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Autore: Helena Kanbara    06/09/2015    3 recensioni
[Sequel di parachute, che non è indispensabile aver letto]
[...] io ho scelto, Stiles. Ho scelto ancora. Ho scelto di seguirti quella sera di settembre alla Riserva di Beacon Hills, quando ci siamo fatti beccare da tuo padre a curiosare sulla scena di un crimine e Peter Hale ha trasformato Scott nel licantropo buono che è tutt’oggi. Ho scelto di entrare a far parte della tua vita, ho scelto di accettare la mano che mi porgevi pur senza conoscermi e ho scelto di restarti accanto fino all’ultimo. [...] Stiles, ti amo. [...] Sono innamorata di te [...]. Ho scelto fin dal primo momento – inconsapevolmente – di innamorarmi di te e questa è probabilmente l’unica cosa che non mi pentirò mai – mai – di aver fatto. [...] ti amo. Ti amo così tanto [...].
Genere: Angst, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'People like us'
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NB. In caso aveste deciso di non leggere parachute, vi do qualche piccola informazione fondamentale per farvi capire alcune cose che potrebbero altrimenti confondervi. Da come potrete vedere di già nella prima scena di questo secondo capitolo, Harriet vive in casa degli Stilinski e tutto ciò è possibile grazie ad un corso di Intercultura per il quale è stata scelta proprio da Stiles e Stephen (anche il nome dello sceriffo è di mia invenzione). Per farvela breve: Stiles aveva problemi col francese e la professoressa Morrell gli ha proposto, per recuperare, di ospitare a casa sua uno dei ragazzi scelti per il progetto e alla fine (grazie a Stephen!) la scelta è ricaduta proprio sulla nostra Harry. A dire il vero le cose sono molto più complicate di così, ma non voglio spoilerarvi nulla di più e mi limito ad augurarvi buona lettura.
 
kaleidoscope
 
 
2.    What the Hell?
 
Il mattino dopo mi svegliai esattamente un attimo prima che la sveglia suonasse, annunciandomi che fosse l’ora di mettermi in piedi e cominciare a prepararmi per quell’ennesimo giorno di scuola. Raramente mi capitava di svegliarmi in anticipo – di solito rimanevo a dormire anche dopo il suono della sveglia, riducendomi a dover poi prepararmi in fretta e furia per non arrivare a scuola in ritardo – perciò quella mattina mi capitò di approfittare con voglia di quell’occasione, spegnere la sveglia prima che suonasse e godermi per qualche minuto in più il pacifico silenzio in cui la casa era avvolta.
L’orologio segnava le sette in punto ed io mi misi in piedi lentamente, aguzzando l’udito per comprendere se la casa fosse davvero vuota come sembrava. Vivevo a Beacon Hills da davvero troppo poco tempo per ricordare già a memoria i turni di Stephen: semplicemente credevo che quella mattina ne avrebbe avuto uno, ma non potevo esserne sicura. Ne ebbi comunque la conferma quando, dopo un attento giro dell’abitazione, la scoprii vuota sul serio.
L’unica stanza popolata – oltre a quelle che visitavo io, ovviamente – era quella di Stiles. Per un attimo mi persi anche a guardarlo dalla soglia, la mano stretta sulla maniglia in ottone e un vago sorriso a piegarmi le labbra piene. Non potevo vederlo in viso, ma ero convinta che stesse ancora dormendo: lo si capiva dai lievi respiri che lo scuotevano dalla sua posizione rannicchiata sotto le coperte pesanti. Ormai lo conoscevo abbastanza da sapere che di lì a poco si sarebbe svegliato, perciò decisi di sgusciare via in cucina prima che potesse aprire gli occhi e trovarmi lì intenta a fissarlo. Forse stupidamente, ma la reputavo una cosa piuttosto inquietante.
