Disegni sul vetro
Nel corridoio del primo piano della
base regnava il silenzio.
Jean uscì di fretta dalla propria
stanza, in cui era entrato pochi minuti prima per prendere il mantello,
e
sospirando ripensò a cosa gli era stato comandato. Levi gli
aveva ordinato di
fare la ronda per tutta l'ora successiva e di occuparsi
dell'approvvigionamento
di legname per il fuoco che avrebbero acceso quella sera stessa: da
qualche
giorno il tempo era cambiato e l'aria si era fatta più
fredda, costringendo i
membri della Squadra ad uscire sempre bardati di mantelli e cappucci
per
evitare di rimediare inconvenienti come raffreddore, tosse e febbre.
Quando il
Capitano Levi si era accorto che Armin aveva iniziato a tirare su con
il naso e
Connie a reprimere attacchi di tosse, si era subito preoccupato che
tutti
stessero bene: non poteva permettersi sottoposti ammalati, date le
circostanze.
Jean scese le scale buttandosi il
mantello sulle spalle e annodandolo fin sotto il mento, preparandosi ad
affrontare il proprio turno di guardia. Sperò vivamente che
la temperatura
esterna fosse aumentata, ma si disse anche di non illudersi; era sempre
meglio
prepararsi al peggio. Si avvicinò allo spartano appendiabiti
da parete che
Sasha aveva affisso per ordine del Capitano e recuperò uno
dei cappelli forniti
da Hanji, augurandosi di non averne bisogno, poi, incamminandosi verso
la porta
della base, passò davanti alla piccola cucina in cui tutte
le sere si riuniva a
cena con i compagni.
Lanciò distrattamente un'occhiata all'interno
e si accorse di Mikasa. La ragazza era in silenzio, come al suo solito,
ma
sembrava ancora più assorta. Seduta al tavolo, teneva
davanti a sé una tazza di
quel latte che solo sporadicamente era possibile ottenere dall'interno
delle
Mura e la fissava senza guardarla davvero. Jean si chiese tra quali
pensieri si
fosse persa e ne ebbe solo una vaga idea quando la vide poggiare i
gomiti sul
ripiano e affondare le mani tra i capelli, sorreggendosi la testa come
se la
mole di preoccupazioni l'avesse resa più pesante. Mikasa
sospirò, continuando
ad osservare un impreciso punto di fronte a sé, e al ragazzo
si strinse il
cuore nel vederla in quello stato. Sapeva perfettamente che le ultime
settimane
della compagna non erano state facili, anzi: costretta a letto a causa
delle
fratture riportate nell'ultimo scontro con i Titani, sembrava essersi
ripresa
in fretta solo grazie alla sua straordinaria forza di
volontà; aveva poi
ricominciato a eseguire tutti gli ordini impartiti da Levi e aveva
assistito
Hanji nelle sperimentazioni sul Potere detenuto da Eren. Insomma,
doveva essere
davvero provata, tanto nel corpo quanto nell'anima. E questo era solo
ciò che
era accaduto nell'ultimo mese e mezzo, figuriamoci se avesse
considerato tutto
quello che era avvenuto prima di allora.
Jean rimase ad osservarla ancora per
un po', indeciso se entrare nella cucina per chiederle cosa non andasse
o se
restare fermo sul posto per sbirciare la sua figura stanca, ma
così
incredibilmente bella nella sua umanità. Era conscio del
fatto che Mikasa non
gli avrebbe risposto oppure avrebbe cercato di evitare l'argomento se
la
conversazione avesse toccato quel tasto dolente, quindi si risolse a
guardarla
per i due lunghi minuti successivi, desiderando di poter alleviare
anche solo
per un istante la sofferenza che si portava dentro.
Quando la ragazza si tirò indietro i
capelli e si passò le mani sul volto stropicciato
– segno di una notte insonne
e riempita da chissà quali incubi – Jean seppe di
dover andare. Si sistemò
meglio il mantello, scivolatogli lungo una spalla, e calcò
il cappello sulla
testa, attraversando il piccolo corridoio che conduceva alla porta. La
spalancò
ed uscì, venendo travolto da un impetuoso soffio di vento
che quasi gli strappò
via il cappello appena indossato.
