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Autore: Helmyra    07/09/2015    3 recensioni
“Mi piace la musica,” commentava l’estraneo, nella vita e nel dolore di Elanilde, “e mi serve uno scudiero. Canterai per me di sera, quando i soldati saranno in congedo e noi due soli, in qualsiasi luogo che abbia attorno quattro mura. Ti terrò per questi motivi, e quando non sarai più utile... ti ucciderò”.
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Spin-off di "A wine of character". Nuovi personaggi e nuove situazioni, a parte la presenza di Dorisa e Sanguine.
Elanilde si prepara al suo debutto in società, attendendo l'assenso di Voranil, gentiluomo e mecenate di Cheydinhal.
La guerra è finita, ma le conseguenze del Concordato d'Oro Bianco forniscono ai Thalmor un'occasione di vendetta.
Genere: Fantasy, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dovahkiin
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Daedric Maidens'
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Avevo le abitudini dell’infanzia solitaria, di inventare storie e discorrere con individui immaginari: per questo penso che, sin dall’inizio, le mie ambizioni letterarie fossero diluite con l’impressione di isolamento e disistima. Ero cosciente di avere una predisposizione per la parola e il potere di affrontare realtà spiacevoli: sentivo, quindi, di aver creato attraverso queste capacità una sorta di mondo a sé stante in cui avrei trovato rivalsa per i fallimenti della vita presente.

George Orwell, Perché scrivo

 
Spinse il portone di bronzo con la pianta del piede, gongolando per la voluta mancanza di rispetto. Una guardia affrettò il passo e volse a lato il cimiero, palesemente irritata ma con altre beghe a cui pensare.
“Cos’era questa, un’entrata ad effetto?” Commentò Dorisa, lasciando cadere bisacce e fagotti per adagiarsi lungo la muraglia della città di granito, “Per favore, non rendere tutto più difficile. Siamo forestieri, in un periodo di guerre civili, di prodigi arcani, e tu... e tu...”
“E io cosa?” Belò Sam, grattandosi la testa. I campanellini cuciti sulla manica della camicia tintinnavano rumorosamente, attirando l’attenzione di speziali, rigattieri e potenziali clienti nella piazza del mercato.
“E tu... hai deciso di vestirti in un modo assurdo, da buffone di corte!”
“Non dirmi che non è appropriato,” ghignò Sam, sfoderando uno dei suoi sorrisi più candidi, “tu stessa me l’hai detto, la prima volta che hai scoperto il mio reale aspetto. E poi ero stanco, bambina mia, di mantenere un profilo basso. Non pensi che, invece, la sacerdotessa di Sanguine abbia bisogno di una compagnia... colorata?”
“Certo, il modo migliore per farsi piantare una freccia dritta in petto, a piedi di distanza...”
“Sei sempre così prevenuta e razionale...” Sbuffò il mago bretone, studiando da lontano la prima insegna a sinistra. “Mm... Locanda Sangue d’Argento. Gente pratica questa qui, che apre un punto di ristoro proprio davanti l’unico ingresso...”
“Be’, rende tutto più semplice.” Cinguettò Dorisa, accollandosi volentieri le borse sulla schiena per l’ultimo sforzo della mattinata. “Mi devi una cena, zietto. Oggi offri tu!”
“D’accordo,” sbottò Sam, fissando in tralice la macchia scura che deturpava il grigio elegante del lastricato scolpito. “abbiamo tempo a disposizione, e credo che questa città si rivelerà presto per quello che è senza troppi sforzi da parte nostra”.
Nel vedere i due stranieri, abbigliati in modo eccentrico ma di sicuro estranei agli ultimi accadimenti, Frabbi tirò un sospiro di sollievo. Mai sarebbe arrivata a pensare che i continui rimbrotti del marito fossero il male minore, ma dopo aver assistito alla scenata della notte precedente aveva preso a sopportare Kleppr con rinnovata rassegnazione. Ogmund non era ancora passato a trovarla, e a buona ragione. Solo i Divini erano al corrente di quali astruse rivendicazioni aleggiassero nelle menti dei Thalmor, come se i Rinnegati non fosserò già abbastanza.
“Benvenuti, posso esservi d’aiuto? Avete fame, sete?”
“Fame!” Urlò Dorisa, facendo trasalire Kleppr che lucidava i boccali dietro il bancone. “Ehm... sì, gradirei davvero mettere qualcosa sotto i denti.”
“Siete nel posto giusto.” Frabbi li invitò a sedersi con un gesto affabile, e porse ai due viandanti dei teli umidi, intrisi di essenza di lavanda, e due bicchieri colmi di latte appena munto. “Qualcosa di rinfrescante, per scacciare la spiacevole calura estiva. Ecco, un omaggio della casa. Per il resto abbiamo frutta di stagione e caramellata, pasticcini al miele, succo di mirtilli e involti dolci...”
“Prendo un po’ di tutto, tanto offre lui.” Dorisa disfece le cinghie alle braccia e adagiò il mantello sullo schienale della sedia. Nello scorgere le fronde e i petali di rosa che formavano un morbido tappeto sulla pelle dell’elfa, la donna strinse gli occhi.
“Kleppr può darvi tutte le informazioni di cui avete bisogno,” si limitò ad aggiungere, indifferente, “perdonatelo se è un po’ brusco, Markarth non è una città che accoglie bene i viaggiatori. Lo conosco bene; non è cattivo, ma...”
“Tranquilla.” Dorisa socchiuse le labbra sporche di latte e briciole. “Amalo per quello che è, lui lo sa... ti vuole bene.”