Ridacchiai tra me e me per quei pensieri come al solito stupidi, poi liberai uno sbadiglio mentre mi stiracchiavo le braccia allungandole sulla testa e mi coprivo poi le labbra educatamente.
Non appena giunta in cucina, la prima cosa che attirò la mia attenzione furono le voci soffuse provenienti dalla tv: Stephen l’aveva guardata prima di uscire per lavoro proprio come al solito, tenendo il volume basso per non svegliare né me né Stiles. L’avevo visto farlo spesso e certe volte mi era anche capitato di accodarmi a lui perché non più capace di dormire. E sapevo bene come non fosse abituato a spegnerla: se ne dimenticava puntualmente e quella mattina scoprii che non fosse stato da meno.
Scossi la testa divertita, avvicinandomi alla tv quel tanto che bastava a trafficare coi tasti del volume. Era sintonizzata su un canale locale e il primo telegiornale della giornata veniva trasmesso: pensai che sarebbe stato interessante ascoltare le nuove notizie riguardanti Beacon Hills mentre provvedevo alla colazione.
Tornai dunque in cucina, aprendo il frigo alla ricerca di latte che poi misi a scaldare sul fornello. Ero ancora intenta a trafficare alla ricerca di biscotti quando le parole: “notizia dell’ultimo minuto”, “omicidio” e “Lahey” attirarono tutta la mia attenzione. Proprio non potei fare a meno di immobilizzarmi, ancora dando le spalle alla tv. Non potevo vederla – non ne avevo la forza – ma sentivo distintamente la voce di una giornalista dire:
«Il corpo senza vita di John Lahey è stato rinvenuto questa mattina alle prime luci dell’alba da alcuni agenti di pattuglia. Si tratta dell’ennesimo caso di omicidio qui a Beacon Hills, ma sfortunatamente ancora non ci sono state fornite ulteriori informazioni. La polizia indaga».
Allora non riuscii a sentire più nulla. Semplicemente rimasi a fronteggiare la tv – perché alla fine avevo deciso di voltarmi, sì – con gli occhi sgranati e un improvviso senso di disgusto alla base della gola. Nella mia mente si ripetevano senza mai fermarsi le poche immagini di quel servizio che avevo avuto occasione di vedere: il corpo straziato del signor Lahey, la sua auto malconcia e rivoli di sangue ovunque. Non avrei dimenticato mai quella visione.
Inutile dire che quando Stiles mi raggiunse in cucina si preoccupò non poco.
«Harry?», chiamò, raggiungendomi con passi indecisi. Ero ancora immobile di fronte alla tv e potevo immaginare senza sforzo quanto quella scena potesse essere inquietante. «Cosa succede?».
Non potevo dirglielo. Non avrebbe capito ed io non volevo che capisse. Non aveva senso dispiacersi per una persona che nemmeno conoscevo e che, tra l’altro, non meritava nemmeno metà della mia solita apprensione. Ecco perché dopo qualche attimo di solo silenzio afferrai il telecomando e lentamente, facendo spallucce come se niente fosse, spensi la tv.
Poi mi voltai a guardare Stiles, fingendo un sorriso.
«Non è nulla», rassicurai, poco convincente. «Muoviamoci o faremo tardi a scuola».  
Magari John Lahey non meritava il mio dispiacere – anche se era giusto che fossi sconvolta dal fatto che esattamente un giorno dopo il nostro incontro, lui fosse morto – ma mi capitò di pensare immediatamente ad Isaac e a quanto potesse essere stravolto dalla cosa, nonostante tutto. Ecco perché decisi che quel mattino stesso a scuola gli avrei parlato.
 
