpo con la stessa naturalezza dell'abbraccio dell'acqua che ci avvolgeva all'altezza del petto. Galleggiando morbidamente, cercai i suoi occhi.

Li trovai trasparenti di luce riflessa, trasparenti dello stesso calore liquido che pulsava vivo in ogni  punto dove la nostra pelle si sfiorava. E per me non c'era altro che Damon, Damon e le sue labbra socchiuse, Damon e la sua mano ad accarezzarmi lenta una coscia, Damon e il mio cuore straboccante di adrenalina, straboccante del modo in cui mi stava guardando.

Presi coraggio.

"Ho rotto con Matt," gli bisbigliai, appena esitante, sollevando le ciglia per spiare la sua reazione.

Ma la notizia, la notizia che avevo in gola da giorni, insieme a tutti i sottintesi che si portava dietro, sembrò a malapena toccarlo. Sembrava molto più interessato a fissare la forma della mia bocca, che a ciò che gli stavo dicendo.

"Sì …" mormorò distrattamente. "…  Lo so."

Inclinò la testa, pochi millimetri di distanza, verso le mie labbra. Mi scostai, facendo leva con le mani contro il suo petto. Alzò su di me uno sguardo del tutto fuori focus.

"Cos'è che sai?" domandai circospetta, con una punta di delusione, sciogliendomi dalla sua presa.

Damon esitò, guardandomi confuso galleggiare via, via all'indietro verso riva, come se fosse appena inciampato in test a tradimento e fosse ad un secondo dal dare la risposta completamente sbagliata.

"Solo … Senti, dei ragazzi ne stavano parlando. Hanno detto che ti ha scaricato, dopo averti portato a letto." Si guardò attorno, bofonchiò. "Potrei avergli dato un pugno. O due."

Rimasi interdetta, la bocca spalancata. 

"Hai picchiato Matt?!" esclamai. Il livido scuro che gli avevo visto in faccia aveva adesso molto più senso. Decisamente non era quello, ciò che mi aspettavo. "Che diamine ti è saltato in mente? Non se lo meritava!"

"Certo che se lo meritava!" replicò, offeso. "Ti stavo solo difendendo!"

Non ci riuscii. Ci provai, ma non ci riuscii, a soffocare un'altra risata - forse per i residui dell'esaltazione, più probabilmente per la faccia che Damon fece - sentendomi orribile per stare davvero ridendo di quella cosa. Povero Matt.

Damon mi guardò sempre più spaesato, incapace di definire se fossi davvero arrabbiata con lui o se lo stessi soltanto prendendo in giro.

"Cosa, adesso?" chiese esasperato.

Dietro di me, con le mani toccai riva. Mi tirai su a sedere, percorsa da un brivido quando il mio corpo lasciò il rifugio dell'acqua.

"E' che …" Gettai un'occhiata timida verso Damon, mi mordicchiai le labbra. "E' che non è andata esattamente così."


Non è un bacio. Lo so dal modo in cui mi riempie, mi espande, mi espone. E' una liberazione.

Una in cui riverso tutto ciò che è troppo difficile, troppo complicato, troppo importante per dimostrare in parole. Le urla e i rimorsi che abbiamo lasciato a San Francisco, le possibilità che non ci siamo mai davvero concessi, rimpianti, sbagli, scuse, promesse, ammende. Ci riverso tutto quello che mi concedo di perdonarmi, tutto quello che mi concedo di poter avere. Il sapore di scoprire dove voglio stare, di sapere se lo voglio di poter essere sua.

Le sue mani sui miei fianchi che mi sollevano, mi premono contro il suo corpo, il bordo del lavandino che mi scava nella coscia. Dita che viaggiano, cercano, tirano vicino. Labbra sulla pelle, tra i capelli, tenere, bisognose. E' come se non ci fossimo sfiorati da anni, invece che solo da qualche giorno.

Finché tutto non si ferma, una girandola che smette di colpo di vorticare. Damon si ferma. Con i polpastrelli ancora sul mio collo, la fronte posata contro la mia, il respiro irregolare. Io barcollo in avanti, spaesata dall'interruzione improvvisa, alla ricerca di un altro po' di fiato, di un altro bacio, della sensazione di essere finalmente viva che avevo solo appena iniziato ad acciuffare.

Ma Damon si sottrae, anche se quasi impercettibilmente, anche se sembra costargli l'inferno.

"Questo, tra noi …" Lui sta parlando, io non capisco. "Adesso non posso … maledizione, Elena …"

Trasalisco quando tre colpi impazienti martellano la porta. Il mio battito si impenna, entrambi ci voltiamo. Damon mormora un "merda" sottovoce.

"Elena, posso entrare?" trilla la voce di Caroline dall'altro lato della porta. Ma è troppo allegra, troppo alta, troppo falsa - e lo capiamo subito entrambi, nello sguardo che ci scambiamo. "Non c'è bisogno che facciate già programmi per gli addii al celibato, ci ho già pensato io anche per quelli, sciocchini! Quindi, ora, posso fare pipì?"

Ci separiamo senza una parola, velocemente, un lampo taciturno per rimettere a posto gonna, capelli, camicia, consapevoli che più tempo impieghiamo ad aprire quella porta, più difficile sarà la spiegazione da dare. Sono abbastanza lucida da sapere che la cosa non promette bene, e ancora abbastanza mezza stordita da non rendermene davvero conto, mentre prendo fiato, giro la serratura, mi preparo a reggere qualsiasi scusa Caroline si sia inventata per coprirmi.