“Per qualsiasi cosa ci sono i ragazzi, se volete prendere una stanza chiedete a mio marito.” Sorrise Frabbi, rincuorata.
“È così divertente vederti dispensare perle di saggezza.”
Sam se ne stava a braccia conserte, con le spalle al muro e i piedi poggiati sulla sedia di fronte. Nutrirsi era un vezzo: preferiva tracannare vini e liquori che gli capitavano sotto tiro e non accusava un colpo, perché era la sua natura immortale a sostenerlo.
“Vuoi averla vinta in qualche modo, soprattutto se hai il conto sulle spalle. Devi ancora dirmi perché hai insistito tanto a venire fin qui. So delle rivendicazioni dei Rinnegati... però, a parte questo, qual è il nostro scopo?”
“Non voglio rovinarti la sorpresa. Diciamo che, sotto la facciata lustra, Markarth nasconde delle belle gatte da pelare. Rimarremo per qualche settimana, c’è una casa abbandonata nei dintorni... meglio restare nella locanda. Risolveremo dopo la faccenda.”
“Ma...”
Sam Guevenne pose un dito sulle labbre carnose, anticipandola com’era solito fare.
“Ha a che fare con i draghi, te lo assicuro. Suvvia, pasticcino mio, ascolta zietto e piantala una volta tanto di fare troppe domande. Non hai idea del rumore che fanno quando si sovrappongono l’una sull’altra... essere un principe daedrico ha anche dei lati negativi, sai?”
“Mmh.” Sanguine poteva essere davvero subdolo, specie se voleva convincerla ad assecondare le sue richieste a tutti i costi. Aveva un atteggiamento cortese e premuroso, ma le disparità si notavano nel momento in cui lei si atteneva al ruolo di ancella, e lui a quello del potente immortale in vena di scherzi e strampalate imprese.
“Spero che tu non abbia scelto questa città solo perché le stanze delle locande hanno le porte.” Osservò Dorisa, affranta. “A volte fatico a comprenderti, sul serio... ti voglio bene, però mi sento estranea...”
“Resisti ancora, mia cara.” Sam le posò un bacio sulla guancia. “Non è detto che durerà a lungo. Forse ti lascerò assaggiare un po’ del mio potere, ma ogni cosa a suo tempo...”
“Sì, per ora mi è toccato assaggiare ben altro.”
Sam ondeggiò una mano – quella che non giocherellava con le trecce scure di Dorisa – e Kleppr si gli si parò avanti, ancora intento a ripulire un boccale.
“Dimmi, buon uomo, quali sono le nuove nei dintorni.”
“Nuove? Puah. Sempre le solite storie... attacchi da parte dei rinnegati, nel bel mezzo del mercato. Draghi liberi di scorrazzare per Skyrim. Stando alle parole dello Jarl, però, la città può resistere agli assalti dall’alto e al respiro infuocato di quelle bestiacce infernali. Ah, e i Thalmor nella Tenuta, sempre col benestare dello Jarl. Avrei chiesto ad Ogmund di allietarvi con della buona musica, sapete, è un esperto. Se non fosse per quel dannato elfo, a fare scenate a notte inoltrata, con le guardie sempre all’erta per chicchessia. Un servo fuggiasco, a quanto pare, anche se quel ragazzetto ha l’aria spaurita di chi non farebbe un passo senza il consenso del padrone. Elfi alti? Bastardi che se la prendono coi più deboli. Mi raccomando, se andate alla Tenuta, portate i miei saluti a quell’idiota, mi sta facendo perdere un sacco di clienti”.
Il locandiere sputò sul vetro, poi passò lo straccio. Dorisa inclinò il capo, sconcertata.
“Ho intenzione di pormi al servizio dello Jarl... e farò in modo di aiutarvi, per quanto possibile. Diteci solo dove sistemare le nostre cose, andremo immediatamente.”
“Buona fortuna!” Sbottò Kleppr, girando sui tacchi e indicando di seguirlo verso l’ala sinistra dell’edificio, dai soffitti alti e umidi.
Dorisa non aveva mai visto nulla di simile: come Morrowind, anche Skyrim era disseminata di fortezze dwemer con impianti meccanici e automi a vapore funzionanti. L’idea di sfruttare un intero museo a cielo aperto a beneficio della popolazione, però, l’affascinava ed incuriosiva.
Arrivarono alla residenza dello Jarl senza chiedere indicazioni. Gli stendardi sventolavano fieri, accompagnati dal soffio del vento, sugli stipiti di un enorme portico. Dorisa scostò le porte d’ottone, altrettanto imponenti, ed entrò timorosa. In quei momenti non era l’ancella di Sanguine, ma l’allieva del Collegio di Winterhold, dove aveva passato alcuni anni prima del fortuito incontro col sovrano di mille baccanali.
“Parlerò con lo Jarl, dovrà concedermi udienza!” Un uomo in armatura, consumato dagli anni e dalla rabbia, urlava con tutto il fiato in gola di fronte ai gendarmi, decisi ad ignorarlo ad oltranza.
Brutto segno, pensò Dorisa. La fortezza era cupa anche di giorno, illuminata da poche fiaccole che accentuavano l’odore di muschio, acqua stagnante e polvere sedimentata lungo l’interminabile corridoio.
Un debole bagliore la conduceva in alto: Sam la seguiva, i campanelli sulla camicia di seta blu e rossa tintinnavano incessanti.