Arrivammo a scuola in orario, proprio come da piano. Quando misi piede all’interno della Beacon Hills High School, ero ancora più che convinta di dover parlare con Isaac – perché, non avrei saputo dirlo – perciò non potei che gioire quando Stiles mi salutò velocemente, defilandosi verso la classe di chimica perché dopo la punizione del giorno prima preferiva non arrivare in ritardo a lezione. Certo, mi dispiaceva non poter essere con lui, ma dovevo parlare con Isaac e non c’erano spiegazioni che potessi dare a Stiles – dal momento che non ne avevo nemmeno per me stessa. Semplicemente avevo bisogno di stare sola per un po’.
La mia prima lezione del giorno sarebbe stata con la signorina Morrell, ma dal momento che ancora mancava qualche minuto prima dell’inizio, decisi che ne avrei approfittato per mettermi subito alla ricerca di Isaac. Non lo conoscevo affatto e l’avevo visto solo una volta, ma qualcosa in lui aveva fatto nascere dentro di me un lieve senso di preoccupazione che – inutile dirlo – s’era accresciuto con la notizia della morte del padre.
Vagavo da un po’ quando finalmente lo vidi, intento a trafficare all’interno di quello che aveva tutta l’aria di essere il suo armadietto. I corridoi della Beacon Hills High School erano ancora affollatissimi, ma il suo profilo catturò immediatamente la mia attenzione, per la prima volta dopo ben due mesi passati in quel liceo.
Non potevo vederlo bene, ma giurai che avesse un paio di occhi tristi ancor più del giorno precedente. Forse fu proprio per questa ragione che infine mi decisi a portare avanti la mia decisione e lo raggiunsi. Tuttavia, quando il momento di parlargli fu giunto, mi limitai semplicemente a deglutire rumorosamente e a dondolare sul posto.
Come avrei rotto il ghiaccio? Scoprii solo allora di non essermelo mai chiesto. Proprio come capii che non avrei avuto occasione di trovare una risposta soddisfacente al mio quesito, perché proprio Isaac si accorse della mia presenza accanto a sé e si voltò a guardarmi prima ancora che potessi dire qualcosa.
«Oh», mormorò semplicemente sottovoce, probabilmente riconoscendomi. «Tu sei…».
Sorrisi debolmente prima di completare la frase per lui. Non poteva di certo sapere il mio nome.
«Harriet». Gli porsi una mano e Isaac, seppur titubante, la strinse. «Ero all’interrogatorio, ieri».
«Lo sceriffo ha detto che eri la sua assistente».
«Ci avevi creduto davvero?», domandai velocemente, poco prima di provare il forte impulso di mordermi la lingua.
Stephen aveva mentito ed io ne ero stata pienamente complice. Non era una cosa bella, perciò per quale assurdo motivo avevo ammesso il tutto con così tanta nonchalance? Cosa mi passava per la testa?
«Veramente no», mormorò Isaac dopo qualche minuto, e qualunque mia preoccupazione si dissolse nel momento in cui lo vidi intento a nascondere – con scarsi risultati – un sorrisetto vagamente divertito.
Mi tranquillizzai di riflesso.
«Ti chiedo scusa. Non avrei dovuto esserci».
Pur di continuare a non guardarmi in viso, Isaac si finse improvvisamente impegnato a recuperare un paio di libri dall’armadietto e poi se lo chiuse alle spalle con movimenti lentissimi e poco naturali. Infine fece spallucce, infossando le mani nelle tasche dei jeans.
«Immagino che non importi», disse, e dopo il silenzio c’avvolse ancora.
«Ti ho cercato oggi perché… Ecco, ho scoperto di tuo padre. E volevo che sapessi quanto mi dispiace».
«Oh». A quel punto, la troppa sorpresa fece sì che trovasse il coraggio di fissare gli occhi nei miei ancora una volta. «T-Ti ringrazio. Davvero. È… molto gentile, da parte tua. Grazie».
Il vederlo così poco a suo agio mi intenerì inspiegabilmente, tanto che gli sorrisi – forse in modo un po’ inopportuno. Pensai che avrei dovuto aggiungere qualcos’altro: magari rassicurarlo perché non c’era bisogno che mi ringraziasse così tanto per una gentilezza più che dovuta o chiedergli scusa per la mia fastidiosa invadenza, ma il suono della campanella non mi lasciò il tempo di fare nulla.
«Farei meglio ad andare», mormorai dunque, passandomi nervosamente una mano tra i capelli. «Mi dispiace per... essermi intromessa. Non volevo, davvero. Ci–».
«Harriet», m’interruppe Isaac – c’eravamo scambiati i ruoli: in quel momento ero io quella nervosa e balbettante – compiendo nuovamente il grande sforzo di puntare le sue iridi azzurre sulla mia figura. «Sei solo stata gentile. Nessuno ha osato farmi le condoglianze. Né parlarmi, a dire il vero. Sono… invisibile. Solo un altro viso che tutti dimenticano. Tutti, a parte te».
A malapena repressi l’impulso di boccheggiare. Cos’avrei dovuto dire per non risultare una completa stupida? Dubitavo che ci fossero parole adatte, ecco perché mi risolsi a chinare il capo mentre sentivo le guance andarmi a fuoco. Fu solo in quel momento che notai i libri che Isaac s’era in precedenza tanto affannato per recuperare dall’armadietto e istintivamente sorrisi, di nuovo sollevata. Avevo trovato il modo di cavarmi da quell’impiccio senza ulteriori brutte figure.
«Hai francese?», domandai dunque, sollevando nuovamente lo sguardo su di Isaac mentre puntavo il libro che stringeva tra le mani.
«Sì», rispose lui, dopo averci pensato un po’ su. «Anche tu?».
Annuii, sorridendo.
«Vuoi che andiamo in classe insieme?».
Isaac nemmeno si preoccupò di rispondermi. Semplicemente mi affiancò e insieme ci dirigemmo, in silenzio, verso la classe della signorina Morrell.
 
