STAY OR
LEAVE?
Are you justified, are you justified, are you
justified?
Justified in taking life to save life
Life to save life, life to save life
Human kind has reached a turning point
Poised for conflict at Ground Zero
Ready for a war
Do we look to our unearthly guide
Or to white coat heroes
Searching for a cure
Turn to the light
Don't be frightened of the shadows it creates
Turn to the light
Turning away would be a terrible mistake
We're reaching
But have we gone too far
Sei
giustificato?
Sei giustificato?
Sei giustificato?
Giustificato a prendere
Una vita per salvare una vita
Una vita per salvare una vita
Una vita per salvare una vita
La razza umana ha raggiunto un punto di svolta
È pronta per il conflitto a Ground Zero
Pronta per una guerra
Guardiamo alla nostra guida ultraterrena
O agli eroi dal camice bianco
Alla ricerca di una cura
Mettiti
d’impegno per avere la luce
Non aver paura delle ombre che crea
Mettiti d’impegno per avere la luce
Voltare lo sguardo sarebbe un terribile errore
Lo stiamo raggiungendo
Ma siamo andati troppo lontano
*«Penso che ci meritiamo un
drink».
«Prendine uno per
me».
«Ehi… lo
supereremo».
«Io non entrerò».
«Ascolta… se hai
bisogno del perdono, te lo darò io. Sei perdonata. Ti prego vieni dentro».
«Prenditi cura di
loro per me».
«Clarke… ».
«Vedere le loro
facce ogni giorno mi ricorderà soltanto cosa ho fatto per riportarli qui».
«Cosa abbiamo
fatto. Non devi farlo da sola».
«Porto io il
fardello, così che loro non debbano farlo».
«Dove andrai?».
«Non lo so».
«Fa che ci
rincontreremo».
«Fa che ci
rincontreremo».*
[Bellamy]
Erano
trascorse dieci lunghe settimane da quel giorno, ma quelle parole erano rimaste
incise a fuoco nella mente di Bellamy, che non faceva altro che ripercorrere
quella conversazione nella sua testa da allora. Ogni volta che chiudeva gli
occhi, ogni volta che era solo, in realtà non lo era, perché Clarke era lì con
lui.
Molte
cose erano cambiate in quell’arco di tempo e il ragazzo non poteva fare a meno
di chiedersi che fine avesse fatto la sua co-leader. Perché Clarke era questo.
Era solo con e grazie a lei che era riuscito a portare in salvo la sua gente.
Poco
a poco, aveva realizzato il fatto che lui senza di lei non sarebbe andato molto
lontano, così come anche lei non sarebbe riuscita a portare in salvo tutti
senza di lui.
Erano
partiti dall’odiarsi, ma di strada ne avevano fatta. Tra alti e bassi,
vittorie, sconfitte e morte dilagante,
avevano sempre superato tutto.
Insieme.
Quella
parola parve rimbombare nella sua testa. Ricordò la mano di Clarke, incerta
sotto la sua, su quella leva che poi avevano tirato nello stesso momento,
quando avevano deciso che mettere fine alle vite di trecento persone, tra cui
dei bambini, sarebbe stato un prezzo accettabile per riuscire a portare in
salvo la loro gente.
Persone
innocenti.
Persone
che li avevano aiutati.
Persone
che non c’entravano nulla con quella maledetta faida.
Sì.
Non c’era altro modo, avevano dovuto farlo.
Ma
Clarke ne era rimasta schiacciata, schiacciata dal peso di quella responsabilità.
Schiacciata da quella morte che, con lui, aveva provocato.
E
probabilmente si sentiva ancora sporca del sangue di Finn.
L’aveva
pregata, l’aveva implorata di restare. Le aveva offerto il suo perdono
esattamente come lei aveva fatto con lui, i primi tempi in cui erano atterrati
sulla Terra, quando ancora il resto degli abitanti dell’Arca non li aveva
raggiunti.
Quando
ancora Mount Weather era solo un posto in cui credevano che avrebbero trovato
cibo e riparo. Dio, quanto si erano sbagliati. Il Monte in realtà si era
rivelato tutto tranne che un posto sicuro per loro. Una trappola mortale dalla
quale erano usciti, e neanche tutti, a un prezzo troppo caro.
La
differenza tra loro era che Bellamy era tornato indietro. Aveva accettato il
suo perdono, facendo ritorno al loro vecchio campo, alla navicella. Lei non ce
l’aveva fatta. Era arrivata all’ingresso di Camp Jaha, ma non aveva
oltrepassato i cancelli.
Gli
aveva voltato le spalle senza girarsi indietro per un secondo e quel fatto
aveva ferito Bellamy più profondamente di quanto avesse lasciato intendere a
chi, ora, gli stava intorno. Più di quanto credesse lui stesso.
E
adesso era ancora lì: bloccato nel loro campo, che dal giorno della caduta del
Monte non avevano fatto altro che rinforzare, rendendolo sicuro da eventuali
attacchi esterni. Perché ci sarebbero state ritorsioni, lui lo sapeva.
Conosceva Lexa, sapeva quanto diffidente fosse nei confronti di chiunque,
l’aveva vista uccidere una persona che per lei avrebbe dato la vita.
Ed
era certo che si sentisse minacciata dalla loro presenza, specialmente dopo il
suo tradimento a favore degli uomini della montagna.
Bellamy
non l’aveva perdonata. Se avesse rispettato i patti, probabilmente non ci
sarebbe stato nessun massacro. Probabilmente Clarke sarebbe stata ancora lì.
Non sapeva come avrebbe reagito se lui e il comandante dei terrestri avessero
nuovamente incrociato le loro strade.
«Bellamy…
» la voce di Octavia lo distrasse dai suoi pensieri.
Eccola
lì: la sua sorellina. Non sapeva però, se in realtà avesse ancora il diritto di
definirla tale. Ormai Octavia era cresciuta, aveva affrontato la guerra,
affrontato la morte, vissuto l’amore. Tre cose che forse non si addicevano
ancora ad una ragazzina di sedici anni dopotutto.