L’ampia camerata era priva di mobili, in completo abbandono: il tempo sembrava essersi fermato dalla scomparsa dei dwemer. Vide un tavolo di pietra e alcune sedie in abete solo dopo la ripida rampa di scale: la servitù e il signore del luogo avevano altro a cui pensare.
Se i draghi avessero attaccato, la Tenuta Sotterranea sarebbe diventata un’implacabile fornace ardente.
“No, lasciatela passare... lei e il buffone.”
Sam si curvò in un baldanzoso inchino; l’elfa oscura, invece, ruminava le ultime parole di Jarl con la mente ottenebrata da un’unica sensazione, l’edificio non era altro che una prigione.
Una donna Redguard, dallo sguardo altero e con la spada sguainata, indietreggiò. Il comando aveva sortito effetto anche sul resto della scorta, che si dileguò per tornare alle postazioni d’ordinanza.
“Finalmente ci incontriamo, elfa.” Biascicò Igmund, ruvido lui e ruvida pure la voce. “Sei Thane di Winterhold e Whiterun, ti chiamano Sangue di Drago, ma per ottenere tali titoli verrai messa alla prova, qui a Markarth. E i tatuaggi... ne conosco l’autore.” Il sovrano storse il naso. “La città gode della protezione degli Otto Divini, non dei Daedra. Bada a chi offri i servigi, sacerdotessa. Non tollero dissolutezze in città.”
“Vi provocherò quanti meno fastidi possibili.” Sussurrò Dorisa.
“E fareste bene.” Sam aveva cominciato a scimmiottarlo sotto uno sguardo sussiegoso, e per farlo smettere aveva dovuto menargli una gomitata sulle costole. I cani dello Jarl si unirono alla sua dolorante protesta, imitandolo in un ululato collettivo.
Chi la fa l’aspetti, aveva pensato la sciagurata. A bocca chiusa, ma era in grado di sentirla.
Gliel’avrebbe fatta pagare quella sera stessa... la locanda Sangue d’Argento non era l’unica con le porte, delle tante in cui avevano soggiornato?
“Perdonate il giullare... è molto vivace.” Dissimulò l’evidente imbarazzo con un gesto educato. “Aspetto ordini, mio Jarl. Mi troverete da Kleppr, semmai aveste bisogno.”
Li congedò con un cenno e non pronunciò altre parole. Mentre si allontanavano, Sam aveva notato che l’irriverente scenetta aveva attirato degli spettatori indesiderati. Forse l’ancella era troppo impegnata a mantenere le pose da gentildonna per notarli, invece lui ne aveva percepito la presenza.
“Qualcuno verrà a farci visita.” Sogghignò il bretone, dimenandosi più del dovuto per indispettire ulteriormente gli occupanti della sala. Il continuo trillare dei campanelli le stava entrando nel cervello, quando avrebbe smesso la recita?
“Oh, finché mi va, cara. Sto solo cercando di aiutarti: fa parte del piano, tutto questo caos ha un senso. Posso solo anticiparti che cesserò di ammorbarti con questo assillo continuo, non appena il nostro ospite si deciderà a far tacere l’ultimo sprazzo di reticenza rimastogli. Carissima, sono tutti nelle stesse condizioni: sotto il mio dominio di piaceri e rilassatezze. Alla fine, quando decidono di gettare al vento i crucci morali, cedono all’impeto che agita il cuore, che bagna gli occhi... e pure il cavallo dei pantaloni. Be’, resistere per anni, con qualcosa che tende la stoffa in mezzo alle gambe non è proprio salubre, però...”
“Sam!”
“D’accordo, principessa, niente discorsi sconci che ti fanno arrossire.”
“Non ho idea quale piano tu abbia ideato, come faremo ad uscire dal caos. So solo che i sensi diventano doppi, quando pensi qualcosa...”
“Sono un tipo dalle mille risorse.” Un gruppo di elfi alti, in lontananza, aveva origliato l’intera conversazione. Thalmor: scorbutici, paranoici, terribilmente frustrati... probabile che uno di loro finisse a rimpinguare il branco già folto di seguaci dediti ad organizzare baccanali e a finanziare il nuovo tempio.
Soprattutto se c’erano un amore contorto in ballo, desideri repressi e una sana tensione morbosa a rendere l’aria viziata.
 
Ah... se tutto quello fosse stato un parto di Mephala, o un lurido tiro di Molag Bal, avrebbe avuto un valido concorrente. Un elfo alto, costretto a convivere con rimorsi e oppiacei ricordi. Il presunto sdegno verso l’ancella era evidente per un mortale, però un signore dell’Oblivion è in grado di andare a fondo, di scavare nella fossa comune dove erano sepolte le ossa di antiche pulsioni.
Ecco, del materiale valido su cui lavorare: delusioni cocenti, ossessioni laceranti. Il costante timore di non essere all’altezza, di non meritare la reverenza di una creatura tanto complessa e fragile.
La chiamava Elanilde, per lui era un’idea. Nascondeva, tuttavia, una sensualità repressa: l’elfa in sé non aveva nulla di seducente, tutt’altro. I sempliciotti Nord venivano soggiogati da un bel paio di seni, dalle mani operose e dal numero di mucche nella stalla di una donna. Invece, quest’elfo non aveva bisogno di consigli... di incentivi, piuttosto, ad abbandonarsi a quella follia. Solo l’etica morale, più forte in lui della passione, aveva evitato che l’avesse ai suoi piedi quella sera stessa in cui era divenuta di sua proprietà.
Fin dove poteva arrivare la paranoia? Vestirla da uomo, per averla accanto a sé, per provare un brivido di eccitamento continuo. Per vivere alla vecchia maniera altmer, perché in verità era sua, solo sua.