Un paio di ore dopo raggiunsi il campo da lacrosse nel momento esatto in cui il coach Finstock annunciò con un lungo fischio l’inizio dell’allenamento di quel giorno. Sorrisi, rendendomi conto di essere nuovamente in perfetto orario mentre mi dirigevo verso le gradinate pressoché vuote. Pareva che i ritardi continui del giorno precedente fossero solo un vago ricordo.
Era strano vedere così poca gente agli allenamenti: in genere anche chi non era in squadra si ritagliava del tempo per seguirli e scampare alle lezioni, ma quel pomeriggio d’inizio novembre mi ritrovai invece a farmi spazio su delle gradinate a dir poco desolate. Tuttavia non reputai la cosa un problema e anzi, decisi subito che mi sarei goduta al meglio quella “solitudine” mentre salivo il più in alto possibile e prendevo posto in un punto abbastanza isolato.
Quando riportai gli occhi sul campo, trovai l’allenamento già nel suo pieno svolgimento, nonostante fossero passati solo pochi minuti. Trovare Scott in porta mi stupì e non poco dal momento che quella posizione era sempre toccata a Danny, ma mai come vederlo scattare fuori dal suo posto per correre verso l’attaccante di turno e atterrarlo sul terreno erboso. Di fronte a quella scena la sorpresa fu tanta che per poco non mi sollevai in piedi, rovesciando in terra i libri che avevo posizionato ordinatamente sulle mie gambe.
Mentre il coach prendeva ad urlare come se fosse impazzito, però, mi coprii le labbra con una mano e corsi alla ricerca dello sguardo di Stiles. Se qualcosa stava succedendo lui l’avrebbe di sicuro saputo, ecco perché non appena i nostri occhi s’incontrarono lo squadrai con le sopracciglia aggrottate e le braccia allargate in un muto: «Che diavolo succede?» al quale lui rispose con una veloce scrollata di spalle prima di distogliere lo sguardo dal mio.
Dopo essersi sorbito gli ammonimenti del coach, osservai Scott ritornare in porta a testa bassa e allora cercai di tranquillizzarmi, convinta che non avrebbe più compiuto scatti del genere per paura di qualche ritorsione – più che giusta – da parte di Finstock. Non riuscivo a capire che cosa gli fosse preso, ma decisi che avrei evitato di chiedermelo ancora: questo finché la scena non si ripeté una, due, tre volte ancora.
Quando fu il turno di Isaac di correre verso la porta e Scott – di nuovo – abbandonò la sua postazione per raggiungerlo a tutta forza, non potei più impedirmi di scattare in piedi. I libri che fino a quel momento avevo tenuto stretti sulle mie gambe – facendo sì che le nocche addirittura mi s’imbiancassero – caddero a terra con un tonfo, ma non me ne curai, troppo allarmata dallo scontro che portò Isaac e Scott a cadere l’uno di fronte all’altro sul terreno erboso.
«Scott!», urlai, posizionando entrambe le mani ai lati della mia bocca. «Cosa ti prende?».
Sapevo che non avrei ottenuto risposta, eppure posi quella domanda comunque. Gli occhi di Stiles corsero immediatamente sulla mia figura mentre né Scott né Isaac ricambiarono il mio sguardo. Semplicemente li vidi osservarsi a vicenda finché il coach non interruppe quel momento, fischiando così forte che a confronto le urla che tirò fuori pochi secondi dopo furono del tutto innocue. Tuttavia mi toccò pormi entrambe le mani sulle orecchie, così infastidita da decidere di sgattaiolare via da quel posto e rifugiarmi dentro scuola nell’attesa della lezione successiva di quel giorno.
Mi chinai a raccogliere i libri da terra, attenta a non sgualcirli mentre ancora sentivo Finstock rimproverare Scott. Tuttavia, quando all’improvviso il silenzio scese sul campo da lacrosse – così inaspettato da stupirmi – mi tirai in piedi in fretta e furia perché assolutamente vogliosa di sapere cosa l’avesse causato. O meglio: chi.
Difatti, Stephen Stilinski si muoveva a passo spedito proprio verso il centro del campo, accompagnato da due agenti in divisa e occhiali da sole. Avrei voluto sapere cosa ci facesse lì a scuola, ma il solo riflesso di una chioma bionda e scompigliata m’invogliò nuovamente a squagliarmela. Sapevo benissimo chi fosse e ne ebbi la conferma quando ormai ero già alcuni passi lontana dal campo di lacrosse e Stephen aveva chiamato a raccolta sia Isaac che il coach. Avevo visto il motivo della mia fuga esattamente il giorno prima e la sua presenza invadente e fastidiosa aveva fatto sì che arrivassi in ritardo alla lezione di Harris. Non avrei più permesso che una cosa del genere accadesse. Non gli avrei più permesso di avvicinarmi.
Victor Daehler non meritava nemmeno un quarto dei miei tempo e considerazione.
 