I
capelli legati in trecce sottili, il viso pulito, dopo che per settimane aveva
portato i segni tipici del popolo della Terra.
Non
si era mai fidata di Lexa e qui, forse, era stata più sveglia di lui e di
Clarke messi insieme, ma in seguito all’abbandono di Indra; Octavia si era
sentita persa. Non sapeva più a cosa appartenesse. Non si sentiva completamente
parte né dell’uno né dell’altro popolo. Bellamy conosceva abbastanza bene sua
sorella da averlo capito, così un giorno era andato da lei, dicendole che non
importava a quale dei due popoli credesse di appartenere o meno. Se non
riusciva a capirlo, le aveva assicurato che, in ogni caso, sarebbe stata sempre
sua sorella e quello era il suo posto. Al suo fianco. Al fianco di Lincoln.
Quello bastava.
Il
moro si voltò, incontrando gli occhi chiari di lei.
«Abby
e Kane ti cercano» aggiunse poi la ragazza.
Era
avvolta in una giacca pesante che avevano portato con loro dal Monte. Ormai era
inverno inoltrato e il freddo era tanto pericoloso quanto avrebbe potuto
esserlo un attacco da parte dei terrestri. Aveva già fatto almeno venti
vittime, per lo più bambini e anziani che erano sopravvissuti allo schianto
dell’Arca sulla Terra. Qualche polmonite aveva ucciso persino uomini adulti e
forti.
Bellamy
sospirò pesantemente e una nuvola di condensa bianca fuoriuscì dalle sue
labbra.
Di
nuovo, il pensiero tornò a Clarke.
Aveva
trovato un rifugio sicuro? Riusciva a coprirsi durante quell’inverno così
rigido? Aveva abbastanza cibo? Abbastanza acqua?
Si
premette una mano sulle tempie e, seguito da Octavia, si avviò verso l’ingresso
dell’Arca, diretto a quella che avevano adibito a sala riunioni.
Come
sempre, passarono ore a parlare di come affrontare l’inverno, ancora lungo
davanti a loro e di quanto ormai le battute di caccia fossero sempre meno
fruttuose, di come avrebbero fatto una volta tornata la primavera, in caso di
nuove battaglie ingaggiate dai terrestri.
Abby
sembrava provata, Kane aveva due occhiaie profonde e Bellamy non poteva certo
biasimarli. Anche lui era stanco. Tanto.
Una
squadra partì dal campo un quarto d’ora dopo, nella speranza di tornare con
qualcosa che potesse aiutarli a sfamare tutte quelle persone e Bellamy scivolò
dietro di loro cercando di non farsi notare.
Era
da tempo ormai che lo faceva. Seguiva gli uomini per un po’ e dopo cambiava
strada, cercando di esplorare sempre nuovi posti. Forse sarebbe riuscito a
trovare una nuova zona in cui cacciare o un corso d’acqua in cui pescare.
Lincoln si univa spesso alle battute di caccia data la sua profonda conoscenza
di quei posti, ma non si arrischiava mai di tornare troppo vicino al campo di
Lexa.
Sapeva
che dopo il lancio del razzo, ora i terrestri stavano cercando di ricostruire
Tondc, ma Bellamy era quasi certo del fatto che il comandante non si trovasse
lì. Era sicuro che Lexa fosse altrove. Dove di preciso non lo sapeva e nemmeno
ci teneva a scoprirlo.
Camminò
a lungo nel folto della foresta fino ad arrivare ad una grotta che non aveva
mai visto ancora.
C’era
un giaciglio di fortuna, una coperta logora e un focolare che ormai sembrava in
disuso. Quel posto doveva essere abbandonato da tempo. Fuori ormai era buio,
così decise che per quella notte sarebbe rimasto lì anche se il suo stomaco ne
avrebbe risentito.
Ad
un tratto però si accorse di qualcosa che non aveva notato: sulla parete di
fronte a lui c’erano dei disegni. Bellamy si avvicinò.
C’era
la navicella con la quale erano atterrati, un cervo a due teste, una figura che
sembrava trafitta da una lancia e molte altre immagini che seguivano,
riempiendo il muro.
Si
trovava, si accorse il ragazzo, di fronte ad ogni avvenimento che fosse
accaduto da quando erano arrivati sulla Terra.
Clarke, pensò allora.
Non
poteva trattarsi che di lei. Ormai quella grotta sembrava abbandonata da tanto,
ma era certo che la ragazza fosse rimasta lì per parecchio.
Provò
a cercare in mezzo a tutti quei disegni qualcosa per capire dove potesse
trovarsi adesso, ma niente. Lì c’era solo il passato, nulla su dove potesse
essere ora.
Ma
d’altra parte… che cosa credeva di fare? Mettersi alla sua ricerca e convincerla
a tornare indietro con lui dicendole qualche bella parola? No, aveva imparato a
conoscere Clarke abbastanza bene da capire che non sarebbe bastato. Il senso di
colpa opprimente non l’avrebbe abbandonata e forse, un giorno, quando sarebbe
stata pronta, sarebbe stata lei a decidere di tornare.
Svariate
volte Bellamy aveva pensato di uscire a cercarla, ma a quale scopo? Dubitava
che sarebbe stato in grado di farle cambiare idea. Non sarebbe successo.
Con
quei pensieri, usò qualche ceppo di legno lasciato lì da Clarke per accendere
un fuoco per riscaldarsi in quella notte fredda, dopodiché si stese sul
giaciglio e spiegò la coperta su di sé. Era così sottile… forse era stato per
questo che Clarke era andata via da lì. Quando il freddo aveva cominciato a farsi
più intenso aveva capito che una misera coperta e un focolare non sarebbero
bastati a darle riparo per i mesi più rigidi ed era andata via.
Bellamy
almeno sperò che fosse così, perché alle alternative non voleva pensarci.
Impiegò
poco per addormentarsi, la testa ancora piena di dubbi e idee e lo stomaco
vuoto a fare da sottofondo.
Quando
si svegliò, il mattino successivo, il fuoco era quasi spento e lui rabbrividì.