Ed infatti, il sorridente "Oh, Care, sei semplicemente impossibile da sorprendere" mi muore immediatamente sulle labbra.

Perché Elijah è con lei. Perché i suoi occhi si spostano subito sulla spallina del vestito che mi è rimasta abbassata. Perché il modo in cui mi guarda l'attimo dopo, quel misto di realizzazione, rabbia e sofferenza pura, mi gela dentro. Perché è tutto. Lo sa.

Anche Caroline rinuncia subito a tenere la finta. "Mi dispiace, ci ho provato," mi mima mortificata con le labbra.

Rebekah appare alle spalle di Elijah, un nuovo Martini nella mano. Gettandomi un'occhiata gelida, si sporge verso il fratello, con fare più pratico che dispiaciuto.

"Te lo avevo detto."


"Elena ..." Matt respirò sulla mia guancia, posando le mani intorno al mio volto. "Elena … aspetta. Elena … fermati."

Mi circondò il polso, già a metà strada nei suoi pantaloni. Sollevai lo sguardo su di lui, con voce tremula. "Cosa?"

La luce fioca di qualche lampione nella distanza riempiva di ombre l'interno del pick-up, rendendo la sua espressione ancora più morbida e dolce, molto più morbida e dolce di quanto meritassi, mentre delicatamente mi faceva allontanare da lui e dai suoi jeans.

"Rivestiti, per favore," disse piano, rimettendomi a posto la spallina del vestito blu che ancora indossavo dopo il pomeriggio di Miss Mystic Falls, tirando su la zip sulla mia schiena.

Mi scansai con un scatto brusco. "Perché? Pensavo che lo volessi. Hai cambiato idea?"

"No, io … Dio, eccome se lo voglio. Ma non se stai piangendo."

Avvicinò una mano al mio viso, mi sfiorò la guancia con le dita. Le ritirò umide di lacrime.

"Che ti prende?" scrutandomi in volto.

Mi ritirai ancora di più, rintanata sul sedile del passeggero, un grumo scuro a chiudermi la gola.

"Niente."

Mi sforzai di sorridere, attorno agli spigoli che mi stavano tagliando dentro, quando la mia testa si riempì di nuovo del pensiero di ciò che era appena successo con Damon, delle parole affilate che mi aveva gettato addosso, del vuoto che l'idea di averlo perso per sempre mi stava scavando dentro.

"Te l'ho detto," squittì la mia voce, mentre ripetevo la mia bugia. "Ho litigato con mio padre e … Possiamo per favore non parlarne?"

"Ma io voglio parlarne," insistette lui facendosi più vicino. "Non sono qui solo per uscire insieme o baciarci qui nel pick-up, sono il tuo ragazzo, e ti amo. Voglio che tu sappia che ci sono per te. Perché non mi lasci avvicinare?"

"Ti sto lasciando avvicinare, sei tu quello che non vuole fare sesso con me!"

La mia voce suonò infantile e petulante. Un lampo sofferto gli attraversò lo sguardo, ma non si diede per vinto.

"Non mi parli mai davvero. Della tua giornata, o di quando sei triste, o quando hai qualcosa per la testa … Non … non lo fai mai. Come stasera. Come ogni sera."

"Magari non ne ho voglia."

Matt deglutì a forza. "E' perché non sono Damon?"

Il mio cuore si congelò. Sanguinò.

"Non farlo," gli intimai. "Ne abbiamo già discusso."

"Sì, è tuo amico. Ma non dovrei essere io quello a cui ti rivolgi quando qualcosa non va? Voglio essere quella persona per te."

Quanto sarebbe stato facile dirgli di sì. Dopotutto, Damon lo avevo perso. Matt era qui. Disperato per avere quel pezzetto di me che custodivo così gelosamente e così fieramente, quel pezzettino di me che lui non avrebbe mai e poi mai fatto soffrire. Ma lo seppi con una lucidità ed una sicurezza affilate e dolorose, in quello stesso istante: Matt non avrebbe mai sostituito Damon. Nè avrei mai voluto che lo facesse, non importava quanto sanguinante e vuoto fosse quel pezzetto di me senza di lui.

"Matt, ti prego, smettila, questo non-"

"Perché non ti fidi di me come ti fidi di lui? Cosa devo fare per dimostrartelo?"

"Ti ho detto che non si tratta di Damon! Smettila di parlare di lui, smettila e basta!"

Matt inalò bruscamente, e lo feci anche io, di fronte al mio scatto improvviso.

Mi abbandonai all'indietro sul sedile, guardando il buio fuori dal finestrino, lacrime incontrollabili a bagnarmi il viso, il petto scosso da singhiozzi trattenuti che non volevo far uscire. Le mie dita avevano iniziano a correre su e giù per il ciondolo attorno al mio collo, intrecciandosi alla catenina argentata, fino a che non iniziò a fare male, il modo in cui l'avevo attorcigliata ad un polpastrello fermando la circolazione del sangue.

"Io e Damon non siamo amici. Non vuole neanche più vedermi."

Tirai la catenina fino a che quasi non tagliò la pelle.

Matt rimase a lungo in silenzio. Ma non mi girai a guardarlo. Restai a fissare il buio e il vuoto.

"Quella era da parte sua," disse infine.