Tutto ciò di cui lo avevano privato, mandandolo alla scuola d’addestramento, lo rivedeva in lei. Gli sembrava di tornare indietro nel tempo, quando era solo un misero sbarbatello con tanti complessi e gli occhietti bassi e timidi. Un turbinio di nubi evanescenti, figure che rimbalzavano l’una sull’altra: la voce dura del maestro di canto, il pugno chiuso sul ponte del liuto, lo stridio degli anelli contro le corde.
Rassegnati, non è per te. Dipende da me salvarti dal servizio per Alinor? No, non addossarmi una responsabilità tale. Non sei fatto per la musica, torna sui libri, Ondolemar. Hanno scelto per il tuo bene, compensi in entusiasmo ciò che difetti in lungimiranza. Segui i loro consigli, figliolo, hanno ragione.
Non più spartiti, ma tediosi schemi di reazioni alchemiche; il continuo sferragliare di spade metalliche contro scudi ed armature. E una volta, e una volta ancora.
Quanta tristezza, ti ci vuole davvero una botta di vita, ragazzo.
Sam sorrise.
Li avrebbe seguiti di soppiatto, per combinare un incontro con la sacerdotessa.
 
Aveva corrotto una delle guardie dello Jarl a suon di monete trillanti, accompagnate da un bel barile di idromele. Il soldato, con la discrezione tipica del mestiere, faceva la ronda della città e spiava il vecchio bardo, per scoprire in quali altri luoghi Elanilde lo incontrasse, nutrendo in segreto la speranza che forse, forse...
L’ansia infondata rivelò, comunque, dei risvolti che né lui né il coscritto avevano saputo prevedere.
Protetto da un presunto anonimato e dalla complicità insperata del borgo, Ogmund aveva ingenuamente proseguito le passeggiate quotidiane, le visite alla locanda. Parevano svolgersi nella massima tranquillità, eppure vi erano dei momenti in cui gli occhi cisposi si voltavano indietro, abbacinati da un timore inspiegabile.
Virava verso stradine secondarie, cambiava percorso. Si schermava dietro un muro, all’ombra di un’arcata contornata da muschio verde giada. E poi svaniva nel nulla, ma la guardia sapeva cosa nascondeva il porticato stagnante.
La porta arrugginita, dimenticata, di un santuario ancora in piedi: era inammissibile che la statua fosse ancora lì, a prender polvere. Invece, da una crepa sul soffitto i fuochi dell’Aetherius illuminavano la superficie d’ebano, si prendeva gioco di tutti i proclami e le leggi su cui era spillato sangue.
“Talos!” Sibilò Ondolemar, quando la guardia fece rapporto. “Dunque, la porta è stata scassinata, ed è lui a porgere fiori sull’altare. Deve essere fermato.”
Giorni d’attesa ripagati bene, ma la guardia era tentennante. No, non spettava al ragazzo denunciare, come a lui sapere. Aveva bisogno di uno sconosciuto, un forestiero... peccato che l’ultima arrivata fosse sparita tra le montagne, alla ricerca di un vecchio cimelio appartenente ad un antenato dello Jarl.
In un’attesa durata anni, pochi giorni costituivano una differenza infinitesimale. Sperava che Elanilde non fosse coinvolta, che il bardo le avesse risparmiato il lamento degli indegni. L’aveva condotta sulla strada giusta, facendo sì che dimenticasse la follia imperiale, la divinizzazione di un uomo empio.
“Procurami un’armatura.” Gli ordinò, ficcandogli nel pugno una borsa d’oro ancor più colma.
“Signore? Ne avete un paio, delle migliori, a vostra disposizione.”
“Non una come le altre... come la tua.” Sorrise Ondolemar, puntando un dito verso di lui. “Sì, hai sentito bene. Mi sarà utile... per addentrarmi laddove non mi è possibile. Devo capire se mi sta ingannando, se mi sta tradendo, se... Vai via, ora. Fammi avere ciò che voglio entro stanotte, fa’ in modo che nessuno se ne accorga... non tardare”.
La corruzione, dunque, non era un cancro che affliggeva soltanto la provincia Imperiale. Una famiglia da mantenere, un piacere da appagare... era talmente facile scrostare la patina di correttezza dalla volontà di un militare. Molti lo fanno per l’impeto di un momento, perché non hanno scelta.
E lui non era certo superiore, in attitudine e liceità, poiché stava infrangendo le regole per sedare una mania che lo stava consumando.
Quale posto rimaneva, ora che erano stati scoperti alla locanda, ora che sapeva tutto?
Finì per occupare le ore serali allo stesso modo. Si era convertito alla finzione, indossava il mantello per celare al di sotto l’inganno. S’augurava che Elanilde fosse ingenua, sprovveduta... a tal punto da sfruttare la sua assenza per raggiungere Ogmund al tempio. E anche se fosse stato così, avrebbe continuato ad amarla. Ingenua e sprovveduta, sì... ma pure caparbia, appassionata, leale ai suoi principi.
Non a lui, purtroppo. Il padre defunto; la madre ormai lontana, ignara della sorte della figlia; la casa nel Nibenay e il culto paesano di Cheydinhal. Dibella, Mara, Arkay... Talos.
Stava reclamando il contrappasso per le profanazioni in nome degli dèi di Alinor, quel re del passato, vecchio condottiero, che tanto insistevano ad annichilire.
