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Autore: illusion90    06/02/2009    2 recensioni
è possibile restare imprigionati in un ricordo? credere fermamente di poter trovare la felicità solo vivendo in esso??...
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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capI

Capitolo I

Sola. È così che mi sento da quando non ci sei più. Lo senti il suono del mare?

E’ forte. Vorrebbe farmi capire che c’è. Inutile.

Ascolto il suono delle onde e mi sembra di averti ancora qua, vicino a me, come l’ultima volta che ci siamo venuti, poi però, mi rendo conto che non succederà più.

Mi stendo sulla dorata sabbia, riscaldata dai caldi raggi del sole; probabilmente scotta, ma la mia mente è ormai altrove ed è immune a quel bruciore, che rispetto a ciò che brucia dentro è solo un lieve fastidio.

Niente ha importanza perché non posso condividerlo con te.

Ora che posso guardare il cielo, vedo le nuvole, e ricordo dei giorni in cui noi immaginavamo che avessero delle forme e potessero prendere vita; allora vorrei immaginare che una di queste avesse il tuo aspetto così da poterti vedere di nuovo sorridere, accanto a me.

Finalmente chiudo gli occhi e iniziano a scorrere delle figure davanti a me e sono tantissime, si muovono velocemente, quasi come se volessero scappare, poi d’improvviso mi appare una scena... è simile alle altre, veloce, ma dopo poco si ferma, vuole che ricordi, insensibile alle mie sofferenze.

***

Tre mesi fa…

Era un giorno come tanti o almeno così sembrava a tutti.

Una calda mattinata, che annunciava una stagione estiva; io mi stavo preparando per andare a scuola, avevo appena finito di sistemare l’ultimo libro nello zaino quando sentii squillare il telefono.

Mia mamma era appena uscita per andare a trovare il nonno, ci passava sempre ogni giorno, prima di andare a lavoro.

Così risposi io. Alzai la cornetta del telefono: «Pronto, chi è?» risposi forse un po’ scortese ma avevo fretta, quel giorno avevo un compito in classe alla prima ora e non volevo di certo arrivare in ritardo.

La persona che parlò aveva una voce calda, credo dovesse essere un uomo sulla trentina, ma non era felice della telefonata e non perché avesse fretta di andare da qualche parte…e presto ne capii il motivo anche io.

Mi presentai e sebbene avesse preferito parlare con mia madre credendomi abbastanza adulta decise di dirlo a me.

Che stupida, se lo avessi saputo prima gli avrei detto che poteva aspettare la mia mamma perché a me non interessava affatto saperlo.

Rimasi allibita di ciò che mi aveva detto, e lo fece con una tale fermezza come se avesse preparato un dialogo e lo avesse recitato per giorni davanti allo specchio.

Poco dopo mia madre entrò nella cucina, dove aveva lasciato le chiavi della sua grigia Audi e probabilmente, si spaventò nel vedermi così.

Non mi aveva mai vista in quel modo, ferma e immobile con il cordless in mano, con il mio sguardo perso nel vuoto, alla ricerca di un qualcosa che ora non esisteva più.

 

Mi prende il telefono dalla mano. Si presenta all’uomo e iniziano a parlare.

«Buongiorno, sono la signora Alice Nicerini. Ha appena parlato con mia figlia e se vuole spiegarmi la sua telefonata gliene sarei grata, anche perché devo andare in ufficio.»—«Salve, io sono il comandante De Luca, un collega di vostro marito, oltre che un fidato amico». L’uomo ora aveva un nome; ma questo non aiuterà affatto a sopportare il carico che stava per dare a mia madre.

Per un attimo la vidi svenire, gli occhi persi anch’essi, chissà dove, forse in un ricordo ormai troppo lontano da prendere e immortalare.

Il comandante aveva raccontato tutto, per filo e per segno come se lui avesse seguito la scena, insieme a mio padre. « Resti calma, anche se ciò che sto per dirle potrebbe essere devastante…» le aveva detto di restare calma, in un momento come quello; evidentemente era così abituato a dare simili notizie da restare impassibile al dolore degli altri.

«Vede, mi riesce difficile dirlo… durante il volo per Praga, c’è stata un’avaria del motore e nonostante i vari tentativi di Sergio di riparare il guasto, purtroppo non è stato possibile fare niente per evitare il disastro»; continua a parlare, cercando di mantenere lo stesso tono di voce con cui aveva iniziato.

«Non c’erano piste d’atterraggio nelle vicinanze, così i piloti dovevano tentare una discesa di fortuna e la sorte non fu dalla loro parte quel giorno».

«Decisero di scendere su un ampio terreno, ma poco dopo hanno perso il controllo del velivolo e si schiantarono contro una vecchia fabbrica. Il pilota che gli stava accanto fece di tutto per tirarlo fuori, ma si accorse che Sergio aveva un arto bloccato ed era svenuto per lo scontro. Dovevano fare presto perché di lì a poco sarebbe esploso. Così era riuscito a tirare tutti fuori dell’aereo, e quando cercava di salvare lui, sapendo che potevano morire entrambi, suo marito, rinvenuto, gli disse di andarsene e raccontarvi tutto. La morte di una sola persona era più sopportabile di quella d’altre».