Faceva maledettamente freddo. Ravvivò le fiamme e si scaldò un poco prima di
uscire dalla grotta. Voleva cercare qualcosa da mangiare. Voleva tornare al
campo. Voleva trovare Clarke. Voleva troppe cose, dunque scelse: sarebbe andato
a caccia, ormai sembrava essere rimasta l’unica cosa che gli riusciva bene.
Gli
alberi erano spogli, non sarebbe riuscito a raccogliere niente. Lincoln gli
aveva mostrato qualche bacca che cresceva da quelle parti in inverno, ma ne
trovò soltanto di diverse e non si fidò a mangiarle, avrebbero anche potuto
essere velenose per quanto ne sapeva.
Ad
un tratto udì un lieve fruscio alle sue spalle, si voltò di scatto e intravide
un grosso uccello. Non sapeva cosa fosse, sapeva soltanto che erano settimane
che non gli capitava un’occasione del genere e, senza pensarci due volte,
estrasse silenziosamente il suo coltello e lo lanciò con estrema precisione in
direzione dell’animale, colpendolo al collo.
Il
brivido della caccia lo aveva sempre eccitato, ma da quando era diventata
sopravvivenza, si era trasformato in qualcosa di più.
Si
avvicinò a grandi passi e tirò fuori il coltello insanguinato. Era stato un
colpo netto: lo aveva ucciso immediatamente.
Mangiare
carne per colazione non era il massimo, ma erano sulla Terra ormai, niente
avrebbe cambiato quel fatto e poi sarebbe stato certamente meglio di qualsiasi
pasto avesse mai avuto sull’Arca. Lì tutto sapeva di stantio.
Tornò
alla grotta tenendo l’uccello per le zampe e lo ripulì, tenendo tutto ciò che
poteva essere mangiato. Mise le piume da una parte e il resto lo scartò. Le
piume potevano essere utilizzate per fare l’imbottitura di qualche coperta,
ormai dovevano arrangiarsi come potevano.
Mangiò
di gusto dopo aver cotto la carne e finalmente il suo stomaco smise di
lamentarsi. Adesso che era in forze doveva rimettersi in cammino, non sapeva
per dove di preciso.
Camminò
a lungo, ripensando alle ultime settimane. Ecco, una cosa che lo preoccupava
era Jasper.
Il
ragazzo si era totalmente chiuso in sé stesso. Aveva tagliato i ponti con lui e
Monty, in giro si vedeva di rado e le uniche che riuscivano a parlargli di
tanto in tanto erano Raven e Octavia. Non c’era più traccia del ragazzino con
gli occhiali che era arrivato sulla Terra, la morte di Maya sembrava averlo
toccato nel profondo.
Non
aveva mai chiesto che fine avesse fatto Clarke, non sembrava importargliene un
granché. E Bellamy come poteva biasimarlo? Avevano ucciso la ragazza di cui era
innamorato, il suo odio nei loro confronti era giustificato eccome.
Ripensò
a Maya. Al fatto che se non fosse stato per lei, a quest’ora sarebbe morto da
un pezzo, appeso a testa in giù e dissanguato nel Monte e quel pensiero gli
fece tornare su il pasto che aveva appena consumato. Sì, l’aveva uccisa lui.
Come poteva convivere con una cosa del genere? Sotto questo punto di vista…
capiva perché Clarke se ne fosse andata via.
Camminò
e camminò a testa bassa, senza vedere dove stesse andando, quando ad un tratto
si ritrovò davanti qualcosa che lo lasciò a dir poco stupito.
Alti
tronchi a fungere da mura, rumori oltre quella fortificazione, voci, lamenti.
Bellamy
non sapeva come diavolo fosse arrivato fin lì, non aveva mai scoperto quel
posto in tutti i suoi giri di ricognizione e nemmeno le varie squadre che erano
partite l’avevano mai trovato, altrimenti ne avrebbero sicuramente parlato
nelle riunioni.
Il
ragazzo voleva saperne di più, ma le mura erano troppo alte perché riuscisse a
vedere oltre, dunque cercò un albero che fosse sufficientemente alto e al
contempo frondoso abbastanza da permettergli di nascondersi.
Ne
individuò uno e, con calma, iniziò a salire, lo zaino in spalla e il fucile a
tracolla.
Certo,
non fu semplice, ma alla fine ci riuscì. Si mise a cavalcioni su un ramo solido
e puntò il fucile verso quello che sembrava una sorta di piccolo villaggio,
osservando attraverso il mirino.
C’era
un gran movimento lì dentro e anche un gran vociare. Sembrava che ci fossero
dei feriti.
Tende
e piccole costruzioni in legno erano sparse nell’area recintata, ad occhio e
croce poteva ospitare circa duecento persone. Più di quanto fossero loro.
Ad
un tratto una parola in particolare catturò la sua attenzione.
«Comandante!».
Bellamy
aprì bene le orecchie.
E
dunque… era lì che si nascondeva Lexa.
Tolse
la sicura al fucile e osservò con attenzione.
Una
figura incappucciata e avvolta in un mantello scuro uscì da una costruzione di
legno. L’unica parte del corpo visibile erano le mani… ed erano insanguinate.
Ma
che diavolo succedeva lì dentro?
Puntò
alla figura che si muoveva velocemente verso la persona che l’aveva chiamata.
Era stata una voce femminile e solo allora Bellamy si accorse di quanto
familiare gli fosse quella ragazza. Lui l’aveva già vista, all’interno di Mount
Weather, lo aveva aiutato contro Lovejoy. Echo.
La
figura incappucciata si arrestò di fronte a lei, dicendole qualche parola. Il
moro ce l’aveva sotto tiro, un colpo al collo e tutto sarebbe finito. Stava per
sparare, ma ad un tratto la sagoma si
voltò verso di lui e abbassò il cappuccio.
Per
Bellamy fu uno shock.
Il
viso scavato e pitturato dei classici segni tipici del Popolo della Terra, la
strana treccia ad acconciarle i capelli, gli occhi chiari, privi della luce che
una volta brillava così ardentemente.
Era
Clarke.
Per
la sorpresa quasi rischiò di cadere dall’albero, ma non poteva farsi scoprire.