Classico itinerario, nuovo proposito: Ondolemar abbandonò il mantello e indossò l’elmo, vagando per Markarth fino a raggiungere il santuario. Si appostò nell’ombra, sarebbe stata solo questione di un’attesa. Di minuti, ore... se la fede fosse stata forte, l’avrebbe condotta lì, tra le sue braccia.
Il portone s’aprì, e la riconobbe subito per l’andatura, non per il sorriso e il desiderio d’infinito che brillava nei suoi occhi.
Elanilde aveva acquistato dell’incenso, con la mancia che Moth-gro Bagol le concedeva per il lavoro alla forgia. Giunse le mani e cadde in ginocchio, nel silenzio rassicurante. Per Ondolemar, solo la prova di ciò che aveva cercato di negare da anni.
Sbucò fuori dall’ombra: la ragazza non ebbe modo di udirlo, non immediatamente. Solo quando si fece vicino, minacciosamente vicino, capì chi si trovava lì ad attenderla. Saltò in piedi, ritraendosi in un gemito. Non servì raggiungere la porta, non più: il guanto di acciaio le stringeva i polsi, opporre resistenza non l’avrebbe aiutata.
“Continui ad ingannarmi, ad agire nottetempo e a nasconderti, topo insolente. Quindi, questo sarebbe il tuo Dio, qui vieni a pregare, vero? Perché rifiuti ciò che è bene per te, perché?”
Un interrogativo, poi la risposta. Nemmeno lei aveva intuito fino a che punto si spingesse la sua follia.
Amore mio, è me che devi pregare, adesso. Le parlava in Aldmeri, calcando le sillabe in maniera stucchevole. Odiava quanto fosse vezzosa quella lingua, le ore spese inutilmente ad apprenderla.
Sai come ho intenzione di sconsacrare questo luogo? Sai come? Non c’era bisogno di spiegarlo, la bocca di Ondolemar le suggeriva tutto. L’elmo a terra, come una pentola ammaccata. La vecchia corazza su di lui, penzoloni, mentre le infilava le dita sotto la camicia.
Non costringermi a farlo, Alinor è lontana e so bene che sarebbe più saggio spedirti lì. O assicurarti all’Ambasciatrice. Non posso fare a meno di vederti, di toccarti... ti darò i maestri migliori, ti insegneranno le canzoni delle Isole, e a disegnare fiori che diano anche l’idea di un profumo. Se solo la smettessi di mettere alla prova la mia clemenza. Non sono un mostro, Elanilde. Posso amarti, sai? Non sono un mostro...
Era pericoloso, però... e arrabbiato. Con le unghie le solleticavava la pancia, la curva dei seni non più fasciati. Fu invasa dalla vergogna, stesa di fronte al dio che era andata a pregare.
Salvami, gli chiedeva in silenzio. Dalla furia, dal calore che scivolava sulla pelle, in gocce di sudore.
Talos le stava di fronte, muto quanto lei.
L’avrebbe lasciato fare. Se serviva ad addolcire la solitudine, a rabbonirlo e non vederselo più alle calcagna, aveva tutto da guadagnare e nulla da perdere. Prima o poi sarebbe successo.
Elanilde chiuse gli occhi e tastò la polvere, in un completo abbandono. Una volta giunta alle isole Summerset, cercare la madre sarebbe stato facile. Era ancora viva, si ricordava di lei?
Finse un trasporto che non provava. Gli punzecchiò la barba, scorse la linea della mascella virile fino alle clavicole. Meglio imparare subito a recitare, ad essere una concubina come lo era stata Saranwe, fin quando...
“Elanil! Ragazzo mio, tu...”
La preghiera era stata accolta ma no, non voleva che la vedesse in quello stato. Non tra le sue braccia, non in quel luogo...
“Vecchio.” Sibilò Ondolemar, scivolando via mezzo nudo e con un falso sorriso. “Eri atteso, quindi? Mi spiace, sono arrivato prima.”
“Se me l’avessi rivelato... io ti avrei protetta, a tutti i costi.” Le lacrime di Elanilde si mischiavano al lamento del bardo. Non aveva il coraggio di guardarlo, di affrontarlo... tanto la situazione era chiara. Cos’era lei, se non una prostituta? “Ti avrei aiutata ad evitarlo. Signore, volevate umiliare me per mezzo della ragazza? Oh, perché?”
“Perché lei è mia.” Sotto la luce delle torce, il corpo dell’inquisitore brillava come quello di una statua d’oro. “E io sono tutto per lei.”
“Sarete tutto quando la lascerete libera.”
Non tollerò altre parole, altri indugi. Le lacrime sgorgarono dagli occhi, ma non un singulto la scosse. Coprendosi con un lembo della camicia, si alzò per raggiungere l’altare e per prostrarsi fino a terra.
“Elanilde, alzati.” Ondolemar la spinse via, per una caviglia.
“L’amore della tua donna è per il Dio, non per Alinor... non per te.” Lo schernì Ogmund. “E ora cosa farai, Inquisitore? Denuncerai me e la ragazza? Oh, no... la risparmierai invece, ma io attenderò la vendetta. Sempre se hai abbastanza fegato per esporti, per venire allo scoperto coi tuoi abiti... non mascherato come un assassino.”
“Tu le hai inculcato questa follia!” Sbraitò l’elfo.
“Qui ci siamo incontrati, qui siamo divenuti amici. Ti abbiamo ingannato? No... è il tuo popolo che s’inganna, che nega ad altre genti il richiamo del cuore. Eri troppo cieco, ma posso comprenderlo... in fondo, sono stato giovane anch’io e l’amore... porta a far vedere cose che non esistono. Porta alla pazzia, perché tale è il movente che ti ha spinto a mancare di fiducia. La ami, dunque? Liberala dalla schiavitù... e vedrai che tornerà da te”.