Mi voltai, lentamente. Indicò la collana avvolta stretta attorno alle mie dita, e proseguì con la voce rotta. Più che rotta. Sconfitta.

"E' stato lui a farla riparare per il tuo compleanno. Non io. Lo sapevo che quello che ti avevo regalato non voleva dire niente, certo non in confronto a questo, e Damon ha voluto che fossi io a dartela. Pensando che saresti stata più felice, se a regalartela fossi stato io." Matt si fermò, il mio sguardo su di lui immobile come una pietra. "Ma si sbagliava, non è vero? E tu lo hai sempre saputo, che non avrebbe mai potuto essere un'idea mia."

Ingoiai sale e lacrime ed un'ondata di consapevolezza così potente e amara che quasi mi soffocò.

Lo avevo saputo. Lo avevo sempre saputo. Era solo più facile far finta che non fosse così.

Lasciai cadere le dita.

E mi sorpresi, di quanto ferma fosse improvvisamente diventata la mia voce, quando gli dissi che tra noi era appena finita.


"Elijah, fermati!" grido per una seconda volta.

Non mi ascolta. Affretto i miei passi lungo il marciapiede, sotto ai lampioni che iniziano ad accendersi mentre il crepuscolo già sfuma in un blu più scuro. Rallenta quando arriva vicino alla sua macchina, riesco ad afferrargli il polso. Lui mi spinge via la mano.

Non so in realtà che cosa sto facendo, né tantomeno cosa dovrei dire, se c'è davvero un qualsiasi modo per migliorare anche solo un po' le cose. Ma dopo che si è girato per andarsene senza dire una parola - tra l'imbarazzo di Caroline che non sapeva dove guardare, tra la mia espressione sconvolta, tra sua sorella intenta a guardarmi con una smorfia disgustata, tra le sommesse imprecazioni mormorate di Damon alle mie spalle - dovevo fare qualcosa, dovevo provare a spiegare.

Non era così che doveva andare. Mi maledico per essere stata una tale stupida superficiale, ed aver finito per fargli del male in ogni modo in cui non meritava di essere ferito.

"Lasciami solo spiegare …" cerco di dire, fermandolo dall'aprire lo sportello dell'auto.

Elijah appoggia le mani al tettuccio della macchina, distende le braccia e guarda il marciapiede, invece di guardare me, e so che sta, con tutto ciò che ha, facendo lo sforzo di non gridarmi contro. Non so se è perché siamo nel mezzo di una strada e ci sono anche i passanti, o se perché cercare di mantenere il controllo è semplicemente parte integrante di lui.

"Dio, sono stato un idiota," mormora. "Mi fidavo di te. Ed ho continuato a farlo nonostante i tuoi colpi di testa degli ultimi mesi, nonostante tutto, perché eri tu, e tu non sei capace di … Che idiota. Tutto questo tempo, tutte le tue scuse … Era di questo che si trattava? Farti una storiella con qualcun altro?"

Scuoto la testa. "No, ascoltami, non è …"

Si gira a guardarmi adesso, con la faccia tirata, la calma solo apparente che ugualmente non nasconde il colpo della pugnalata che ha appena ricevuto.

"Avevi intenzione di dirmelo?"

Deglutisco. "Sì."

Con una spinta si allontana dall'auto, e la rabbia inizia a stillare nella voce che si alza di tono.

"Quando? Il giorno prima del matrimonio? La notte dopo?"

"Elijah, per favore, possiamo-"

"Vuoi smetterla di mentirmi?" urla infine.

Il dolore nei suoi occhi è quasi troppo da sopportare. Non dico niente e, per un momento, restiamo semplicemente a guardarci, a guardare la fine di tutto ciò che c'è stato, di ogni cosa buona che è già diventata amaro e rimorso e lacrime ipocrite come quelle che mi stanno pungendo gli occhi. Faccio del mio meglio, per non lasciarle uscire.

Poi sospira, si passa una mano tra i capelli, ed io vorrei davvero non dover vedere quell'accenno lucido nel suo sguardo, o quella supplica nella sua voce.

"Dimmi solo che non ci sei andata a letto. Dimmi solo questo."

Non voglio mentire. Ma non voglio neanche ferirlo. Dio, non posso ferirlo così. E sento ancora il bisogno assurdo di proteggere Damon, di non tirarlo nel mezzo, quindi ci provo a sviare. Ma è un tentativo così debole.

"Non … Giuro che non ha niente a che fare con-"

Sussulto, quando sbatte con violenza la mano contro il tettuccio della macchina, interrompendomi, in uno sfogo improvviso di rabbia che non credo di avergli mai visto prima d'ora. Mi guarda dritto negli occhi.

"Da quando?"

Ingoio altre lacrime. "Da quando sei partito per Hong Kong."

"Perché?" domanda, perso. "Perché? Perché ti sentivi sotto pressione?"

"Elijah, per favore …"

Fa un passo verso di me, la sua voce si fa più intensa ad ogni parola. "Perché volevi tirarti indietro e questo ti è sembrato un buon modo per mandare a puttane le cose?"

Scuoto la testa, con forza. Lacrime mi annebbiano la vista. Voglio che la smetta. Non lo fa.

"Perché volevi farmi del male per qualcosa che ho fatto? Perché quello che avevamo non era abbastanza?"

