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Autore: TimeKeeper    05/09/2015    3 recensioni
Freddo.
Fu la prima sensazione che lei percepì: l’ostile gelo di una notte d’inverno, senza luna né stelle.
Era distesa nella neve, sul ciglio di una strada, con i lunghi capelli rossi sparsi nel fango; catturava l’aria a fatica, con la piccola bocca semiaperta, e lacrime ghiacciate coprivano il suo volto latteo. Stringeva la neve nei pugni, in una lotta disperata, anche ora che il suo hakudo si stava lentamente spegnendo. Coperta di soli stracci sarebbe morta congelata.
Genere: Azione, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Urahara Kisuke
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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5.
My little Phoenix

 
 
«Direttore! – chiamò a gran voce Benihime, percorrendo l’ingresso a lunghi passi – Direttore!» ripeté poi, sempre in cerca dell’uomo.
La testa di Urahara spuntò da una porta al fondo del corridoio, coperta fino ad oscurargli la vista dall’inseparabile cappello a righe bianche e verdi.
«Eccomi, mia dolce Benihime!» esordì ironicamente, sistemandosi il berretto. Quando fu in grado di vederla, il sarcasmo gli si spense in gola.
La ragazza portava i lunghi capelli rossi sciolti sulla schiena, in sinuose onde amaranto. Il vestito blu oltremare le fasciava il fisico snello e flessuoso, per terminare in un ampio strascico ricamato con decori d’argento; alcuni brillanti impreziosivano lo scollo e i polsi, illuminandole il viso di riflessi iridescenti.
«Mi ero dimenticato che stasera avessi un appuntamento» riuscì a dire Urahara, riprendendosi da una piacevole sensazione di stupore.
Benihime sorrise: «E’ il vestito che mi ha regalato lei, direttore. Ho pensato che potesse farle piacere vedermelo indosso» sussurrò lei lievemente imbarazzata, aggrappandosi alla borsetta.
«Mi fa piacere, infatti» rispose prontamente l’uomo, avvicinandosi a Benihime.
Dio, era davvero bellissima: così dolce, semplice, ingenua. Eppure, se riuscivi ad annegare nei suoi occhi per qualche istante, potevi quasi toccarlo, il suo segreto; era lì, nascosto tra le screziature d’oro e le ciglia scure. Stava aspettando qualcuno in grado di svelarlo.
Benihime abbassò lo sguardo: «Desidera che l’avverta quando rincaso…»
Uno strano boato li avvolse. Entrambi si guardarono angosciosamente intorno, cercando l’origine di quell’esplosione silenziosa; poi una forte corrente d’aria riempì la stanza. Prima che Benihime potesse rendersene conto, Urahara balzò verso di lei e le fece scudo con il suo stesso corpo; in quel medesimo istante un’esplosione frantumò parte della parete di legno. Prima che il polverone potesse diradarsi, l’uomo obbligò Benihime a seguirlo, correndo a perdifiato verso il retro della bottega.
«Direttore, cosa succede?» chiese lei, colta dal panico.
Urahara la fece nascondere tra due alte pile di casse: «Non ti devi muovere di qui, qualsiasi cosa succeda. Hai capito?»
Lo sguardo di lui era serio e preoccupato come non l’aveva mai visto. Tirò fuori il bastone da passeggio e lo impugnò saldamente; abbassò il cappello sul viso, prendendo un profondo respiro.
«No, direttore, non vada – disse Benihime, soffocando le grida – Cosa vuole fare con quel bastone?»
«Non devi preoccuparti» continuò lui, dirigendosi nuovamente verso il corridoio.
La ragazza afferrò l’orlo della vestaglia sgualcita di lui: «Non la lascerò andare, lei non deve andare! Si ferirà!»
Urahara osservò per un istante il viso di lei, coperto di lacrime: nonostante avesse tentato di proteggerla facendole da scudo, una scheggia di legno l’aveva comunque ferita alla guancia destra, e ora sanguinava copiosamente. Lo stava supplicando di non andare, desiderava proteggerlo, ma lui non poteva permetterlo. Era lei che doveva essere protetta e se lui non le avesse mentito a riguardo, forse ora lei avrebbe capito; ma non era il momento per scuse o pentimenti.
«Mi dispiace, Benihime – sussurrò lui, puntando la mano verso il viso della ragazza – Incantesimo di immobilizzazione 99: kin, proibizione»
Benihime non si mosse più. Ogni suo muscolo era immobile ed atrofizzato, come se non rispondesse più agli stimoli; la bocca era chiusa e muta, anche se dal suo petto proveniva un urlo straziante. Crollò inesorabilmente sul pavimento di legno, senza essere più in grado di reagire, ma i suoi occhi vedevano, le sue orecchie sentivano. Cosa le aveva fatto il direttore? E ora dove stava andando? Avrebbe voluto fermarlo, ma non era in grado. Sentì di aver perso la sua unica occasione: sciocca, debole, fragile.