Le parole del professor Fisher m’attraversavano senza che io riuscissi a donare loro un senso. Era praticamente il weekend e di norma la mia mente vagava di già in lidi lontani e per nulla legati alla scuola e alle pesantissime lezioni di fisica. Come se non bastasse, le preoccupazioni che Lydia, Jackson, Isaac, Scott – e , anche Victor – riuscivano a procurarmi, facevano sì che mi distraessi ancor di più.
In genere riuscivo a comprendere concetti fisici anche complicati: mi bastava prestare attenzione alle lezioni ed impegnarmi poi a casa – alla fin fine era tutta questione di cervello ed io ne avevo, proprio come tutti, ma soprattutto decidevo di utilizzarlo. Se invece quel giorno qualcuno mi avesse chiesto di spiegargli la lezione, molto probabilmente avrei fatto scena muta. L’unica cosa che sapessi al riguardo era il tema: la legge di Boyle. E badate, lo sapevo solo perché suddette parole se ne stavano scritte a caratteri cubitali sulla lavagna nera come la pece.
Il professor Fisher gesticolava durante la solita spiegazione prolissa, animandosi ad ogni nuova formula e dimostrando il suo infinito amore per la materia, mentre io lo guardavo con occhi persi, limitandomi ad annuire di tanto in tanto per fingere attenzione. Ero brava a farlo, almeno tanto quanto la mia compagna di banco – una biondina slavata di nome Suzanne, che aveva dimostrato e ammesso candidamente più volte di non capirci niente di fisica nemmeno con tutto l’impegno del mondo. L’unica ragione che la portava a seguire le lezioni del professor Fisher era l’assoluto bisogno di crediti extra.
«In conclusione, possiamo affermare che all’aumento di pressione il volume di un qualsiasi gas diminuisce. E viceversa», blaterò il professore, e sebbene captai quelle sue parole ancora non riuscivo a capirle fino in fondo.
Mi limitai ad incrociare i suoi occhietti neri e quando lo vidi ricambiare il mio sguardo fui costretta a sostenere il contatto visivo. Fisher continuò a parlare e allora annuii, come un perfetto automa.
«Ma», camminò in direzione della lavagna e si mise alla ricerca di uno spazietto vuoto, «la temperatura di suddetto gas dev'essere costante».
Afferrò un gessetto bianco e disegnò un piano cartesiano, poi un quarto di cerchio all’interno di esso.
«Come definiamo trasformazioni di questo tipo?», domandò poi, e subito qualcuno dalle prime file gli suggerì che il nome giusto era “isoterme”.
Quando Fisher si congratulò col ragazzo che aveva risposto, la mia mente ancora non recepiva attivamente ciò che mi succedeva intorno e continuai ad essere distratta anche mentre il professore spiegava che era possibile rappresentare una trasformazione isoterma su un piano cartesiano, esattamente poco tempo prima che chiedesse che tipo di grafico era quello che proprio lui aveva in precedenza disegnato.
Qualunque studente capirà ciò che provai in quell’infinito millesimo di secondo prima che Fisher ritornasse con gli occhi porcini sulla mia figura, pronto a pormi una domanda di cui nemmeno lontanamente immaginavo la risposta. Quando un professore sta per chiamarti interrogato, che sia una cosa seria o meno, te lo senti. E quando non hai idea di come rispondere al quesito posto, ci sono ancora più probabilità che il professore di turno se ne renda conto e decida di chiamare proprio te, sadicamente. Ecco perché ringraziai tutti i santi del Paradiso nel momento in cui il mio telefono prese a squillare.
Normalmente mi sarei vergognata a morte di una dimenticanza del genere: finire in aula senza il silenzioso per poi disturbare la lezione era una cosa che avevo sempre evitato, eppure quel giorno fu una salvezza.
Si svolse tutto così velocemente che a malapena me ne accorsi: semplicemente distolsi lo sguardo dal viso paonazzo di rabbia del professor Fisher e lessi sul display il nome di Stiles. Poi mi misi in piedi alla velocità della luce e mormorando un: «Mi scusi» sincero, sgusciai fuori dall’aula.
Non so cosa successe dopo – se il professore fece commenti o se mi beccai una nota di demerito – perché corsi via così velocemente da addirittura sentire le gambe indolenzite e non mi fermai finché la suoneria del mio cellulare non fece altrettanto, permettendomi di riprendere fiato solo nelle vicinanze della palestra. A quel punto pensai che avrei dovuto approfittarne per richiamare Stiles, ma non ne ebbi il tempo. Un messaggio da parte di Scott m’inchiodò sul posto con due sole semplici parole: Presidenza. Subito.
E allora non feci altro che ubbidire.
 