Si è avvicinato e mi ha preso per un braccio, e fa così male riuscire a guardarlo negli occhi, ma mi costringe a farlo con una scrollata, e questo sarà peggio del tradimento in sé, lo so già che lo sarà …

"Perché, Elena? …" grida, e le parole mi escono di bocca prima che abbia modo di ragionarci lucidamente e fermarle.

"Perché lo amo!"

Inspiro a fondo e lascio uscire un altro respiro tremante, una qualche specie di scusante che in realtà non è una scusante affatto.

"Lo amo da quando avevo sedici anni."

Elijah mi lascia andare, fa un passo indietro. Se lo avessi accoltellato, qui e adesso, e rigirato lentamente la lama con un sorriso crudele sulle labbra, non gli avrei provocato lo stesso sguardo umiliato, tradito e disperato con cui mi sta guardando adesso.

Tiro via le lacrime con il palmo della mano. "Non ho mai avuto intenzione di …"

E' inutile. Non mi sta neanche più ascoltando.

Apre bruscamente lo sportello della macchina e, con questo, so che abbiamo chiuso.


Damon mi aveva raggiunto sulla riva. Sedevamo lì gocciolando acqua fredda, il tardo pomeriggio già quasi completamente alle nostre spalle a scaldarci ed asciugarci le schiene. Con la punta di un piede, continuavo a disturbare nervosamente la superficie gelida del fiume, sul limitare dell'argine.

Volevo che capisse. Volevo che capisse, cos'era che gli stavo dicendo.

"Non è vero, che ci sono andata a letto," dissi. "Pensavo di volerlo, pensavo che forse era quello che avrebbe fatto andare tutto bene … Ma non andava bene, e non lo sarebbe mai stato. Matt me lo ha fatto capire."

Mi fermai, sbirciando esitante verso la reazione di Damon.

Si era voltato a guardarmi, con quello sguardo un po' corrugato, mezzo sorpreso e mezzo perso, mezzo speranzoso e mezzo incredulo. Irradiò un'intensità tale, nel fondo del mio petto, che dovetti guardare altrove, per continuare a parlare. Presi tra le dita il ciondolo che si posava sopra le prime curve del mio seno.

"Me lo ha detto, che sei stato tu a fare questo per me," aggiunsi piano.

A quelle parole, Damon si girò su un fianco verso di me, appoggiandosi sul gomito. Lo osservai immobile ed in silenzio, attraverso il pulsare morbido nel mio petto, mentre l'altra sua mano mi sfilava delicatamente il ciondolo dalle dita, per prenderlo e rigirarselo tra le sue.

Si schiarì la voce, ma tutto ciò che disse fu, "Quel coglione. Glielo avevo detto di tenere la bocca chiusa."

Strappai la collana dalle sue dita.

"Sei un tale stronzo," gli rinfacciai. "Matt è un bravo ragazzo."

"Lo è davvero," ammise. Sospirò. "Ti rendi conto, vero, che adesso mi stai facendo sentire una merda per avergliele date?"

"Bene!" replicai risoluta. "Dovresti."

(No way out - Rie Sinclair) Damon guardò in su verso di me. Restammo ad osservarci, io con il mio sguardo di rimprovero, lui con il suo cipiglio corrugato.

Poi l'angolo delle sue labbra si contrasse appena, e si contrasse anche il mio, e il modo in cui mi sorrise, ed il modo in cui io gli sorrisi, fu tutto quello che c'era da dire. Diede un lieve colpetto alla collana, usandola per tirarmi giù verso di sé. Toccai il suo sorriso con il mio, chiudendo la bocca sulla sua.

Lo baciai a lungo e lo baciai a fondo, come se potessi prenderne e portarne via ogni secondo, e ampliarlo, e renderlo infinito. Lo baciai aggrappata alla base umida del suo collo, portandolo sotto di me, lo baciai attraverso il disordine bagnato dei miei capelli che caddero intorno riparandoci dalla luce. Lo baciai inalando il calore della sua dita che mi accarezzavano la schiena, e i brividi delle gocce fredde che rotolavano via dalla biancheria ancora fradicia appiccicata alla pelle. Lo baciai finché un piacevole indolenzimento sordo non iniziò ad irradiarsi su per tutti i muscoli del collo e della lingua.

Si sollevò e mi riportò giù con sé, una mano sull'incavo della mia schiena per muovermi facilmente più in su, di qualche centimetro via dalla riva, sopra un terreno meno ripido. Tracciò su di me ogni piccola gocciolina perduta dai miei capelli, dal collo alla clavicola, dalla clavicola al collo, dal collo alla guancia, dalle guance alle labbra.

Anche io tracciai su di lui. Tracciai spalle e scapole, fianchi e incavi, schiena e petto, più delicata sopra ai suoi lividi, marchiando ogni linea tesa, ogni muscolo asciutto che scoprii e imparai, fin dentro al fondo dei miei polpastrelli. Damon tremò quando arrivai al suo addome, la pelle più ruvida tutto d'uno tratto.

Mi fermai, cercai i suoi occhi. "Hai freddo?"

Damon mi osservò. La sfumatura distratta nel suo sguardo lentamente cedette il passo a qualcos'altro, ad una nota di sfacciataggine che filtrò anche nel suo mezzo sorriso, andando a sciogliersi tiepida tra le mie gambe.

"No."