La luna stava sorgendo spietata, portando con sé i cambiamenti del mondo. I colori stavano lentamente scurendo e il legno sotto il suo corpo sembrava trasformarsi in marmo. Tutto girava, cambiava. C’era una cosa, pero, che non sarebbe mai cambiata: la sua impotenza.
Kisuke Urahara la guardò riversarsi a terra in una macchia blu oltremare: ora era venuto il momento di pagare per la sua stessa stoltezza. Avrebbe dovuto allontanarla tanto tempo prima e ora era in pericolo per colpa sua. La salutò silenziosamente nella penombra dell’emporio e corse via, verso il corridoio, pronto a combattere.
«Ti stavo aspettando – esclamò una figura, rannicchiata nell’ombra – Consegnami la ragazza» intimò ad Urahara, alzandosi in piedi.
«Quella che hai sfondato era una parete di casa mia: sei proprio un maleducato» rispose semplicemente il direttore, azzardando qualche passo verso lo sconosciuto.
«Non mi stavi ascoltando? Il mio unico interesse è la ragazza: consegnamela e forse ti risparmierò la vita» ribatté ancora lo sconosciuto, senza accennare ad uscire dall’ombra.
Urahara sorrise, sotto il cappello a righe: «Ti prometto che sarai tu a dover pregare di avere risparmiata la vita!»
Lo sconosciuto scattò in avanti pronto a colpirlo, ma il direttore usò il suo stesso corpo come leva per balzare al di fuori della struttura, attraverso l’apertura lasciata dall’esplosione. Sarebbe stato più libero di usare attacchi di potenza maggiore, ora che era al di fuori dell’edificio, lontano da Benihime. Sfilò la parte superiore del suo bastone, rivelando una katana nascosta nel legno; con un’agile mossa, liberò dalla copertura l’elsa e la guardia e parò il primo violento colpo dello sconosciuto. L’uomo esitò un istante, poi balzò indietro, frenando con i sandali sul manto stradale.
«Io conosco quella zampakuto! – urlò lo sconosciuto – Tu sei Kisuke Urahara» concluse poi, scoppiando in una fragorosa risata.
Il direttore alzò la guardia: «Il mio nome è così divertente?»
«Certo, Urahara! – proseguì l’uomo, continuando a ridacchiare – Chi altri poteva aver percepito il reiatsu della ragazza… sono decenni che non ci vediamo! Mi hai dimenticato?»
Urahara osservò lo sconosciuto alla luce della luna da poco sorta: il suo viso era deforme e colmo di cicatrici; indossava una shihakusho, la veste dei dominatori della morte, e la sua spada luccicava nel chiaro di luna di una luce macabra.
«Mayuri Kurotsuki – sussurrò tra i denti il direttore – Cosa ci fai qui?»
Lo shinigami si finse sorpreso: «Non lo sai? Ora sono capitano, Urahara! Capitano della dodicesima compagnia e, grazie a te, anche capo della sezione Ricerca e Sviluppo. Non è entusiasmante?»
«La Soul Society è caduta così in basso, da nominare capitano un individuo senza scrupoli come te?» urlò Urahara, senza riuscire a trattenere la rabbia.
«Se tu non fossi fuggito, non sarei mai diventato né capitano né capo della Sezione, quindi è solo te stesso che devi rimproverare – lo biasimò falsamente Kurotsuki – Dato che sei tu, te lo chiederò ancora una volta: consegnami la ragazza o morirai»
Urahara alzò la zampakuto, risoluto: «Mai» disse, a voce bassa ma sicura.
«Allora morirai!» rispose lo shinigami, balzando in avanti.
Con uno shumpo fu subito di fronte al direttore e lo attaccò con impeto direttamente al petto; Urahara schivò e parò un paio di colpi, poi lo perse improvvisamente di vista. Percepì il suo reiatsu proprio alle sue spalle ed ebbe giusto il tempo di evocare la zampakuto per proteggersi.
«Piangi, Benihime!» urlò, creando un enorme scudo rettangolare di colore rosso scarlatto.
La risata di Kurotsuki risuonò nell’aria: «Avevo dimenticato che la tua è l’unica zampakuto con un nome femminile: patetico! Il massimo che riesci ad evocare è uno scudo di nebbia?»
Con un passo lampo Urahara apparve alle spalle dello shinigami e lo colpì senza esitare: alcune gocce di sangue schizzarono nell’aria, accompagnate dal grido di Kurotsuki. Dalla tunica squarciata s’intravedeva la profondità della ferita.
«Hai abbassato la guardia, non ho potuto resistere» sogghignò Urahara.