«Il padre di Isaac è morto. Isaac è uno dei sospettati».
Non è stato lui.
«Non possiamo saperlo, Harry.  Ma dobbiamo aiutarlo comunque. Isaac è un licantropo».
Non ci credo.
«Derek l’ha trasformato. Se anche non ha ucciso il padre, potrebbe compiere un omicidio stanotte. Con la luna piena».
Allison si schiarì la gola rumorosamente e solo allora mi riscossi, gli occhi lucidi e stanchi perché li avevo tenuti fissi nel buio sconfinato della notte, e la gola secca. La osservai distrattamente mentre mi puntava addosso le sue iridi color cioccolato e mi riservava un cenno del capo che recepii a malapena, persa nei miei pensieri com’ero. Tutta quella situazione aveva dell’assurdo. Isaac era un licantropo. Il ragazzino timido e spaventato col quale avevo conversato allegramente quella mattina stessa, l’orfano che aveva denunciato una sparizione di resti dal cimitero di Beacon Hills e che Stephen aveva interrogato proprio a tal proposito. Era un licantropo, anche lui. E gli Argent – non tutti – lo volevano morto.
«Sei pronta?», sibilò Allison, riguadagnandosi almeno un po’ della mia attenzione.
A quella domanda, non potei far altro che annuire. Sapevo cosa ci aspettava e cosa avrei dovuto fare. Lo sapevo perfettamente ed ero consapevole che quella fosse la cosa giusta. Ecco perché quando Allison prese la rincorsa verso l’altro lato della strada deserta, facendo scivolare gli anfibi neri sull’asfalto bagnato dalla pioggia che in quei giorni stava tenendo sotto assedio Beacon Hills, la seguii velocemente senza nemmeno pensarci un po’ su.
Dall’angolino appartato dall’altro lato della strada, ci fermammo ad osservare un uomo vestito da vicesceriffo mentre scendeva giù dalla sua Toyota nera per esaminare le gomme, bucate da delle frecce scoccate perfettamente proprio da Allison. Da un po’ di tempo a quella parte si stava allenando duramente con l’arco, e i risultati si vedevano. Quell’uomo lavorava per gli Argent e il nostro obiettivo era quello di rallentarlo cosicché potessimo giungere ad Isaac per primi.
Ecco perché Allison, dopo aver preso l’ultima briciola di coraggio indispensabile ad agire, si sporse dal muro dietro il quale ci nascondevamo in due e puntò l’arco verso il finto vicesceriffo. Trattenne il respiro qualche secondo e poi scoccò la sua freccia, nessuna traccia di rimorso in vista sul viso dalla pelle chiarissima. Sapeva che fosse la cosa giusta da fare e non se ne pentiva, proprio come me, che non ebbi alcuna reazione di fronte all’urlo di dolore che l’uomo emise nel momento in cui la freccia di Allison gli perforò una coscia. La cosa avrebbe dovuto terrorizzarmi – il non sentire niente – eppure non mi preoccupai affatto. Avevamo vinto quella battaglia e non c’era nient’altro di cui avessi bisogno.
Allison la pensava esattamente come me, anche se evitò di dirlo. Semplicemente sorrise e poi si defilò nel buio della notte, seguita da me che oramai ero divenuta la sua ombra. Raggiungemmo l’auto che Chris e Victoria le avevano regalato per il suo sedicesimo compleanno e solo una volta all’interno telefonammo a Stiles, rassicurandolo. Andava tutto bene. Almeno fino a quel momento.
Ero ancora immersa nel mio speciale limbo d’indifferenza quando raggiungemmo la desolata casa Lahey. Sapevo che ci avremmo trovato Scott – eravamo lì proprio per lui – e preferivo non pensare a ciò che avrei visto. Il mio amico dal viso trasfigurato, schiavo di istinti che a causa della luna piena non riusciva a sopprimere. Continuai a scacciare simili pensieri finché non ci ritrovammo all’interno di un’angusta e buia cantina, piena zeppa di oggetti vecchi e inutili, tutti contornati da un fastidioso velo di polvere.
Ma quando le iridi giallo brillante di Scott si specchiarono nelle mie e potei osservare di sottecchi i canini sporgenti dalle sue labbra chiare, allora capii di non poter più scappare. Dovevo affrontare quella verità divenuta pesante tutt’a un tratto: ecco perché sostenni il suo sguardo finché lui stesso non interruppe il contatto visivo, concentrandosi su Allison. Istintivamente feci altrettanto, osservandola mentre s’inginocchiava di fronte a Scott, un solo borsone nero a dividerli.
«Sei sicuro che sia l’unico modo?», la sentii domandargli con voce flebile, mentre trafficava con le catene all’interno del borsone.
Scott ringhiò una risposta, poi voltò lo sguardo verso il buio alla sua sinistra. Curiosa, puntai la luce della torcia proprio lì e lo spavento che mi provocò ciò che vidi – o meglio, chi – per poco non me la fece scivolare tra le mani. Derek Hale era lì, le gambe lievemente divaricate e le mani infossate nelle tasche dei jeans. Non lo vedevo da quelli che mi sembravano secoli.
Non mi feci domande, ma le risposte arrivarono comunque. Capii infatti che Scott non alludesse a Derek, ma al vecchio congelatore nelle sue vicinanze. Voleva che Allison lo incatenasse lì dentro, e la sola vista di Scott che vi si calava a sedere come se nulla fosse mi strinse il cuore così forte che per un attimo sentii il respiro mancarmi. Fu allora che mormorai delle scuse nemmeno troppo convinte e decisi che sì, dovevo scappare.