Abbassò il viso per riportare dietro al mio collo, con un movimento caldo e lento della lingua sulla pelle, ed una mano che scendeva adesso verso il mio fianco. Mi inarcai d'istinto verso quel tocco, chiedendomi come fosse possibile che qualcosa di così squisito potesse essere una tale tortura, che ognuno dei suoi baci e ognuna delle sue carezze potesse dare sempre meno sollievo del precedente. Le sue dita dal fianco tornarono su, si fermarono leggere vicino al cotone bagnato sul mio seno, e quando il suo pollice ne sfiorò la cima indurita, fui io a rabbrividire violentemente.

Damon si bloccò, sollevò la testa. Sbirciando tra le ciglia, domandò preoccupato, "Hai freddo?"

Ma poi non ce la fece a trattenere il sorriso, quel sorrisetto compiaciuto da stronzo che sapeva perfettamente che non aveva niente a che vedere con il freddo.

"Stai zitto," risposi, agguantandolo con una mano sulla nuca per baciare quello stupido, sexy sorrisetto via dalla sua faccia.

Non me ne diede la possibilità, perché con uno slancio mi baciò per primo lui. Entrambi i nostri respiri iniziarono ad uscire fuori più corti, più incostanti, mentre mi curvavo per aderire tutta addosso a lui, seno contro petto, coscia a circondare coscia, bacino su bacino.

Amavo il modo in cui premeva contro il mio interno coscia, e ancora di più amavo tutti i suoi gemiti rochi e quasi esasperati ogni volta che un mio minimo movimento lo portava più vicino, più aderente al centro liquefatto delle mie gambe. Stavo affondando nella voglia di sentirlo, toccarlo, essere toccata. Ma le labbra di Damon non si allontanavano mai troppo dal mio collo, le sue mani non andavano oltre carezze sulla mia schiena e sul mio fianco.

Feci scivolare una mano tra i nostri corpi, cercando la rigidità che dava forma ai suoi boxers. Altro calore si irradiò da sotto il tessuto umido, su per le mie dita, quando Damon spinse istintivamente in avanti, rantolando un po' di più, affondando il viso nell'incavo del mio collo. Ma come mi spostai verso l'elastico, una delle sue mani si chiuse veloce sulla mia, e me lo impedì.

Scosse leggermente la testa, Io riaprii gli occhi confusa.

"Elena …" riuscì a dire tra respiri pesanti e irregolari. "Ci sto provando con tutto me stesso ad essere un gentiluomo qui, e mantenere il più possibile le cose ad un rating per famiglie. E tu me lo stai già rendendo un compito davvero, davvero impossibile."

Invece della mia voce uscì fuori una cosa instabile e roca.

"Non voglio il rating per famiglie. Voglio … te. Voglio …" Gli sfiorai la guancia con le dita, leggera sopra i piccoli graffi che ancora la segnavano. "… farlo con te."

Damon rimase immobile. Per qualche istante, neanche respirò. Per qualche istante, forse non respirai neanche io. Erano azzurro e amore e trepidazione a guardare giù verso di me.

Mi sollevai con la schiena dall'erba, quanto bastava per raggiungere con una mano la chiusura del reggiseno e farla scattare. La pelle umida del mio seno si fece fredda, quando entrò in contatto con l'aria, e ardente, quando a toccarla furono le sue dita e palmi della mano.

La sua lingua fu persino migliore.

Ed io mi sciolsi sul terreno, mi dissolsi nell'aria. Vidi bianco e vidi blu, tra le sue labbra e le sue dita, le stesse che piano fecero scivolare giù le mutandine, lungo le cosce, oltre le caviglie.

Si allungò su di me per raggiungere i jeans abbandonati per terra, trafficando tra tasche e portafoglio finché non trovò un preservativo.

La sua voce era rauca. "Va bene lo sai se non …"

Intrecciai le dita tra i suoi capelli. "Lo so. Va bene."

"Sei nervosa?"

"No," dissi piano. "Tu?"

Un mezzo sorriso teso. "Da morire."

Così mi sollevai e lo baciai di nuovo, accarezzandogli capelli, spalle, viso, fino a che ogni tensione non abbandonò le sue membra.

Tutto il mio mondo si ridusse solo a lui.


***


Giro le chiavi nella porta. La apro piano, sbircio dentro.

E' tutto quieto e quasi buio, se non fosse per la luce che arriva tenue dalla stanza più avanti, in una striscia indistinta di giallo caldo. La raggiungo, ma mi fermo sulla soglia, intrecciando incerte le dita nel cerchietto del portachiavi.

Damon non si volta. La luce che non è neanche lontanamente sufficiente ad illuminare l'intera stanza è quella della lampada da tavolo vicino a dove è seduto, con la schiena contro la base del divano, le gambe abbandonate lungo il tappeto ed un bicchiere con del bourbon che pende dalla mano del braccio posato su un ginocchio.

"Tranquilla, Barbie," dice. "Non lascerò in giro bicchieri sporchi dopo averli usati."

"Mi assicurerò di farglielo sapere," rispondo.

Damon si gira, corruga sorpreso la fronte.

"Care mi ha detto che te ne eri andato." Faccio oscillare in avanti le chiavi dal mio palmo. "E mi ha dato le sue chiavi."

"Non può proprio fare a meno di impicciarsi, eh?" replica con un quasi mezzo sorriso, prima di sporgersi ad appoggiare il vetro sul basso tavolino di fronte a lui. "Dio, che tempi duri mi aspettano. Sta già pensando che dovrei iniziare a chiamarla sorella." Una smorfia. "Come no."