Non ora. Rimase a guardarla, basito. Quella non era la Clarke che aveva
conosciuto lui. Sembrava aver perso almeno dieci chili e nei suoi occhi non vi
era traccia di alcuna umanità.
Piano,
scese dall’albero e si sedette ai suoi piedi. Che cosa poteva fare? Sospirò
pesantemente, il freddo gli penetrava fin dentro le ossa ed il ragazzo si sentì
spaesato. Non poteva negarlo, aveva immaginato diverse volte il modo in cui
avrebbe incontrato di nuovo Clarke, un giorno.
Ma
questo… questo non rientrava in nessuno degli scenari che aveva mai preso in
considerazione.
Era
così preso da quei pensieri che nemmeno si accorse di un rumore alle sue
spalle.
Dopodiché,
tutto divenne buio.
Gli
faceva male la testa. Che diavolo era successo? Non capiva dove si trovasse,
era un piccolo ambiente poco illuminato, una tenda, comprese poi. Aveva un
senso di nausea a dir poco fastidioso e quel poco che riusciva a vedere era
come se fosse sdoppiato.
Provò
a parlare, ma gli uscirono solo dei gorgoglii indistinti. Un attimo dopo sentì
un lieve fruscio e una sagoma entrò nel suo campo visivo, reggendo una torcia.
Fu
solo quando si chinò su di lui che Bellamy la riconobbe: Clarke.
Provò
nuovamente a parlare, a chiamarla, ma di nuovo, ciò che gli venne fuori fu solo
un rantolo strozzato.
«Hai
una commozione cerebrale Bellamy. Non agitarti» disse lei e quella voce, alle
orecchie del ragazzo, suonò fredda e distaccata.
Annuì,
cercando di calmarsi. Sapeva che provare di nuovo a parlare avrebbe solo
peggiorato le cose, accrescendo il suo senso di nausea e aggravando quel
tamburellio che sembrava volergli perforare le tempie.
Osservò
le due sagome che vedeva con la forma di Clarke, cercando di capire quale fosse
quella reale e quale fosse dovuta al trauma e soltanto quando lei gli posò un
panno tiepido sulla fronte riuscì a distinguerla.
In
quel momento, un altro dei suoi sensi venne sollecitato: l’olfatto.
Improvvisamente Bellamy sentì un odore pungente, dolciastro e nauseante, che
sembrava provenire proprio da Clarke. Provò a ritrarsi, infastidito.
«Mentre
ti portavamo dentro mi hai vomitato addosso» spiegò lei in tono piatto e in
quel momento Bellamy si sentì sprofondare, anche se Clarke non sembrava farci
particolarmente caso. Poi la ragazza riprese: «Quello che è successo è stato un
malinteso, il mio uomo forse c’è andato giù un po’ troppo pesante. Non è la prima
volta che veniamo attaccati».
La
mente di Bellamy era confusa. Il suo uomo? Attaccati? Un malinteso? Di cosa
diavolo stava parlando?
Il
ragazzo voleva capirne di più, ma la sua mente era troppo annebbiata e sapeva
che fare domande sarebbe stato inutile.
«Domani
ti sentirai meglio, per stanotte resterai qui. Verrò a cambiarti la medicazione
ogni due ore per evitare che faccia infezione».
Bellamy
aggrottò leggermente le sopracciglia. Quella ragazza aveva solo vagamente le
fattezze fisiche di Clarke, ma per il resto… il suo tono era impersonale e
assolutamente privo di qualsiasi inflessione. Come se quelle parole uscissero
da una macchina.
Lui
si limitò ad annuire, sapeva che tentare di farsi capire sarebbe stato inutile.
L’indomani,
quando sarebbe stato meglio, avrebbe avuto le sue risposte.
[Clarke]
Quando
Argos l’aveva informata che aveva catturato un prigioniero non distante dal
loro accampamento, Clarke non ne era rimasta sorpresa. Non era certo la prima
volta.
Lo
stupore era arrivato quando aveva visto di chi si trattava: Bellamy.
Erano
trascorse dieci lunghe settimane dall’ultima volta in cui aveva incrociato gli
occhi scuri del ragazzo, che ora si trovava legato ad un palo con la testa
insanguinata.
Aveva
immediatamente ordinato di slegarlo e di portarlo nella sua tenda, dove aveva
provveduto a constatare che aveva una commozione cerebrale, ma nulla di grave.
Probabilmente avrebbe passato una notte infernale e se la sarebbe cavata con un
gran mal di testa per i giorni successivi.
Clarke
lo aveva ripulito, usando una mistura di erbe che ormai aveva imparato a
conoscere per preparare una sorta di antibiotico e fare in modo che così la
ferita aperta non si infettasse. Aveva dovuto aspettare che smettesse di
sanguinare prima di poterlo ricucire e per fortuna, nel mentre, il ragazzo non
si era risvegliato.
Solo
diverse ore dopo aveva sentito un sorta di verso agonizzante provenire
dall’interno della tenda fuori dalla quale era appostata, così era entrata e lo
aveva trovato sveglio.
Gli
aveva brevemente fatto il punto della situazione, spiegandogli che se si fosse
agitato avrebbe solo ottenuto come risultato quello di peggiorare le sue
condizioni e così lui aveva provato a rilassarsi, ma Clarke lo conosceva fin
troppo bene per non capire quanto fosse desideroso di avere delle risposte.
La
sua fortuna era che per il momento, qualunque cosa Bellamy dicesse, sarebbe
risultata incomprensibile.
Con
estrema delicatezza prese il volto del moro tra le mani e lo girò dal lato
della ferita. Doveva cambiare la medicazione.
Poco
a poco tolse il bendaggio dalla sua testa con movimenti rapidi e mani esperte
di chi ormai aveva ripetuto quei gesti fin troppe volte, prese una bacinella
con dell’acqua pulita e, con un panno umido, sciacquò la fronte del ragazzo
ripulendola dai residui dell’impiastro precedente.
A
quel contatto Bellamy parve rilassarsi leggermente.
Clarke
pestò le erbe che aveva in un altro catino e aggiunse un altro po’ d’acqua,
trasformandole in una sorta di pomata che tornò a spalmare sulla sua ferita.
