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Autore: Castiga Akirashi    10/09/2015    1 recensioni
- ATTENZIONE: questa storia è il seguito di Black Hole. Se non avete l'avete letta, la comprensione potrebbe risultare difficile. -
Due anime gemelle sono due metà che si compongono.
Una non può vivere senza l'altra.
Raphael ha perso la sua e, ora, la sua unica gioia è Lily.
Ma capirà presto che non è mai troppo tardi per essere felici...
Questa storia è un po' diversa dalle altre sui Pokémon... diciamo che ci sono lotte, ci sono Pokémon ma c'è anche altro. Ho cercato di inserire il più possibile inerente all'argomento.
Buona lettura!
Genere: Fantasy, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lance, N, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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“Archer ci è riuscito.” pensò Lily, assolutamente determinata ad andare fino in fondo: “L’ha vista. Posso farcela anch'io. È mia madre! E io voglio conoscerla.”
Lily era determinata a conoscere Athena, il Demone Rosso e la donna che l’aveva messa al mondo; niente le avrebbe fatto cambiare idea e nessuno l’avrebbe fermata. Nemmeno la paura di venire uccisa o chissà che altro. Doveva però capire come vederla senza chiedere aiuto. Chiunque le avrebbe impedito di andare in un carcere per vedere da sola il Demone Rosso. Era perfettamente logico e anche lei stessa, se non ci fosse stata dentro, avrebbe detto a chiunque di non fare una pazzia del genere. Prese il cellulare, cercò un numero in rubrica e mormorò, appena la persona all'altro capo rispose: «Ehi. Mi serve un favore. Sai trovare l’indirizzo del carcere di Zafferanopoli? No, non sono nei guai, Felix. Mi serve solo l’indirizzo. Ti devo un favore!»
La ragazzina fissò quel foglietto, dove aveva appuntato il nome della strada. Era determinata. Ma doveva agire con calma o il padre l’avrebbe scoperta. E sicuramente bloccata.
Alcuni giorni dopo, aspettò che lui se ne andasse, uscì di casa di soppiatto e chiese a Wargle un passaggio per il continente, con la scusa che doveva studiare da un’amica. Era un trucco che funzionava sempre. Congedata l’aquila, arrivò nella periferia di Zafferanopoli e guardò l’indirizzo sul foglio e quello sul cartello. Coincidevano. Fece un respiro e osservò attenta l’edificio: un enorme fabbricato, circondato da una recinzione molto alta e stretta, con telecamere ovunque e altri sistemi di sicurezza a lei sconosciuti. Giunta al portone di acciaio, si avvicinò alla guardia. L’uomo, in divisa e con una pistola alla cintola, la guardò perplesso e lei chiese: «Mi scusi se la disturbo, signore. Quando… quando si possono fare delle visite?»
«Sei qui da sola?»
«Sì, signore.»
«Non posso farti entrare, bambina. Possono aver accesso alla struttura solo gli adulti.»
Lily ringraziò e si allontanò abbattuta. Non poteva nemmeno vederla, tentare di parlarle. Fece il giro della recinzione, ma c’era un muro dietro. Non riusciva a vedere dentro, figuriamoci superarlo. Sospirando rassegnata, fece per tornare a casa e pensare a qualcos'altro, ma una voce chiese: «E tu chi sei?»
La ragazzina si voltò e vide di fronte a lei un uomo alto con i capelli arancioni sparati in alto con il gel, molto muscoloso, che indossava un completo di pelle nero e un mantello, rosso all’interno e nero all’esterno.
Lance guardò quella bambina con curiosità. Le assomigliava molto, troppo. Fino all’ultimo capello.
«Chi è tua madre?» chiese a bruciapelo, senza nemmeno presentarsi.
Lei lo fissò decisa, anche se leggermente intimorita, e rispose: «Non lo so. Ma mio padre è Raphael Grayhowl.»
Lui si lasciò sfuggire un sorrisetto e comprese. Era passato parecchio tempo tra la sua partenza da Isshu e la presunta morte di Athena. Ovvio che avessero fatto dei passi avanti. Così avanti però non se lo sarebbe mai aspettato. Ma non c'erano dubbi che dicesse la verità. Le assomigliava in tutto e per tutto, anche per il caratterino.