Risalii i gradini in legno con gambe traballanti e mi permisi di liberare un sospiro solo quando credetti di essere sola. Ecco, appunto: credetti.
«Che ti è preso?», mi domandò la voce ormai familiare di Derek, e d’istinto sobbalzai, voltandomi a fronteggiarlo alla velocità della luce.
Sapevo che non l’avrebbe mai ammesso, ma era preoccupato per me. Me lo dicevano i suoi occhi, il tono di voce e la camminata che stava tenendo per seguirmi all’interno della piccola dimora Lahey. Ecco perché provai a tranquillizzarmi, regolarizzando respiro e battito cardiaco prima di parlare.
«Come fai ad essere così tranquillo?», chiesi, sperando di distogliere la sua attenzione dalle inutili preoccupazioni che nutriva nei miei confronti – anche se decideva di non mostrarle.
Quando lo vidi scrollare le spalle, capii di aver “vinto”.
«Gli alpha hanno un maggiore autocontrollo», spiegò, avvicinandosi a me. «Anche durante la luna piena».
Aveva capito subito che mi riferissi a quello e non avevo nient’altro da chiedergli al riguardo, ecco perché incrociai le braccia al petto e gli diedi le spalle, rivolgendo lo sguardo proprio alla tonda e brillante luna, alta nel cielo nero puntellato di stelle. Me ne rimasi in silenzio per un po’, lasciandomi trasportare ancora dal filo dei miei pensieri finché una domanda non si presentò insistente a farmi visita.
«Credi che Isaac sia colpevole?». La pronunciai a voce alta, porgendola a Derek perché io non sapevo darmi risposta.
Non potevo vederlo in viso, ma qualcosa mi comunicò che fosse intento a scuotere la testa.
«Nient’affatto», mormorò, avvalorando la mia tesi. «Io so che è innocente. Lo sa anche Scott, grazie ai suoi sensi. Ma la polizia non la penserebbe altrettanto se dovesse visitare questa casa».
Istintivamente aggrottai le sopracciglia. Distolsi lo sguardo dalla finestra e sciolsi la morsa soffocante in cui avevo tenuto le braccia fino a quel momento. Osservai Derek con la stessa espressione di confusione comparsa a farmi visita nel momento in cui aveva smesso di parlare. Cos’aveva casa Lahey che non andava? Lo chiesi subito a Derek.
E: «Non c’è niente che io possa dire per certo», mi rispose lui, scrollando le spalle prima di riprendere a parlare. «Ma scommetto che nel profondo, i tuoi sospetti sono simili ai miei. E che i lividi di Isaac non hanno fatto altro che avvalorare la tua tesi».
Subito sentii una specie di peso morto cadermi nel petto e appesantirlo così tanto che di nuovo, nel giro di pochi minuti, avvertii il respiro mancarmi e fui costretta a sgranare le labbra per guadagnarne almeno un po’. Un pizzicore piuttosto familiare m’infastidì gli occhi, che avvertivo già umidi e pronti a liberare delle lacrime più di disgusto che di dispiacere. I miei sospetti erano fondati. John Lahey maltrattava suo figlio.
«C’erano…», pigolai interi attimi dopo, ma la voce mi venne a mancare e interruppi quella domanda, schiarendomi la gola prima di riprendere. «segni di lotta? Qui?».
Negli occhi verdi di Derek passò un’ombra indecifrabile. Non capivo cosa avesse, ma ancora una volta pensai che fosse “semplicemente” preoccupato per me. La cosa mi mise più a disagio di quanto mi sarei mai aspettata.
Derek annuì, distogliendomi dai miei pensieri. Poi mi donò la risposta che desideravo.
«Di sotto specialmente. Il congelatore in cui si è fatto calare Scott è pieno di graffi, incrostati di sangue. Pare non sia il primo ad occuparlo». A quelle parole, un fiotto di bile tentò di risalirmi in gola, ma lo scacciai via con successo. «E qui in cucina c’erano bicchieri e piatti rotti, dappertutto. Me ne sono liberato».
Ben fatto, avrei voluto dirgli. Ma non ne trovai la forza. Perciò portai avanti l’argomento principale, seppur a fatica.
«Dobbiamo far sparire anche il congelatore. Se la polizia lo trovasse, avrebbero un movente servito su un piatto d’argento e per Isaac non ci sarebbe più via d’uscita», mormorai flebilmente, con grosse pause tra una parola e l’altra.
Derek si rese perfettamente conto del mio immenso sforzo, ma non fece nulla per farmelo notare né pesare. Semplicemente, annuì non appena finii di parlare.
«Me ne occuperò non appena la luna piena sarà passata», rassicurò, e prima ancora che potessi aggiungere qualcos’altro, il mio cellulare prese a squillare dal fondo della borsa.
Mi feci lontana da Derek quanto bastava a nascondergli le mie mani tremanti intente a recuperarlo, poi un senso di sollievo prese possesso di me nel momento in cui lessi sul display il nome di Stiles.
«Ehi…», non potei fare a meno di sospirare non appena ebbi risposto, giusto un attimo prima che Stiles mi sommergesse con i vari: «Come stai?» e «Tutto bene?» concitati.
Cercai di rassicurarlo nel modo più convincente che potei, ma non riuscii a raggiungere il mio obbiettivo, tanto che dopo un lungo silenzio Stiles si risolse a chiedermi: «Vuoi che ti venga a prendere?».
Avevo bisogno di lui e come al solito, l’aveva capito.
«Sì». Ti prego.
 