Fasciò
di nuovo il tutto e, prima che uscisse dalla tenda, Bellamy si era già
addormentato.
Una
volta fuori, l’aria pungente della notte la investì.
Doveva
togliersi quei vestiti di dosso prima che l’odore terribile di cui erano impregnati
cominciasse ad attaccarsi anche su di lei.
La
temperatura era a dir poco rigida in quello che ormai era dicembre inoltrato,
ma Clarke doveva trovare un luogo per cambiarsi ora che la sua tenda era
impegnata.
Prese
dei vestiti puliti e si avviò nel folto del bosco, verso il fiume.
Raccolse
i lunghi capelli che ormai le arrivavano a tre quarti della schiena in una coda
alta e cominciò a spogliarsi.
Il
freddo la fece rabbrividire, ma Clarke non se ne curò. Gettò gli abiti sporchi
da una parte e, in un impeto di coraggio, entrò nel fiume.
Il
gelo dell’acqua le penetrò fin dentro le ossa e lei per un attimo ebbe la
sensazione di essere paralizzata.
Dei
passi svelti si avvicinarono e poco dopo la ragazza incrociò un paio di occhi
scuri.
«Argos…
».
«Clarke!
Sei impazzita?! Esci subito dall’acqua, vuoi forse morire assiderata?!».
«Voltati
dall’altra parte».
Lui
la guardò di traverso.
«Clarke…
».
«Sai
come mi devi chiamare» disse lei in tono fermo.
«Comandante» sbuffò poi lui, dandole le
spalle.
Clarke
uscì dall’acqua, tremante, e subito si coprì con gli abiti puliti che aveva
portato con sé.
A
quel punto, Argos si girò nuovamente, guardandola negli occhi con quella luce
con cui la guardava sempre.
Clarke
aveva scoperto la sua storia pochi giorni dopo aver incontrato Echo, quando ancora
vagava sola nei boschi, qualche tempo dopo aver lasciato la caverna.
Loro
due erano stati rinchiusi insieme dentro Mount Weather e Argos era stato quasi
dissanguato a morte.
Prima
che arrivasse Bellamy. Prima che li portasse in salvo.
Inizialmente
erano rimasti loro tre, cacciando e aiutandosi, poi, poco a poco, tutti coloro
che non erano stati d’accordo con il tradimento di Lexa li avevano raggiunti e
ben presto erano diventati un centinaio.
Avevano
trovato quello spiazzo sul limitare della foresta. La posizione era ottima
perché il fiume era vicino e nei dintorni c’era un frutteto.
Così,
avevano iniziato a fortificare quel posto, avevano piantato delle tende e
costruito piccoli stabilimenti. Tre,
sulla sinistra, fungevano da infermerie. L’armeria era sulla destra, verso
metà, proprio attaccata alla tenda di Clarke. C’era un capanno per le provviste
tra l’armeria e un’altra costruzione più grande che ospitava un paio di
famiglie.
In
fondo era situata la prigione, nella quale in quel momento si trovavano quattro
uomini. Tre di loro catturati dopo averli messi sotto attacco, non erano
riusciti a cavar loro una parola, ma Clarke sapeva che doveva averli mandati
Lexa. Erano stati presi di mira e in molti, tra la sua gente, erano rimasti
feriti, o peggio. Uno invece Clarke lo conosceva bene, non si aspettava certo
di vederlo, ma l’aveva trovato lei stessa mentre stava girovagando lì intorno:
Emerson. Non sapeva cosa farne di lui.
Le
infermerie erano piene a causa dei continui attacchi e ultimamente ci si stava
addirittura un po’ stretti. Clarke aveva infatti ordinato di farne costruire
una quarta, alla quale ora si stava lavorando.
Tra
il suo gruppo però non c’erano solo persone che si erano dissociate dal
tradimento di Lexa, infatti, sei settimane prima, Clarke aveva deciso di
tornare al Monte e lì, grazie ad uno dei ripetitori costruiti da Raven, era
riuscita a disorientare i Mietitori.
Con
l’aiuto di una squadra che aveva preso parte alla spedizione, li aveva portati
con sé in quello che ormai era diventato un piccolo villaggio più che un campo
e lì era riuscita a farli tornare in sé. Senza droghe in corpo e con l’ausilio
delle medicine, dopo una settimana, la maggior parte era riuscita a guarire. Una
piccola percentuale era morta.
Con
il loro arrivo erano diventati circa centoquaranta, gli altri erano arrivati o
da soli o in piccoli gruppi con il passare delle settimane.
«Il
prigioniero… era uno di quelli con cui sei arrivata sulla Terra, vero? Credo di
conoscerlo… ».
La
bionda annuì.
«È
stato lui a tirarvi fuori dalla gabbie, prima che Lexa ci tradisse. E comunque
Bellamy non è un prigioniero. Aspetterò che si riprenda, poi andrà via».
«Quanto
resterà?» Argos sembrava preoccupato.
«Se
volevi che se ne andasse, non avresti dovuto colpirlo così forte… » e, con
queste parole, la ragazza sciacquò i vestiti sporchi nel fiume e si riavviò al
villaggio.
Tornò
nella sua tenda ogni due ore, cambiando la medicazione di Bellamy, che ormai
sembrava essere caduto in un sonno profondo e quando iniziò ad albeggiare, si
sedette all’ingresso della tenda, osservando il ragazzo, prima di addormentarsi
a sua volta.
[Bellamy]
Quando
riaprì gli occhi, la prima cosa che vide, fu Clarke che dormiva seduta non
distante da lui, la testa reclinata da un lato.
Il
senso di nausea si era notevolmente attenuato rispetto alla prima volta in cui
si era svegliato, ci vedeva ancora male, ma non così tanto rispetto a prima,
mentre il dolore alla testa persisteva.
Ora
che poteva, si soffermò ad osservare Clarke senza farsi vedere da lei.
Se
quando l’aveva vista da lontano credeva che fosse dimagrita di almeno dieci
chili, ora che la guardava meglio, probabilmente si rese conto che ne aveva
persi anche di più.