Lo Skald discese le scale, e si chinò per cullare Elanilde. Tremava, sotto le sue mani. Aveva la certezza che quando non era lui a consolarla, erano gli dèi a farle da padre.
“Sei stata brava, sai? A fingerti uomo per tutto questo tempo. Su, va tutto bene.”
Asciugò via le lacrime, lo guardò per l’ultima volta negli occhi. Aveva intuito cosa cercasse di spiegarle.
Sarebbe stata l’ultima preghiera. L’ultimo incontro, poi l’addio. Sì, lo avrebbe rivisto tra le stradine di Markarth, solo per evitarlo e cancellarlo dai suoi pensieri.
Gli strinse la mano, prima di raggiungere il comandante. Gliel’avrebbe fatta pagare in qualche modo. Aveva provato a volergli bene, era troppo in difetto, però. Troppo in là nella gelosia, nel terrore.
“Cercala ancora e giuro, avrò la tua testa.” Sogghignava beffardo, nel delirio della vittoria. “Dille una parola, vedrai che non ci sarà occasione per discutere ancora. Conosco il segreto, scappa via, sei ancora in tempo.”
“Dimentichi, Inquisitore, che anch’io conosco il tuo.” Ribatté Ogmund. “Falle del male, ci metterò poco a farti cadere in disgrazia. A quanto pare, lo Jarl ti digerisce perché rappresenti un compromesso, un mezzo per assicurarsi il quieto vivere. In realtà, per gli altri sei un boccone amaro”.
Se ne andò a malincuore. Sottrarre il dio allo scempio dell’altmer era la cosa migliore da fare, ma era solo. Non avrebbe osato sfiorare la ragazza, ormai era al sicuro. Conosceva lgmund: era un subdolo opportunista, un voltagabbana quando si trattava di volgere le situazioni a proprio favore. Di fronte a un pretesto altrettanto valido, la reazione non si sarebbe fatta attendere.
Aveva guerreggiato, sfidato contendenti abili quanto lui in battaglie di forza e intelletto. In minoranza, in reato... certo. Tuttavia, Talos l’avrebbe sostenuto. Gli avrebbe sussurrato di tollerare, di armarsi di onore e pazienza, perché è forte anche colui che accetta, nella perdita, la sconsideratezza del proprio accusatore.
Una risoluzione, sì... se l’augurava per tutto il bene che le portava. Il Dio sapeva cosa c’era nel suo cuore, di sicuro l’avrebbe apprezzato. Anche se non ci sarebbero stati più né incenso né fiori. Anche se tutto, da quella notte in poi, sarebbe stato più difficile. Non poteva dire, però, che le cose fossero semplici a Skyrim. In effetti, non lo erano mai state.
Giunse le mani e affrettò il passo verso casa.
 
Sullo scudo morivano le deboli luci delle candele, la piacevole frescura dei fiumi sotterranei. Stonava con lo sporco sui volti, con le armature di cuoio e placche intrise di fango e sangue. Aveva i capelli che somigliavano al pelo incrostato di un cane sotto la pioggia, non batté ciglio e avanzò verso la rampa, verso il seggio dello Jarl.
Quasi ebbe un mancamento: la prima cosa che Igmund notò fu lo scudo, bello come gliel’avevano descritto, come ricordava in una lontana immagine. Dorisa lo stringeva davanti a sé, un po’ per riverenza, un po’ per risparmiarsi la vergogna.
Il proprietario si sciolse in mille ringraziamenti, in promesse che valevano quasi il disgusto provato mentre ficcava nella gola dello sciamano una lama d’argento. Sam si era divertito a deturpare i corpi, ad aprire un sorriso sui volti irosi dei Rinnegati. Che scempio n’era stato.
Il Padrone aveva avuto un’idea geniale nel presentare lo scudo in ghingheri, e i due combattenti come due cenciosi reduci.
“Ti concedo l’onore di acquistare una proprietà a Markarth.” Sentenziò Igmund, rimirando il manufatto. “E il titolo di Thane, sacerdotessa. Resta il fatto che i tuoi... consulti dovranno rispettare il decoro della città.”
“Mio Jarl.” Cinguettò Dorisa, adoperando le ruffianerie insegnatele da Sanguine. “La mia vita è girovaga e ahimè, per me una nuova residenza sarebbe un piacevole tesoro, nient’altro.”
“Rimarrete qui a corte e usufruirete dell’ala ovest, allora. Farò montare dei tramezzi all’ingresso delle rovine dwemer, e pulire la zona più sicura. Avrete dei letti di legno, e dei bauli per riporre le vostre cose...”
“Per fortuna!” Sghignazzò Sam. “Non ci tenevo affatto a dormire ancora su un letto di pietra!”
Igmund represse un colpo di tosse e proseguì.
“Anche la pietra vive, qui a Markarth. È un peccato che tu non possa apprezzarla, altrimenti saresti poeta, e non buffone.”
Non provare a dire altro, non farlo... ti prego! Ogni tanto le tornava utile farsi leggere il pensiero. Sam abbassò le braccia e chiuse la bocca, cercò le sue mani. Dorisa la strinse.
“Ah, gli sciocchi sono sempre i più fortunati.” Rise lo Jarl, porgendole una spada incantata. “Almeno accetta questa, sacerdotessa, come segno della mia riconoscenza. D’ora in poi sarai cittadina di Markarth, e ti sarà concesso il rispetto che il titolo comporta. Anche se... no, non potrò finanziare il tempio. Cerca altri mecenati, Thane, perché io non oso legare il mio nome ad un opera così... controversa.”