Quando Austin ci riservava una delle sue solite seratine noiose, io e Danielle decidevamo puntualmente di scampare alla noia comportandoci da perfette cretine. Ci divertivamo così ed andava bene: eravamo capaci di passare serate intere ridendo a crepapelle per immense stupidaggini, salutare persone che con conoscevamo solo per il gusto di sorbirci poi le loro occhiatine confuse oppure giocare al gioco di “indovina che vita”. Praticamente, prendevamo di mira una persona alla volta e da un solo sguardo provavamo ad indovinare che lavoro facesse, se fosse ricco o povero, se avesse figli o meno, ecc. Per l’appunto, provavamo ad indovinarne la vita.
Fu esattamente ciò che mi ritrovai a fare quella sera, stravaccata nel sedile che fino a pochi minuti prima aveva occupato Derek. Stiles era venuto a prendermi a casa Lahey perché insieme ci dirigessimo alla centrale di polizia e anche se non so ancora spiegarmi perché, avevo chiesto a Derek di accompagnarci. Lui aveva acconsentito, occupando il posto di fianco a Stiles nel quale ero prontamente sgusciata io nel momento in cui li avevo visti scendere entrambi.
Il piano era quello di aprire la cella di Isaac per liberarlo. Per riuscirci, Stiles avrebbe dovuto procurarsi la chiave, tenuta insieme alle altre nell’ufficio di Stephen, in una cassetta di sicurezza. All’entrata c’era una donna di colore intenta a sorvegliare i movimenti di ognuno: Stiles non poteva raggiungere l’ufficio del padre senza eluderne l’attenzione, ecco perché l’aiuto di Derek si era rivelato opportuno. Avevo osservato proprio lui poggiarsi contro il bancone in modo fintamente rilassato mentre distraeva con chiacchiere futili la bella donna; in realtà non era per nulla a suo agio nel fare amicizia e me lo comunicarono perfettamente le spalle tese sotto la giacca in pelle nera.
Il passo concitato di una ragazzetta dai lunghi boccoli scuri attirò la mia attenzione e allora le rivolsi uno sguardo, decidendo che per evitare una spiacevole morte provocata dall’infinita noia avrei ripreso a giocare ad “indovina che vita”. Né Derek né Stiles avevano voluto che li seguissi all’interno della centrale, un po’ per non destare sospetti e un po’ perché avevano bisogno di qualcuno che facesse da palo all’esterno e che potesse tenere la situazione sott’occhio proprio da lì. Ecco perché avevo acconsentito senza fare troppe storie, anche se mi stavo annoiando a morte.
La ragazzina aumentò il ritmo dei suoi passi prima di sorpassare la Jeep e sparire dal mio campo visivo e allora mi misi all’opera, costruendo congetture su quanti anni avesse, che scuola frequentasse, se fosse fidanzata e cose così. Tuttavia, quella volta non trovai una soluzione al gioco né esso riuscì a portarmi il suo solito divertimento. Al contrario m’immobilizzai con gli occhi fissi in un punto morto nel momento in cui realizzai la terribile somiglianza che legava quella sconosciuta ad Allison.
Quel nome fece scattare un sonoro campanello d’allarme nella mia mente. Come stava? Era ancora sola con Scott? Col trasformato Scott? Dal momento che l’avevo lasciata a casa Lahey per seguire Derek e Stiles non potevo saperlo, ma sperai comunque che stesse andando tutto per il meglio mentre mi stringevo un po’ più forte nel cappotto a quadri.
Credetti di aver raggiunto una nuova forma di tranquillità diversi – e noiosi – attimi dopo, ma capii immediatamente che suddetta sensazione non sarebbe durata poi molto nel momento in cui il suono della campana d’allarme proveniente dalla centrale cominciò a rimbombarmi nelle orecchie seguito dal mio cuore palpitante, che prese a battere così forte che temetti mi sarebbe scoppiato nel petto da un momento all’altro.
Di fronte a quel vero campanello d’allarme non me lo feci ripetere due volte: feci pressione sulla maniglia dello sportello quel tanto che bastava ad aprirlo e poi sgusciai fuori dalla Jeep azzurro cielo, preoccupandomi a malapena di richiudermi lo sportello alle spalle con un tonfo leggero. Corsi così forte in direzione della centrale di polizia che sentii quasi il cuore risalirmi in gola, ancora più che intento a battere furiosamente, in preda all’ansia e alla paura.
Ancora non so come ci riuscii, ma raggiunsi Stiles in relativamente poco tempo. Sì, Stiles, perché era di lui maggiormente che mi preoccupavo. Sapevo che Derek se la sarebbe cavata benissimo anche da solo e me lo confermò il vederlo piuttosto tranquillo di fronte ad un Isaac dal viso trasfigurato pronto a dirigersi verso Stiles, accasciato sul pavimento verde bottiglia della centrale. Terrorizzata, provai il tremendo impulso di urlare, ma prima ancora che potessi riuscirci Derek schiacciò sotto la suola delle scarpe una grande siringa in vetro e poi liberò un ringhio potentissimo, gli occhi rossi brillanti e i canini bene in vista.
La risposta di Isaac non si fece attendere: da mostro desideroso di uccidere si trasformò immediatamente in cucciolino smarrito e lo osservai accucciarsi sul pavimento con la testa nascosta tra le mani mentre un improvviso moto di tenerezza prendeva possesso di me. Era quello il potere di un alpha? Me lo chiesi a lungo, lo sguardo terrorizzato ancora puntato sull’ampia schiena di Derek. Continuai così finché Stiles non parlò, attirando nuovamente la mia attenzione su di sé.
«Come hai fatto?», boccheggiò, scoccando un’occhiatina nella direzione di un Isaac dal viso sudato e dagli occhi nuovamente azzurri e tristi.
«Sono un alpha», furono le uniche parole che si lasciò sfuggire Derek, ancora tranquillo proprio come se nulla fosse successo.
E allora non potei far altro che annuire. Era un alpha e si vedeva. Tuttavia, ciò non attenuava affatto la mia immensa confusione.
 
 
 
 
All my life I’ve been good but now,
oh – I’m thinking: “What the Hell?”.
 
 
 
 
Ringraziamenti
Mi aspettavo un'accoglienza diversa per questo sequel, è inutile negarlo, ma probabilmente è stata colpa mia dato che ho fatto trascorrere troppo tempo tra questo e parachute. Pazienza.
Ringrazio comunque
gilraen_white che è stata tanto buona da lasciarmi due parole sul primo capitolo, e anche chiunque abbia inserito la storia tra le seguite. Spero possa piacervi quanto e più del prequel. D'ora in poi (almeno finché avrò capitoli pronti) gli aggiornamenti avverranno ogni domenica.
 
Note
La canzone citata/titolo è quella di Avril Lavigne,
What the Hell?. Ci tengo a specificare che – nemmeno in questo caso – tutta la canzone è collegata al capitolo, proprio come non lo era Sirens in quello scorso. Semplicemente la frase citata mi è sembrata adatta ed eccola qui.
 
 
 
 
   
 
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