Sopprimendo a malapena un sorriso, entro in sala. Raccolgo la gonna attorno alle gambe, mi siedo a terra accanto a lui.

Senza guardarlo in volto, dico a bassa voce, "Elijah ed io ci siamo lasciati."

"Già," dice soltanto, accigliandosi un po' di più. "Mi dispiace per quello."

Mi giro di scatto, un sopracciglio alzato ed un sottotono scettico nella voce. "Ti dispiace?"

Damon piega le gambe, posa entrambi i gomiti sulle ginocchia.

"Sì. Credici o no, sì." Si volta a guardarmi e, di fronte all'evidenza della mia faccia incredula, abbassa appena lo sguardo, l'ombra di un sorriso amaro a curvargli le labbra. "Ho veramente mandato a puttane ogni cosa per te, non è vero? Pur sapendo tutto quello che hai passato, e quanto deve essere stato difficile riuscire a trovare una qualche parvenza di normalità, della vita che ti meriti, sono comunque venuto qui, ho preso i tuoi piani e la tua possibilità di essere felice, e l'ho mandata completamente a puttane." Torna a guardarmi. "E di questo, mi dispiace."

Appoggio la testa all'indietro contro la curva del divano, e lascio che il silenzio cada sulle sue parole. Sui miei pensieri, su ogni scelta e conseguenza che mi ha portato adesso ad essere qui. Mi ritrovo lentamente ad annuire.

"Sì," dico. "Lo hai fatto. Hai davvero mandato tutto a puttane."


La temperatura cambiò in silenzio, cogliendoci impreparati, infida come un ladro. Una goccia di pioggia a bagnare la punta del mio naso, un'altra a chiudere la palpebra di Damon. Avevo guardato su strizzando gli occhi alla luce grigia filtrata dalle nuvole, rabbrividendo di quanto fredda fosse diventata l'aria, ma sempre con l'abbozzo di un sorriso mentre Damon, anche lui disteso su un fianco, allungava un braccio attorno alle mie spalle, tirandomi di nuovo indietro verso il calore del suo corpo.

"Dovremmo andare," dissi con un'altra occhiata all'insù. Socchiusi gli occhi quando un'altra goccia atterrò sulle mie ciglia. "Tra poco inizia a piovere."

"Nah," replicò, guardando in su anche lui. "E' solo una nuvola passeggera."

Ma il momento dopo tutto il suo viso si era increspato, sotto alla pioggia che aveva iniziato tutta insieme a cadere. Quella non era pioggia estiva. Era fina e fredda, odorava di terra bagnata e foglie secche, insinuava umidità fin dentro la pelle e le ossa. Quella era pioggia autunnale.

Recuperammo in fretta i vestiti, sporchi e fradici, corremmo tenendoci per mano indietro verso il sentiero, con le scarpe che affondavano nel fango.

Non ci fu nessun tramonto. Un momento c'era il finire del pomeriggio, quello dopo c'era un pesante cielo grigio ad inghiottire il mondo. E se ci fu un tramonto, io sicuramente l'avevo già mancato, perdendo la cognizione del tempo dentro all'abitacolo dell'auto parcheggiata dall'altro lato della strada in fronte al Grill. Protetta dal battere pesante della pioggia contro il tettuccio e dalle strisce d'acqua che colavano sui vetri, a cavalcioni su Damon sul sedile del guidatore - le mie mani sul suo collo, le sue sulle mie cosce, ancora piacevolmente indolenzite - incapace di staccare la bocca dalla sua e ancora meno di andarmene via.

"Quindi," scivolai con una mano sul suo petto, giocherellai timidamente con il colletto della sua maglietta. "Cosa succede adesso?"

Damon incrociò le braccia alla base della mia schiena. "Tu cosa vuoi che succeda?"

"Non lo so …" Mi strinsi nelle spalle. Continuai a tenere lo sguardo fisso sul suo colletto, mascherando con un leggero sorriso l'incerto nodo che aveva iniziato a prendere forma nella mia gola più si avvicinava il momento di tornare alla realtà. "Tu stai per andartene."

"Elena …"

"No, lo capisco. Davvero. Voglio dire, cosa finiresti per fare a restare qui, lavorare part-time al negozio di Rose? Lo sappiamo entrambi, che non è quello che vuoi. Lo sappiamo entrambi, che hai mille motivi per voler andare via da qui."

I secondi di silenzio da parte sua, riempiti dal picchiare sordo della pioggia contro i vetri, furono sfarfallii di amarognola consapevolezza a prendere il posto del mio petto.

"Fanculo tutto quanto, Elena," disse piano. "Voglio stare insieme a te."

Sbirciai in su, verso il suo volto.

"E poi, voglio dire, chi lo sa come andranno le cose, no? Un po' più di un anno, e hai finito col liceo, e te ne andrai in uno di quei college strafighi con un'enorme borsa di studio, perché sei intelligente e determinata così," premette l'indice sulla punta del mio naso, facendomelo arricciare in un sorriso. "E ce ne andremo ovunque vorrai. Ma solo se mi concedi di fare il temuto fidanzato che fa scappare via tutti quegli idioti di universitari che ti vengono dietro, e che trova sempre il modo di distrarti dallo studio."

"Lo intendi davvero?"

Si aprì in un sorriso. "Certo che sì."