“Il principe è paziente, mio Jarl. Non obbliga i seguaci con la forza, ma lascia che essi lo scelgano.”
“Ne sono lieto.” Li salutò con lo stesso cenno. Dorisa aveva imparato che certe espressioni, certe pose dure, rappresentavano la personalità dello Jarl ma non la fiducia, la soddisfazione verso i propri vassalli. Come la statua di un antico eroe, dalle fattezze dure e arcigne, ma dall’indole condiscendente.
Igmund le aveva assegnato una montagna di nome Aegis, un uomo brusco, dalla voce bassa. Montava a guardia davanti la porta, spesso perlustrava le gallerie iniziali delle rovine per assicurarsi che nessun ragno velenoso, o di fattura dwemer, sconfinasse nel piccolo dormitorio. Bastava il rumore di un passo leggero, o un vocio concitato ad attirarli verso la parte alta della costruzione. Per fortuna, il corridoio appariva desolato, proprio come lo Jarl l’aveva descritto.
“Controverso, io? Puah. Questi Nord, in realtà, sono tutti spilorci. Ho fatto bene a scegliere te.” Ammiccò Sam, posando il pollice e l’indice sul suo mento.
“Una studentella sotto le mentite spoglie del Sangue di Drago?”
“No, una dunmer.” La interruppe, sussurrandole la frase in un orecchio. “Se siete stati capaci di costruire per Azura un altare talmente maestoso... diamine, il mio potrebbe eguagliarlo in grandezza. E in abbondanza di risorse!”
“Oltre a doppi sensi, ti prodighi anche in secondi fini...” Sussurrò Dorisa, prendendo posto su un pilastro monco e attendendo che i garzoni finissero di sistemare la loro nuova casa. “Ci penso, a volte. Ho lasciato Azura, Winterhold. Mi sono gettata nell’avventura, dando conto ai sentimenti che nutro per te. Come sarebbe stata la mia vita, se non t’avessi incontrato?”.
“Mm. Noiosa?” Suggerì Sam, massaggiandole le spalle. “Sto mantenendo la promessa. Di starti vicino, ovunque tu vada. Non dirmi che vuoi già gettare la spugna, signorina. Di solito non prendo mai cantonate.”
“Sono stanca.” Confessò le proprie emozioni a mezza voce. “Ho vagato e vagato per Skyrim. Credevo di poter sopravvivere a tutto ciò, di poter tollerare gli sguardi obliqui dei paesani. La parte timida e solitaria che è in me reclama la casa, la sedia davanti al focolare e il nostro amico peloso steso sul tappeto. Mi sto rendendo conto di non esser fatta per le grandi cose, piuttosto per la vita semplice.”
“E allora?”
“Allora... be’, Sam. Non mi sento all’altezza, nonostante i tatuaggi, la Rosa, le imprese eroiche e questa immagine da amazzone che mi hai cucito addosso.”
“Neanche la compagnia di un principe daedrico ti alza l’autostima? Sei davvero strana... per questo mi piaci.”
“Non sono strana... sono solo mortale.”
“Ah, certo... me ne stavo dimenticando.”  La pausa di un respiro. Non le diede tempo di raccogliere i pensieri, di mantenere la linea ché subito cambiò argomento. “Di’ un po’... non è che forse ti serve una cameriera? Una confidente, o una specie di fratellino da accudire? Non hai mai avuto molti amici, Brelyna e gli altri... forse hai riso, scherzato con loro... però, ora che non ci sono, potresti soffrire la solitudine.”
“E tu... non pensi di esser abbastanza, Sam?” Da tanto tempo non parlavano in quel modo. Sembrava che tutto fosse tornato ai vecchi tempi, quelli al Focolare Gelido, davanti ad una crostata di bacche e una pinta di birra. “Alla fine, se ho accettato di seguire il destino, l’ho fatto anche per te.”
“È questo che mi spaventa... sei sensibile, altruista.” Commentò, facendosi serio tutt’un tratto. “Una parola sbagliata e mi sarò giocato tutto.”
“Perché pensi che voglia abbandonarti? Stai parlando come se dipendesse da me. Come se fosse possibile rinnegarti.”
Sì, poteva farlo, e in qualsiasi momento. Più il potere del Sangue di Drago cresceva, più la volontà di Dorisa trascendeva le cose mondane. A Martin Septim era accaduto lo stesso: illegittimo figlio dell’Imperatore, prima sedotto da una vita di sregolatezze, poi il pentimento, l’abbraccio di Akatosh.
Era sempre un drago a vegliare sulle sue malefatte...
“Signora, abbiamo finito.” Tuonò una guardia dal marcato accento dell’ovest. “Tutto a posto. Lo Jarl offre vivande, carta e inchiostro, cuscini e lenzuola pulite. C’è bisogno d’altro?”
“A dire il vero... sì.” Squittì l’ancella, saltando giù dal pilastro. “Una domestica, se qualcuno in paese è disponibile. Non mi aspetto d’esser inondata di richieste, so come funzionano le cose quando si ha a che fare con qualcuno come me.”
“Vi temo, Signora... più per sentito dire, ma alla fine siete a posto. Volete un consiglio? C’è Hroki, la figlia del locandiere. Cairine, purtroppo, è troppo malata per lavorare... ma se volete fare comunque una buona azione, quell’elfo, lì... quello che somiglia a una donna. Come si chiama? Elanil. Un povero diavolo, lo schiavo dell’Inquisitore. Lavora tutti i giorni alle fucine, però, stando a quello che mi ha detto la fantesca, che ha origliato di nascosto una conversazione mentre passava a lucido davanti la forgia, non ha un gran futuro.”