“Nuvole grigie in avvicinamento”,
constatò, scrutando il cielo; doveva sbrigarsi a recuperare
la legna,
altrimenti sarebbe tornato alla base fradicio come un pulcino e la
ricompensa
sarebbe stata una bella strigliata da parte del Capitano. Si
sfregò le mani,
particolarmente esangui a causa del freddo, e se le portò
alla bocca per
riscaldarle un po', poi si decise ad attraversare lo spiazzo erboso per
sparire
nel bosco.
Mentre camminava, l'immagine di Mikasa
non faceva altro che rimbalzargli da una parte all'altra della testa.
Avrebbe
veramente voluto vederla serena e finalmente priva di qualsiasi
preoccupazione,
ma cosa poteva fare? Parlarne con lei era impossibile, discuterne con
gli altri
improbabile – Connie sapeva fin troppo bene quanto Jean
tenesse alla ragazza e
ribadire implicitamente quel concetto continuando a preoccuparsi per
lei non
avrebbe di certo aiutato a mascherare quei suoi sentimenti palesi a
tutti,
tranne all'interessata. Allora? Come riuscire a tirarla su?
Continuò a rimuginarci lungo tutto il
tragitto. Aveva già iniziato a raccogliere la legna quando
ebbe
l'illuminazione.
Si trascinò dietro il materiale
recuperato e tornò alla base. Man mano che si avvicinava,
l'idea che gli era
saltata in mente appariva sempre più giusta e stupida.
Avrebbe funzionato? Magari Mikasa era già stata richiamata
dal Capitano Levi e non l'avrebbe più rivista prima di cena.
Se così fosse
stato... Be', Jean non era totalmente convinto della
malvagità di quel
possibile scenario, dato che avrebbe di sicuro evitato una figuraccia
– e Dio
solo sapeva quanto lo atterriva il pensiero di essere considerato
sciocco,
superficiale e incompetente dalla ragazza che amava da ormai tre anni.
Se
l'avesse ritrovata in cucina, allora avrebbe rischiato.
Raggiunse di nuovo lo spiazzo e vi depositò
la legna raccolta. L'accetta era stata conficcata in un vecchio tronco
reciso e
Jean si domandò se il Capitano volesse che fosse lui a
spaccare il materiale
per il fuoco. Scosse la testa: aveva tempo per occuparsene. E poi la
fase di
approvvigionamento non era ancora conclusa, quindi non valeva la pena
preoccuparsene in anticipo.
Spostò gli occhi sulla finestra della
cucina. Dal punto in cui si trovava era impossibile dire se ci fosse
qualcuno
dentro o se la stanza fosse vuota, perciò, prendendo un bel
respiro e
stringendosi nel mantello, si incamminò in quella direzione,
riducendo
lentamente, ma a grandi passi, la distanza che lo separava dal suo
obiettivo.
Quando finalmente fu accanto alla finestra, sbirciò
all'interno.
Dovette guardare per alcuni minuti per
far riabituare la vista alla penombra che ammantava l'interno. In quel
momento
si augurò che non ci fosse nessuno, anche perché,
se qualcuno avesse visto la
sua espressione crucciata, lo avrebbe preso in giro fino a fine
giornata. Solo
quando i suoi occhi decisero di collaborare si rese conto che Mikasa
era
esattamente dove l'aveva lasciata. Non più al tavolo, ma
intenta a sciacquare
alcune tazze sporche in una tinozza.
Jean capì che non si era accorta della
sua presenza e trasse un sospiro di sollievo. Adesso, però,
sarebbe venuta la
parte difficile.
Il volto della ragazza era ancora
oscurato da ombre di preoccupazione. La fronte corrugata era segno di
stizza,
di pensieri infausti di cui non riusciva a liberarsi. Fu quella visione
a
convincere definitivamente il compagno ad agire.