Lo baciai con forza, serrando gli occhi più chiusi che mai, ma non fece niente per chiudere fuori anche quel molle, oppressivo grumo che continuava ad avvolgersi intorno alla mia gola.

Fu l'ennesimo squillare del suo telefono, che non aveva smesso ossessivamente di ricevere notifiche da quando eravamo tornati in una zona con ricezione, a farci staccare. Damon sbatté scocciato la testa all'indietro contro il poggiatesta, io mi spostai tornando sul sedile del passeggero.

"Cazzo," mormorò dando uno sguardo al display.

"Cosa c'è?"

"Niente," scosse la testa, rimettendolo in tasca. "Solo mio padre. Vieni qui."

Mi riattirò a sé.

"Passo da te più tardi, ok?" mi disse, tra un bacio e l'altro di saluto.

Corsi via verso l'entrata sul retro, inzuppandomi daccapo dalla testa alle scarpe. Come entrai, scuotendomi via l'acqua dai capelli, Jenna mi prese per un braccio, trascinandomi in disparte.

"Dove sei stata?" domandò con un sottotono preoccupato nella voce.

Mi sottrassi, leggermente infastidita. "Fuori. Perché?"

"Jeremy è con te?"

"No, io …" Mi fermai. Cercai il suo sguardo, allarmata. "Perché, dov'é?"

Jenna deglutì, e la sua espressione cambiò. "Non lo so."


"Puoi andare più piano? Non riesco a vedere niente."

Feci scivolare le mani giù sul finestrino dell'auto, lasciando una scia di impronte sul vetro, fuori solo pioggia e oscurità. Lo zio John fece come avevo appena chiesto, rallentando fino quasi a passo d'uomo, mentre i miei occhi scandagliavano freneticamente il ciglio spaventosamente buio della strada al di fuori.

"Magari sarebbe meglio tornare, e aspettare la polizia …" cercò di dire.

Lo ignorai, così come avevo già ignorato decine di volte durante l'ultima ora la forte urgenza di dirgli di tacere. Lui, e chiunque altro. I mormorii di panico di Jenna, la faccia pallida di mio padre, questo zio semi-estraneo che cercava di essere razionale e prendere il controllo della situazione. Potevano tutti andare al diavolo.

Avevano pensato tutti che fosse con me. Un bambino di dieci anni, che diventava invisibile e spariva sotto al loro naso, perché avevano semplicemente dato quello per scontato. Che fosse con me.

C'erano state chiamate ad ognuno dei suoi compagni di scuola, ad ognuno dei vicini, ad ogni per quanto piccola conoscenza potessimo pensare. Agli ospedali, alla polizia. Erano venuti al bar, avevano preso le dichiarazioni, ci avevano detto di restare fermi e che avevano già iniziato le ricerche dappertutto.

Ma io non potevo restare ferma. Perché mio fratello era là fuori, solo, infreddolito e spaventato, anche se sicuramente stava cercando di convincersi di non esserlo; perché era là fuori già da ore, e perché il malessere terrorizzato dentro al mio stomaco aveva già una vita tutta sua, mangiandomi di più ad ogni secondo che passava.

Damon non aveva risposto alle mie chiamate. Mio padre era un disastro tremante, riusciva a malapena a parlare, figuriamoci guidare. Sarei andata a perlustrare a piedi ogni vicolo io stessa, se lo zio John non si fosse offerto di accompagnarmi.

E adesso stava ancora parlando. "Ci siamo già allontanati parecchio dalla città, e non abbiamo modo di sapere con sicurezza quale direz-"

"Se sta scappando via," lo interruppi. "Allora è venuto in questa direzione."

Sud. Jeremy amava il sole e il caldo. Avrebbe scelto questa strada. Ripensai al suo zaino sparito con lui, così come tutti i suoi videogiochi compresi quelli che teneva nello scaffale sotto al bancone, e mentre me lo immaginavo prenderli ad uno ad uno con la sua espressione grave prima di uscire inosservato dalla porta, i miei occhi si riempirono di lacrime.

"Forse …"

"Là!" gridai, premendo le mani contro il finestrino. "Ferma la macchina. Ho detto, ferma la macchina!"

L'auto si fermò con un rumore stridente di pneumatici che slittano sull'asfalto bagnato. Aprii la portiera e corsi fuori, calpestando pozzanghere d'acqua con le leggere scarpe di tela, corsi finché non raggiunsi la fermata del bus e lui non guardò verso di me con i suoi grandi occhi marroni da Jeremy ed io potei gettargli le braccia attorno e tirarlo stretto verso di me.

Rabbrividì di freddo, fradicio della pioggia da cui la piccola tettoia della fermata non poteva ripararlo del tutto, quando lo rilasciai per iniziare a fargli domande in un torrente di rabbia, paura e sollievo, cosa stava pensando di fare, come era arrivato fin lì, dieci chilometri fuori città, cosa stava pensando, cosa stava pensando.

Rimase lì con la faccia seria.

"Credevo che tu fossi scappata via," disse. "Non volevo restare, se tu eri scappata via."

"Oh, Jer," Lo strinsi di nuovo, il viso completamente bagnato di lacrime e pioggia. "Non scapperei mai via da te. Non ti lascerei mai."

"Lo prometti?"

Mi appoggiai all'indietro sui talloni, ingoiai attorno al rigonfiamento amaro nel quale avevo di nuovo avvolta la gola, più spesso che mai. "Lo prometto. Vieni. Andiamo a casa."