I
capelli erano cresciuti molto, le arrivavano quasi al sedere e il trucco sul
viso era sbavato. Sembrava così fragile in quel momento, ma Bellamy sapeva che
non era così. Sapeva che oltre quell’apparenza, si nascondeva una guerriera
capace di essere letale e una leader capace di prendere le decisioni più
difficili.
Cos’era
diventata? Una terrestre? Dopo quello che Lexa aveva fatto? No, lui non ci
credeva neanche per un secondo. E poi… Echo l’aveva chiamata “comandante”. Che
cosa significava?
Ci
stava ancora riflettendo quando Clarke si mosse e lo fissò di rimando.
«Come
ti senti?» chiese subito, senza l’accenno di un sorriso. Senza nemmeno
salutarlo o mostrare un qualche segno di sollievo.
Bellamy
ricordava come fosse ieri del giorno in cui Finn l’aveva portata alla navicella
semisvenuta, dopo che era stata colpita alla testa.
Ricordava
il panico che lo aveva assalito, la preoccupazione nel vederla in quello stato.
Non
c’era niente di tutto ciò negli occhi di Clarke. Non c’era niente e basta.
Sembrava essere stata svuotata di qualsiasi emozione. Sapeva che non sarebbe
stata la stessa Clarke che aveva conosciuto lui, ma forse era impreparato a
quello.
Era
come avere davanti una perfetta estranea.
«Mi
fa male la testa».
La
ragazza annuì e uscì dalla tenda. Tornò dopo un paio di minuti con una scodella
fumante tra le mani.
«Bevi»
disse solo, porgendogli il contenitore.
A
quanto pareva, si era abituata a dare ordini.
Bellamy
lo fece, ma non appena mise in bocca il primo sorso lo sputò. Era disgustoso.
«Che
diavolo è questa roba?».
Fu
la prima volta che vide Clarke abbozzare un sorriso e ne rimase sorpreso. Non
credeva che sarebbe più stato capace di farla sorridere. Forse ancora c’era
speranza, dopotutto.
«Antidolorifico.
Ti conviene berlo. Starai meglio più in fretta e potrai tornare al tuo campo».
«Al
nostro campo».
«Adesso
il mio posto è qui, Bellamy».
Lui
sospirò.
«Clarke…
che cosa hai fatto in questi mesi? Dimmi dove sei stata. Che ti è successo?».
La
ragazza prese un profondo respiro e, poco alla volta, gli raccontò di cosa
fosse successo da quando aveva lasciato Camp Jaha.
Disse
che per il primo mese dopo essersene andata era rimasta nella grotta che
Bellamy stesso aveva trovato, dopodiché, quando il freddo aveva cominciato a
farsi più intenso, se n’era andata e dopo qualche tempo aveva incontrato Echo.
Gli
raccontò tutto, senza mai un minimo di inflessione nella voce, come se stesse
spiegando una strategia di guerra.
Bellamy
stentava a riconoscerla e, improvvisamente, fu colto da una rivelazione: era
arrabbiato. Arrabbiato con lei perché se n’era andata, per averli lasciati
tutti, per avergli caricato sulle spalle una responsabilità che non era in
grado di reggere da solo.
Il
sangue sembrava ribollirgli nelle vene, ma non era nella posizione di mettersi
a urlarle contro.
Bevve
quell’intruglio disgustoso che quasi lo fece nuovamente vomitare, prima di
ricordarsi delle parole che la ragazza gli aveva detto quella notte.
«Ti
ho davvero vomitato addosso?».
«Sì».
In
quel momento il moro si sentì profondamente in imbarazzo.
«Mi
dispiace».
«Ho
visto di peggio».
Ci
fu un momento di pausa prima che la ragazza riprendesse: «Riposati adesso. Più
starai tranquillo, meno durerà la tua convalescenza e prima potrai tornare al
campo» ripeté come un disco rotto.
Nessun
interessamento verso gli altri. Non chiese né di sua madre, né di Octavia, o
Raven o Jasper. Niente di niente.
Era
come se non li conoscesse.
«Chiederò
ad Echo di portarti qualcosa da mangiare, devi rimetterti in forze per tornare
indietro. Il viaggio è a più di un giorno di cammino da qui».
«Clarke,
non so nemmeno come ci sono arrivato qui, io stavo solo camminando».
«Ti
disegnerò una mappa» e detto questo, la ragazza uscì dalla tenda.
Solo
allora capì. Capì che Clarke voleva che lui se ne andasse.
[Clarke]
Erano
trascorsi cinque giorni dall’arrivo di Bellamy al villaggio.
Il
ragazzo ormai si sentiva meglio, Clarke lo avrebbe tenuto lì fino a quando non
fosse stata certa che non avrebbe corso alcun rischio a tornare indietro, poi
lo avrebbe fatto partire.
Rivederlo
aveva riportato a galla i fantasmi del passato e quelli erano tornati a
tormentarla.
«Clarke!»
lei si voltò, sapendo già chi si trovava davanti e preparandosi a rivolgergli
il suo sguardo privo di qualsiasi indulgenza.
«Comandante… » di corresse Argos.
«Abbiamo avvistato dei movimenti sospetti sul lato est del villaggio».
«Uomini
di Lexa?».
Lui
annuì.
«Preparatevi».
La
ragazza si mosse verso l’armeria, in quelle occasioni tutti sapevano già cosa
fare. Lanciò uno sguardo d’intesa ad Echo e lei si arrampicò sulla torretta di
guardia per suonare una campana che fungeva da allarme.
Così,
tutti all’interno del villaggio avrebbero capito cosa stava per succedere.
Tutti tranne Bellamy.
Infatti,
nell’udire tutto quel trambusto, il ragazzo uscì dalla tenda e le si avvicinò.
«Che
succede?» chiese guardandosi intorno.
«Le
truppe di Lexa. Siamo sotto attacco».
«Voglio
aiutarti» disse con una luce negli occhi che Clarke conosceva bene. Era la
scintilla che lo animava sempre poco prima di una battaglia.
Quante
battaglie Clarke aveva combattuto al suo fianco?
«Non
se ne parla. Torna nella tenda».