Jean picchiettò debolmente contro il
vetro della finestra, ma evidentemente il rumore fu coperto dallo
sciacquio
dell'acqua nella tinozza, perché Mikasa non alzò
lo sguardo. Allora ci riprovò,
stavolta battendo con più forza. Al terzo tentativo, gli
occhi della giovane
incontrarono i suoi. Un'espressione perplessa plasmò il suo
volto,
costringendola a sollevare un sopracciglio nel chiedersi di cosa avesse
bisogno
il compagno di Squadra.
Jean agì con una naturalezza che credeva
di aver perso: alitò sul vetro e ne fece appannare una
piccola parte. Poi, con
l'ingenuità tipica di qualsiasi bambino, disegnò
una faccina sorridente che
rimase impressa sulla finestra per poco più di un minuto,
esposta com'era al
vento gelido proveniente da ovest.
Guardò Mikasa oltre lo smile finché
quest'ultimo non scomparve. A quel punto rimasero soli, a fissarsi
reciprocamente senza che ci fossero ostacoli o intermediari tra di
loro. Jean
sentì il cuore battere lentamente, ma assestando colpi che
echeggiarono fin
nello stomaco, aspettando che la ragazza raccogliesse il consiglio che
aveva
disegnato per lei sul vetro. Nei suoi occhi leggeva sorpresa, come se
avesse
dimenticato di aver compiuto anche lei quel gesto da bambina, quando la
cucina
di casa si riempiva di vapore e del profumo dei cibi più
gustosi che sua madre
sapesse preparare, e sperò che gli rispondesse con un
sorriso, seppur velato.
Non riuscì a decifrare ciò che le
labbra di Mikasa, chiuse e immobili, avrebbero voluto dire. Allora,
credendo di
essere stato frainteso, Jean le rivolse un sorriso rassicurante, un
sorriso che
le gridava "Non cedere alle preoccupazioni, sii felice. Io
sarò sempre qui
per te". Poi si voltò verso il bosco, deciso a riprendere le
proprie
mansioni lì dove le aveva interrotte.
-Cosa stai guardando?-.
La voce di Eren fece sussultare la
ragazza, che teneva ancora le mani immerse nell'acqua della tinozza e
gli occhi
fissi sulla finestra. Gli rivolse un'occhiata veloce e poi
tornò a sbirciare
oltre il vetro, riprendendo a pulire le ultime tazze rimaste.
-Ah, c'è della legna da spaccare-,
proseguì Eren, avvicinandosi alla finestra e accorgendosi
del cumulo depositato
da Jean. Poi, rivolgendosi a Mikasa, che aveva abbassato repentinamente
gli
occhi per evitare di essere di nuovo colta in flagrante,
continuò: -Il Capitano
sta discutendo con Historia a proposito di ieri sera. È
ancora terrorizzata...
Comunque, io vado ad aiutare Faccia da Cavallo. Se qualcuno mi cerca,
sono
fuori-.
Senza aggiungere altro, Eren raccolse
il mantello che aveva poggiato su una sedia appena era entrato in
cucina e
uscì, tirandosi il cappuccio fin sulla fronte per
contrastare il vento che
aveva visto scuotere forsennatamente gli alberi intorno
all'accampamento.
Mikasa sentì il cigolio della porta d'ingresso e, rimasta
sola, spostò
un'ultima volta lo sguardo sul punto del bosco in cui il compagno era
sparito.
Non ci fu nessuno a cogliere il tenue sorriso che le
illuminò il volto, mentre
le sue labbra si schiudevano pian piano per articolare un unico suono: -Jean-, disse, insicura di averlo
pronunciato sul serio. -È così che si chiama.
Solo Jean-, aggiunse, come se
avesse voluto correggere Eren.
Era bastato un piccolo smile sul vetro
a farle riscoprire quanto fosse bella la normalità. Quella
goccia di felicità
arse in lei per il resto della giornata e con essa l’immagine
del ragazzo che
con tanta devozione era tornato indietro solo per rischiarare i suoi
pensieri.