Quando tornammo, rimasi per ore seduta fuori al buio sul primo gradino del portico.

La pioggia andò avanti tutta la notte.

Damon non arrivò mai.


Damon non replica. Guarda fisso di fronte a se, e anche lui annuisce in silenzio. Così, io continuo, lascio che tutto venga fuori, diretto, senza filtri.

"Hai mandato tutto a puttane per me nel momento in cui hai rimesso piede nel mio bar. E hai continuato ad incasinare e mandare tutto al diavolo più e più volte, non importa quanto io abbia provato ad impedirlo, non importa quanta fatica ho fatto per fermarlo. No, tu hai dovuto gettare tutto sottosopra, hai dovuto lasciarmi completamente persa, senza più punti di riferimento. Quindi …" Un lieve sorriso mi tende le labbra. "… Grazie, per averlo fatto."

Damon si volta lentamente. Mi osserva cauto, profonde ombre blu nei suoi occhi alla morbida luce della piccola lampada. Sento il mio cuore farsi un po' più ampio, la mia voce un po' più tremante.

"Pensi di aver rovinato la mia possibilità di poter essere felice vivendo un perfetta vita normale? Beh, la vita non è normale o tantomeno perfetta. E' incasinata, e complicata. E sai cosa? Va benissimo così. Per così tanto tempo ho provato a fare le scelte più giuste, quelle che in qualche modo avrebbero dovuto finire per far andare tutto bene. Ma non lo hanno fatto. Perché tutto quello che avevo, tutto quello con cui mi ero ritrovata, non era … non lo so, non era davvero mio. Mi sono aggrappata al mandare tutto avanti, con la mia famiglia, con il locale … Perché era il sogno dei miei genitori e tutto ciò che volevo era mantenerlo vivo. Ma era il loro sogno. Non il mio. E non sto dicendo che lo rimpiango, sto solo dicendo … che mi sono concentrata così tanto su quello da lasciare che mi dimenticassi chi fossi io, al di fuori di questo. E mi sento come se stessi soltanto adesso iniziando a scoprirlo." Mi interrompo, giocherello un po' timida con l'orlo del mio vestito. "Questo pomeriggio ho dato a Jenna la piena gestione del Grill, e lei quasi non ci credeva. E Bonnie mi ha dato il contatto di un consulente studentesco al Whitmore. Lo incontro domani per iniziare a pensare cosa scegliere, alle pratiche di iscrizione. Andrò al college," e guardo in su verso di lui, senza riuscire a nascondere del tutto un sorriso, e anche le labbra di Damon si tirano all'insù, e lo fanno con quella nota di orgoglio che mi fa quasi arrossire. Mi schiarisco la voce.

"Ma, immagino, che quello che sto veramente cercando di dire …" Ho la gola più spessa, e il petto più tiepido, mentre allungo la mano verso la sua, la prendo nervosamente nella mia. "Quel matrimonio, o illusione di avere una piccola vita perfetta … Penso che sia io che Elijah avessimo messo fin troppo sforzo nel cercare di trasformarlo in quello che volevamo che fosse, ma che non era davvero. Non era reale. Ed io voglio qualcosa di vero, Damon, lo voglio anche se fa male. Non sapevo più chi io fossi o cosa volessi, e tu mi ci hai messo di fronte anche se mi spaventava da morire. Fingevo di stare bene, e tu mi hai fatto mettere tutto in dubbio. Avevo dimenticato cosa si provasse a sentirsi davvero vivi, e tu me lo hai ricordato. E ti amo, per questo." La mano mi trema appena mentre stringo la sua più fermamente, sollevo il volto su di lui. "Ti amo, Damon."

I suoi occhi si allargano nei miei, cercano nel mio sguardo per vederlo lì oltre che nelle mie parole, e quando lo fanno, sono io che vedo un mondo intero nei suoi, il suo e il mio, da cui mi lascio riempire completamente. Il mio battito accelera mentre la sua mano raggiunge il mio viso, mi accarezza i capelli, si posa sulla base del collo. Abbassa la fronte fino a toccare la mia.

"Hai una vaga idea," mormora attorno ad un sorriso abbozzato, "quanto ho aspettato di sentirtelo dire?"

Mi sfugge una leggera risata. "Solo un'idea vaga."

Chiudo la mia mano sulla sua, ferma sul mio profilo, gli sfioro piano la pelle con le dita.

"Penso che sia grandioso quello che stai facendo, quello che vuoi fare," prosegue, abbassando appena lo sguardo, deglutendo un po'. "E davvero credo che dovresti. Andare là fuori, essere te, prenderti tutto quello ti meriti. Perché sei intelligente e determinata così." Mi sento sorridere di nuovo, stringo più forte la sua mano. "Voglio davvero che tu lo faccia."

"Lo sai," sussurro. "Ci sono un sacco di ottimi college in California."

Damon si scosta. Non di tanto, ma abbastanza da farmi alzare lo sguardo a scrutare la sua faccia con un'occhiata interrogativa. Corruga la fronte, serra leggermente le labbra.

"Sai quando prima … Ho detto che le cose con Katherine si sono fatte un po' … complicate."

La sua mano scivola piano via dal mio volto, e la sua voce si fa particolarmente incerta mentre aggiunge, "Elena, c'è una cosa che devi sapere."

—————————————————————-


   
 
Leggi le 14 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Vampire Diaries / Vai alla pagina dell'autore: everlily