«Non
esiste. Io non prendo ordini da te, non sei il mio comandante» disse lui, quasi sputando quella parola fuori dai
denti.
Clarke
gli lanciò uno sguardo di fuoco, poi gli fece cenno di seguirla dentro
l’armeria.
Era
un ambiente stretto e buio, la ragazza sentiva il corpo di lui dietro di sé, ma
non ci faceva caso.
Andò
in fondo e tirò fuori un fucile, che gli porse. Era quello che gli avevano
sequestrato quando era arrivato lì. Poi estrasse anche una scatola di
munizioni.
«Non
le sprecare» disse perentoria.
Prese
un fucile a sua volta e uscì, seguita a ruota da lui.
«Vieni».
I
due ragazzi uscirono dalla zona recintata del villaggio, arrampicandosi senza
farsi vedere su un albero dal quale riuscirono ad avere una visuale completa
della zona.
Improvvisamente
si sentirono delle urla e gli uomini di Lexa uscirono dal folto della foresta,
spingendo sui cancelli principali.
Innanzitutto,
Clarke e Bellamy eliminarono i tiratori appostati sugli alberi che circondavano
il campo con gli archi, dopodiché passarono a chi stava a terra.
Erano
riusciti ad aprirsi uno spiraglio ed ora i primi cominciavano a entrare nel
villaggio, ma Echo, Argos e altri uomini e donne li respingevano con forza.
Per
un solo, singolo istante, Clarke provò un brivido di eccitazione correrle lungo
la spina dorsale, sentendosi viva. Viva come non si sentiva da tempo.
Non
era la prima volta che combatteva dopo aver lasciato Camp Jaha, ma era la prima
volta che lo faceva di nuovo con Bellamy al suo fianco e quella realtà la
confuse.
Lo
scontro imperversava sotto di loro e, quando colpire i nemici dall’albero
divenne troppo difficile, i due ragazzi scesero al suolo.
Il
rumore assordante di lame i lance che cozzavano tra di loro riempiva le orecchie
di Clarke, insieme al fischio delle frecce scagliate e il boato dei proiettili
dei fucili che solo lei e Bellamy utilizzavano.
Ad
un tratto la ragazza sentì una fitta lancinante al braccio, ma continuò a
reggere il fucile senza dare il minimo accenno di aver sentito il coltello che
le si era piantato a fondo nella carne e, dopo un’altra ora abbondante, tutto
era finito.
Le
truppe di Lexa erano state nuovamente respinte, ma la conta dei feriti, come
sempre era alta.
Nello
scontro aveva perso di vista Bellamy e, per un momento, la ragazza fu presa dal
panico.
Lo
vide, poco dopo, disteso a terra, chino su qualcosa, anzi… su qualcuno.
«Echo!»
esclamò Clarke avvicinandosi.
La
ragazza tremava, aveva uno squarcio profondo nell’addome.
“Non
lei, non lei. Ti prego, non lei… ” continuava a pensare Clarke come un mantra
mentre Bellamy alzava il corpo esile della ragazza e la portava dentro una
delle infermerie, di corsa.
La
fece stendere su un letto e Clarke lo afferrò per il collo della giacca,
scansandolo da parte e chinandosi al fianco della ragazza.
Esaminò
con occhio clinico la ferita. Era grave, ma poteva farcela. Sapeva quanto forte
fosse e poteva farcela.
Mandò
fuori Bellamy e tutti i feriti che potessero reggersi in piedi, abbaiando
ordini e sbraitando contro chiunque la contraddicesse.
Aveva
bisogno di concentrazione. Aveva bisogno di essere lucida. Aveva bisogno di
salvare quella vita.
Prese
un bisturi da un kit di primo soccorso che aveva portato con sé da Camp Jaha e
che ormai aveva sterilizzato almeno venti volte, lo poggiò sulla pelle della
ragazza e aprì.
Un
grido terribile risuonò nell’aria.
Solo
diverse ore dopo, quando uscì dall’infermeria, Bellamy le andò incontro.
«È…
?».
«Morta?
No. Se la caverà. Altri non ce l’hanno fatta».
Lo
scansò, passando oltre e dirigendosi verso la sua tenda, pulendosi le mani con
uno straccio imbevuto d’acqua calda. Con la coda dell’occhio, vide Argos
fissarli con uno sguardo strano.
Sapeva
cosa il ragazzo provasse nei suoi confronti, ma lo aveva sempre ignorato. Sperava
che così facendo il problema sarebbe svanito.
Lui
l’aveva baciata una volta e Clarke non si era tirata indietro, ma non aveva
provato niente, era rimasta totalmente apatica.
Quello
era stato il primo giorno, da quando aveva lasciato Camp Jaha, in cui avesse
realmente sentito.
Entrò
nella sua tenda e Bellamy fu subito dentro con lei.
«Clarke…
» disse afferrandola per un polso e costringendola a voltarsi.
Lei
lo osservò, continuando a mantenere quello sguardo distaccato.
«Che
cosa ti è successo?».
«Cosa
è successo a me? No, Bellamy. La
domanda giusta è: cosa è successo a te? Abbiamo ucciso centinaia di persone e
la cosa non sembra nemmeno toccarti. Riesci a dormire la notte? Perché io non
ce la faccio. Riesci a guardare in faccia coloro che abbiamo riportato indietro
dal Monte senza rivedere i volti di quelli che per questo hanno pagato con la
loro vita? Perché io non ci riuscirei».
«Pensi
che per me sia facile? Pensi che io dorma sonni tranquilli con un peso simile
sulla coscienza? La mia pena è la tua pena, Clarke. La tua punizione è la mia
punizione. Con la differenza che tu hai mollato. Tu sei scappata e ti sei
rifatta una vita. Tu giochi a fare il comandante con queste persone che a
stento conosci, mentre hai lasciato indietro quelle che per te darebbero la
loro vita!».
Alzò
la voce lui.
«Non
lo voglio, Bellamy! È questo che non capisci! Non voglio nessuno che per me
darebbe la vita! Voglio che quelle persone siano al sicuro! Mia madre, tua
sorella, Jasper! Voglio che tu sia al
sicuro e non lo sarai qui!».