“Perché? Non lo conosco... e pure se fosse, un giovane così laborioso sembra una brava persona.”
“Ah, certo. Ora l’Inquisitore lo tiene segregato nella Tenuta perché gli ha disobbedito. Non fa altro, quindi, da mane a sera. Batte il ferro, lo fa raffreddare, ribatte il ferro... sapete come funziona.”
“Vorrei parlargli, se è possibile.”
La guardia rise della grossa.
“È questo il problema, muto come una tomba. Lo vedo bene nella sala dei defunti, ha il contegno giusto per imparare il mestiere.”
“Lo faccia chiamare.” Insisté Dorisa, mentre Sam la fissava, intento.
“Ci posso provare, ma non garantisco successi. Parlate con l’Inquisitore, sempre se riuscite a superare la scorta e la propaganda politica dei Thalmor. Buona fortuna!”
Voltò le spalle, e assieme a lui sgombrarono il campo altre tre guardie. Da lontano li osservarono andar via, mentre alle narici giungeva un odore di acqua calcarea, muschio ed esalazioni alchemiche dal laboratorio del ricercatore altmer, poco più in là.
“Buona fortuna... è la seconda volta che me lo dicono, qui a Markarth. E comincio a pensare che sia ironico.”
“Capisco, lo Jarl non s’è mostrato collaborativo. Senza contare che, secondo me, non sa nulla di draghi. Oh, Sam... non comprendo perché dobbiamo rimanere ancora qui. Stiamo solo perdendo tempo.”
“Ah, no.” Il bretone le girò attorno, piantonandosi di fronte. “Dimentichi il tuo lavoro, cara. Stasera avremo visite.”
“Cosa te lo fa pensare?” Dorisa saltò sulle scale e gli fu accanto, con la fronte aggrottata e un broncio d’irritazione. “Anche se avessimo acquistato Vlindrel, lo Jarl avrebbe fatto in modo di tenerci chiusi dentro... o di renderci inoffensivi. Non te ne sei accorto? Si fida, però teme che gli portiamo lo scompiglio in città. Preferisce, forse, che i cittadini sudino giorno e notte nelle miniere. O che i Sangue d’Argento non si mischino a clan altrettanto influenti, con chissà quali alleanze matrimoniali. Questi hanno il cuore di pietra, altro che notti di piacere...”
“Sciocca.” Sam si pulì le unghie con un fazzoletto attorcigliato su se stesso, esasperato. “Togli la libertà ad un individuo... ingabbialo dietro le sbarre delle regole. Sottraigli il tempo, dagli i soldi necessari per procurarsi di che vivere, senza frivolezze... e avrai l’ambiente ideale per pascere un gregge di gozzovigliatori. Per questo i piaceri migliori non sono alla portata di tutti, o meglio... faccio in modo che non lo siano. Altrimenti, tutto scadrebbe nella noia.”
“E un tipo come me, una finta seduttrice, è l’ideale per richiamare file e file di spettatori...”
“Sono un buffone di successo.” Ghignò Sam, cacciandosi il fazzoletto in tasca. “Avanti, finta-cattiva-ragazza, vatti a preparare. Fai in modo che tutto sia organizzato per benino, e soprattutto, con naturalezza. Credo che il nostro ospite, stanotte, avrà un paio di segretucci da confessare, e aiuto da offrire. Ogni cosa ha un prezzo, però... e certe informazioni non crescono sugli alberi”.

 

Mentre scrivevo Il sonno della belva ho terminato anche questo capitolo. Be', diciamo che l'introspettività è la stessa... sarà il periodo.
Momento di transizione, perché dovevo spiegare la rabbia di Ondolemar verso il mondo e verso il povero Ogmund, in qualche modo. Almeno avere dei motivi plausibili per rendere l'odio tra i due reciproco, non solo ideologico. Siamo ai livelli della malattia mentale, forse, ma un inquisitore come lui, tutto frasi fatte e misteri, non me lo immagino così equilibrato. 
E più spazio a Dorisa e Sam... ho saltato la descrizione delle battaglie contro i Rinnegati perché ai fini della storia era inutile. Ehm, ammetto che questi paragrafi sono infarciti di chiacchiere, ma non sono un riempitivo. 
Piccola precisazione di turno: se scrivo altre storie, non intendo lasciar perdere quelle già in corso, anche se sono in standby per un po'. Se non continuo una storia in particolare è per ragioni personali, però, questo non esclude che io intenda portarle a termine. So che un atteggiamento simile può dar fastidio e alla lunga provocare frustrazione... mi auguro che chi mi segue continuerà a farlo, anche se non riesco a concentrarmi su una sola cosa per molto tempo. In verità, nella mia mente, ogni storia ha un inizio, uno svolgimento e una fine. Sono già complete, il problema è scriverle. Purtroppo, anche se ho le idee, esprimere un concetto non mi è poi così semplice. Più che altro è una questione di concentrazione, o di essere "dell'umore giusto". Il regalo migliore che posso farvi, quindi, è pubblicare i capitoli quando so di dare il massimo ed essere all'altezza delle vostre aspettative. Il tempo che mi dedicate per la lettura delle storie è prezioso, io posso ricambiare solo in questo modo. :)
Anche se sono cose scontate, ci tenevo a ribadirle. A presto! :D
  
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