Lo shinigami rispose con un calcio brutale, scaraventando il direttore a parecchi metri di distanza. Urahara tossì sangue, cercando di rimettersi in piedi: «Perché vuoi la ragazza? A cosa ti serve?»
«Mi stupisci – rispose prontamente Kirotsuki – La tieni nascosta in un gigai da quasi un anno e ancora non hai scoperto da dove viene la potenza del suo reishi? Ti sei forse arrugginito, Urahara?»
«Non amo torturare i miei soggetti, a differenza di te» ribatté il direttore, asciugandosi il sangue dal mento, con il polso.
«Sempre più patetico! Scommetto che magari le hai dato anche un nome… che sentimentale – lo schernì lo shinigami – Il tuo talento non serve a nulla se non sai sfruttarlo: lei è solo un oggetto da spremere per ottenere quello che desideri»
Urahara compose lentamente nell’aria con la punta della zampakuto, un cerchio regolare, che si tinse di amaranto: «Sei un bastardo! Danza, Benihime!»
Dal cerchio partì un raggio luminoso d’energia pura, che esplose nell’impatto con lo shinigami avversario, alzando una nuvola di polvere. Purtroppo Kurotsuki parò il colpo, usando la sua stessa zampakuto.
«Stolto! – urlò lo shinigami – Ora tocca a me: estirpa, Ashisogi Jizu!»
All’improvviso la sua zampakuto mutò forma: dalla guardia spuntò la testa deforme di un neonato, dalla quale nascevano tre lame affusolate. Attaccò immediatamente, lanciando colpi ripetuti e secchi; Urahara riuscì a pararli, scattando velocemente e contrattaccando. All’improvviso uno schizzo di sangue tagliò l’aria: sulla guancia sinistra del direttore si aprì un lieve taglio superficiale.
Kurotsuki riprese a ridere forsennatamente.
«Sei contento per avermi graffiato?» chiese ironicamente Urahara.
«Lo sai qual è il potere di Ashisogi Jizu, il Jizo mozzapiedi? - ribatté lo shinigami, con il sorriso stampato in volto – Quando ferisce rilascia un potentissimo veleno immobilizzante, che blocca i segnali che il cervello invia agli arti. Tra pochi secondi non sarai più in grado di muoverti»
Urahara tentò di contrattaccare, ma la mano che teneva la zampakuto non rispondeva ai suoi comandi.
«E sai qual è la cosa più divertente? Che a differenza di un paralizzante normale, che blocca qualsiasi messaggio celebrale, Ashisigi Jizu permette di sentire… il dolore!» terminò, colpendo energicamente il petto di Urahara. Ancora e ancora.
Il grido di dolore del direttore riecheggiò nell’aria: era straziante, penoso, insopportabile.
«Muori, Kisuke Urahara!» gridò Kurotsuki, levando la zampakuto per il colpo finale.
Una violentissima esplosione rase al suolo parte dell’emporio, provocando un’onda d’urto schiacciante: e non era stata la zampakuto di Kurotsuki a provocarla. Il cappello di Urahara rotolò per diversi metri ed una luce accecante s’interpose tra il direttore e lo shinigami avversario; nel chiarore, s’intravedeva un’esile figura femminile, avvolta dalle fiamme. Con uno spostamento d’aria, catapultò Kurotsuki lontano dal corpo leso dell’uomo e si volse verso di lui, come per proteggerlo.
«Kisuke» sussurrò soltanto, chinandosi sul suo viso ferito.
Nella nebbia dello stordimento, Urahara vide il suo volto: avvolta da fiamme vive, la sua pelle non bruciava, anzi sembrava parte elementale del fuoco che l’avvolgeva. Nella marea rosso sangue che la fasciava, riconobbe i suoi occhi verdi, screziati d’oro e di bronzo.
«Benihime…» cercò di chiamarla.
«Tu, le hai dato il nome della tua zampakuto! – urlò Kirotsuki, riprendendosi dal colpo – Questo è davvero, davvero commovente!»
Benihime si erse in tutta la sua imponenza: le fiamme l’avvolgevano, creando nell’aria circostante piccoli fulmini elettrici. Nei suoi occhi non c’era compassione, solo rabbia. Aveva desiderato il potere di proteggere Kisuke, ora aveva la forza per annientare chi l’aveva ferito.
«Ora sei mia, maledetta! Io ti ho liberato dal sokyoku, tu mi appartieni!»
Sentì scorrere dentro di lei tutta l’ira: la condensò nel petto dove poteva controllarla. Chiuse gli occhi e la sua forma cambiò. Le fiamme divennero ali e il suo corpo divenne quello di un uccello: era enorme, era potente, era pronta. Scese in picchiata con la violenza di un uragano: voleva ucciderlo, l’avrebbe ucciso.
Un urlo risuonò straziante, poi il buio. E lo sentì ancora una volta.
Il freddo.
   
 
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