In
quel momento, Argos fece il suo ingresso, allarmato nel sentire quelle urla.
«Cosa
succede?».
«E
tu che diavolo vuoi?!» gli sbraitò contro Bellamy, ormai infervorato.
«Lasciaci,
Argos» il tono di Clarke non ammetteva repliche.
«No».
La
ragazza spalancò gli occhi, sorpresa.
Era
la prima volta che disobbediva così apertamente ad uno dei suoi ordini.
«Clarke…
».
«Clarke?
Niente “comandante”? Cos’è, per te ci sono regole speciali?» Bellamy
s’interruppe un momento, poi aggiunse: «Oh.
Capisco».
«No,
invece non capisci niente e se pensi di aver capito qualcosa è sbagliata».
«Clarke,
non sono stupido».
«Lo
so bene» la ragazza chiuse gli occhi, premendosi indice e medio sulle tempie.
«Argos, per favore… esci».
Senza
un’altra parola, lui si voltò e uscì a grandi passi.
Nella
tenda calò il silenzio e dopo qualche istante, Clarke fissò nuovamente gli
occhi di Bellamy. Occhi in cui lesse rabbia, in cui lesse delusione. Occhi in
cui lesse la sconfitta.
[Bellamy]
Per
le cinque ore che seguirono, dall’infermeria non fecero altro che provenire
urla strazianti, tanto che Bellamy dovette allontanarsi. Non ce la faceva a
sentirle.
Era
ormai mezzanotte quando Clarke uscì da lì, quasi totalmente ricoperta di
sangue. Un braccio fasciato. Ora aveva capito perché l’avesse vista con le mani
insanguinate il primo giorno che era arrivato lì. La ragazza infatti era appena
uscita da uno di quei tre stabilimenti.
Le
si avvicinò.
Lei
lo informò sulle condizioni di Echo, poi la seguì nella tenda.
Era
arrabbiato, aveva una tale rabbia dentro che esplose ad un certo punto e
Bellamy le scaricò addosso tutto ciò che aveva accumulato in quei mesi. La
rabbia, la delusione, la frustrazione. E poi era arrivato Argos. E Bellamy
aveva capito.
Aveva
capito dei sentimenti del ragazzo nei confronti di Clarke e quello parve
bruciare ancora di più.
Però,
nonostante tutto, si era accorto di qualcosa in Clarke. Lei si era preoccupata.
Quando aveva visto Echo in una pozza di sangue e si era resa conto della
gravità della situazione, era veramente spaventata. In cuor suo, Bellamy sapeva
che la speranza ancora c’era.
Gli
aveva detto che lo voleva al sicuro, per questo era andata via. Era davvero
così cieca da credere che tutti, a Camp Jaha, sarebbero stati più al sicuro solo
perché lei li aveva abbandonati?
Il
silenzio era piombato nella tenda, i loro respiri affannosi, i volti vicini.
«Ti
darò delle provviste. Per te e per gli altri. Porterai con te un cavallo e
partirai domani prima dell’alba. Siamo appena stati attaccati, è il momento più
sicuro per defilarsi, le truppe di Lexa non se lo aspetterebbero mai. Negli
ultimi tempi attaccano più o meno ogni due settimane. Prima lo facevano più
spesso, ma ora credo che siamo riusciti a indebolirli a sufficienza».
«Noi
non siamo mai stati presi di mira. Perché si comportano così? Lexa sa bene
dov’è il nostro campo».
«Perché
quello che cerca Lexa è qui, Bellamy. Sono io».
Lui
la osservò, lo sguardo preoccupato.
«Clarke,
torna indietro con me, ti farai ammazzare».
Si
era raccomandato che non avrebbe detto quelle parole, ma alla fine gli uscirono
prima che potesse rendersene conto e ormai per rimangiarsele era troppo tardi.
Si morse la lingua.
Ci
fu un momento di silenzio, colmato nuovamente dal moro.
«Clarke.
Resti… o te ne vai? Vieni con me».
La
ragazza lo fissò per un lungo, intenso istante. Lo sguardo improvvisamente
vivo.
«Resto».
NOTE:
Ehm…
coff coff. Mi sono resa conto solo dopo aver messo il punto finale di quanto in
realtà sia lunga, forse troppo per una OS, ma non linciatemi… non sono capace
di essere sintetica.
Questa
ff è nata un po’ dalla mia mente malsana, un po’ dalle mie aspettative riguardo
alla terza stagione e il colpo di grazia è stato dato ufficialmente da
un’immagine vista nei giorni scorsi su fb che raffigurava una Clarke versione
grounder e insomma… non sono riuscita a fare a meno di scrivere a quel punto.
Ah sì, e Marti Lestrange, è anche colpa tua sì, mia cara.
Bene,
detto ciò spero di non avervi annoiato a morte e spero che abbiate apprezzato
questo piccolo esperimento che ho sviluppato tra ieri e oggi. Se non vi è
piaciuto ditelo pure, capisco che sotto certi punti di vista possa essere un
po’ strano.
Non
so che piega prenderà Clarke nella prossima stagione ora che ha lasciato Camp
Jaha, io ho deciso per esigenze di trama di darle questi tratti un po’ freddi,
un po’ apatici, tipici di qualcuno che ha sacrificato tutto, persino sé stessa,
e non ha più nulla da perdere. Tuttavia, forse nella parte finale si è resa
conto che non è proprio così; l’arrivo di Bellamy l’ha leggermente scossa da
quel torpore, nonostante nel finale decida ugualmente di non seguirlo e restare
al villaggio.
Bene…
detto ciò a voi la parola, spero tanto di non essere sforata troppo nell’OOC,
in tal caso… avvertitemi.
La
canzone iniziale è “The Great Debate”, dei Dream Theater. È un pezzo un po’
strano, ma secondo me molto bello e anche se le parole cominciano verso il
terzo minuto, secondo me vale la pena ascoltarla.
Alla
prossima!
Mel
The
Great Debate – Dream Theater
Melody
Blake – Profilo Facebook (per chi volesse saperne di più)