Finito di parlare mia madre ringraziò il comandante con una flebile voce, quasi come se non n’avesse più in gola. Si girò e mi vide ancora ferma e gelida nello sguardo; aprì le braccia, voleva abbracciarmi.

Non fece in tempo a dir niente che io ero già fuori. Iniziai a correre, con una forza che non sapevo di avere; se mi fossi trovata davanti quel motore mi dissi che l’avrei fatto in mille piccoli pezzi.

Questo però, non me lo avrebbe fatto riavere, così corsi più veloce; sfrecciavo via e mi lasciavo alle spalle i bar, i vialetti…

Mi fermai di colpo, ansimante; avevo corso proprio parecchio.

Arrivai nel posto che cercavo.

Era il nostro luogo preferito. Ricordo ancora quando, per mano, mi aiutavi a salire sullo scoglio, da lì potevo vedere il mare e l’orizzonte che diventavano un’unica cosa. Ancora ricordo quando litigai con mamma, e dopo essermene andata, di corsa, proprio come oggi, mi cercò per tutta la città e mi trovò, qua, dove ero adesso.                

Era strano ritornarvi senza di te, ma mi ci dovevo abituare; tu non saresti più venuto con me…

 

 

 

 

Qualcosa mi distrae dai ricordi e mi fa trasalire.

Poco lontano da me, una bambina ha dato un calcio ad un pallone e questo, inavvertitamente, si è fermato vicino a me.

Mi alzo e con un sorriso malinconico le restituisco il suo gioco.

Si chiama Emy.

Ha un volto paffuto e una gran voglia di vivere in quei suoi occhi color verde smeraldo, mi dico, mentre la guardo tornare verso qualcuno.

È un uomo, con corti capelli corvini e dei lunghi baffi, uno sguardo severo e profondo, ma in fondo ha un aspetto simpatico.

La bacia dolcemente e insieme ritornano a giocare.

Probabilmente sarà suo padre.

***

Altri ricordi…

Il giorno del tuo funerale, vennero in Chiesa e poi a casa, molte persone che non avevo mai visto prima, altre con cui noi non avevamo un buon rapporto e altre invece, sebbene poche, che erano sinceramente dispiaciute per la grave perdita di un caro amico.

Eravamo in salone e il mio sguardo scrutava ogni singolo volto.

Le signore più anziane, che vivevano poco distanti da noi, non facevano altro che parlare dello svolgimento della funzione religiosa e degli abiti che indossavano i presenti.

Poi qualcuno mi distrasse dai miei pensieri. Era un bell’uomo e aveva gli occhi chiari come il cielo e i capelli biondi come il grano. Teneva il volto basso e si guardava i piedi.

Forse era l’unico che in quel momento aveva l’aria di chi era realmente dispiaciuto.

Decisi di avvicinarmi perché ero incuriosita e volevo sapere chi fosse.

Mi disse che era un collega di mio padre, si chiamava Roberto, era con lui quel giorno, era a lui che papà ha salvato la vita, mandandolo via. Dopo un po’, pensai di averlo già visto.

In realtà, Roberto era il migliore amico di papà; quando ero bambina, trascorreva molto tempo con noi. Ogni volta che veniva m’insegnava a fare aeroplani di carta e ci divertivamo tanto a farli volare. Mi sembrava di non avere lacrime da versare e che il mio dolore, pietrificatosi nel buio dell’anima chiedeva d’esser dimenticato; ormai consapevole di affondare le sue radici, ogni giorno sempre più solide. Ma quest’atroce sofferenza si nutre di parole… e lui parlava di quanto fu forte e coraggioso il mio papà, che persona meravigliosa si fosse dimostrata sino all’ultimo giorno.

Raccontava e mentre lo faceva, una lacrima mi rigò il viso, volevo rispondergli dicendo che quella che lui stava descrivendo era la persona che più aveva imparato a capirmi.

Per me non era semplice, esternare ciò che sentivo, mostrare il mio dolore era una cosa che non capitava quasi mai. Lui, con la sua semplicità, riuscì a trasformare in un fiume in piena il mio dolore incitandomi a continuare. Lì, tra le sue braccia, mi sentivo al sicuro e decisi che valeva la pena, per quella volta, essere me stessa…

 

 

 

Ora i miei ricordi sono altrove.

Vedo delle altre immagini, e anche se sono meno nitide e i colori sembrano fondersi tra loro, riesco perfettamente a rendermi conto di ciò che stava accadendo; e la sensazione che provo anche solo rivedendo quella scena, come quando la vissi, non era per niente piacevole.

Sono nella mia stanza e li sento. Stanno litigando, di nuovo.

Non riesco bene a sentire quello che dicono, così decido di uscire dalla camera e mi avvicino alla cucina per capire meglio, ma senza alcun risultato.

In ogni caso mamma deve essersi davvero arrabbiata.

Il giorno seguente, infatti, ha preparato la valigia e vedendo che la fissavo, nell’attesa forse di qualche spiegazione, mi ha detto che sarebbe andata a stare dal nonno e, per qualunque cosa potevo andare là.

Restai sull’uscio della porta, stupita perché mamma non si era mai comportata così.

Chiesi a mio padre il motivo della discussione ma mi liquidò dicendo semplicemente che non mi riguardava perché ero piccola per capire.

Mamma tornò solo quando papà andò da lei, le diede un gran bel mazzo di rose e si fu scusato.

***
  
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