«Capisco.» borbottò, senza riuscire a staccarle gli occhi di dosso; inclinando il capo, aggiunse: «E cosa ti porta qui? Se cerchi tuo padre, non lo troverai.»
«No.» sbottò lei, ricambiando lo sguardo celando il timore: «Non posso vedere chi sto cercando quindi me ne torno a casa.»
Lily cominciò a camminare impettita sul marciapiede, diretta verso la città, ma il Campione sogghignò e chiese: «Vuoi conoscere tua madre?»
La ragazzina si bloccò sul posto, inorridita. Si voltò di scatto e vide l'uomo far penzolare un mazzo di chiavi che teneva per l'anello tra il pollice e l'indice. Fu tentata di accettare, ma poi si insospettì e chiese: «Che cosa ci guadagna lei?»
Il sogghigno del Campione non svanì ma lui rispose: «Direi che questo non è affar tuo. Sappi solo che non hai altri modi per vederla. È sotto la mia custodia e se io non voglio che qualcuno la veda, nessuno la vedrà. È la tua unica possibilità.»
Lei si morse il labbro, ma la curiosità era più forte della diffidenza, così si avvicinò a lui e annuì. Lui sorrise e, mentre andavano sul retro del carcere, a una porta secondaria, lui disse: «Inventati una scusa per la tua presenza lì. Io non c'entro.»
«Va bene...» annuì lei. Cominciava ad avere la tremarella. Era sia terrorizzata che emozionata nel conoscere la madre. E solo quella porta le separava. L'ansia cominciò a prendere il sopravvento. Lily deglutì ma non si sarebbe tirata indietro. Doveva proseguire nel piano. Stava avendo successo, dopotutto.
Lance inserì la chiave nella toppa, digitò una password e le aprì la porta, ma sussurrò: «Resta qua e fai finta di esserti intrufolata. Tra un po' torno e esci, ok?»
«Bel piano.» annuì lei, seguendolo quatta, quatta.
Il Campione andò con passo tranquillo verso la cella e salutò: «Ehi, pazzoide.»
«...ao, Lance.» rispose una voce di donna, un po' flebile.
«Non dirmi che stavi dormendo!» esclamò scherzosamente lui, notando l'entrata della ragazzina con la coda dell'occhio.
Athena si alzò dalla branda, si stiracchio e, avvicinatasi alla grata, gli sbadigliò rumorosamente in faccia giusto per anticipare la risposta, che fu: «Qui è tutto buio. Non starei sveglia nemmeno con tutto il mio impegno.»
Lui ridacchiò e gli venne in mente la risposta degna, ma forse l'avrebbe irritata troppo, così si arrese e disse solo: «Ammettilo che preferivi i sotterranei della Lega.»
«Sicuramente.» annuì lei: «Erano meno soffocanti, accidenti a Vodel.»
I due parlarono per un po’ finché il Campione non salutò e uscì. Lily restò accucciata nel suo angolo, aspettando che l’uomo finisse di chiudere la porta. Ma poi non si mosse. Non sapeva come rivelare la sua presenza alla madre. Doveva ammetterlo, aveva paura di una reazione violenta da parte sua. Non sapeva che lei era sua figlia, quindi avrebbe potuto farle di tutto. Ma ormai era in ballo e doveva ballare. Athena però l’aveva sentita entrare, ma non uscire, dato che i passi rimbombavano: c’era una persona che non voleva farsi vedere. Dopo un po’ di attesa volta a capire se l’estraneo si sarebbe mostrato o meno, la donna borbottò: «Chiunque tu sia… sappi che Lance fa sempre minimo due visite e questa era la prima, quindi prima di stasera esci.»
Vedendo che aveva parlato e sembrava più sana di mente di quanto si fosse aspettata, Lily si fece un po’ di coraggio e rispose: «Non è di questo che ho paura.»
La donna ascoltò la voce: non era di un adulto. Era la voce di una ragazzina, ancora molto giovane. Non toccava probabilmente nemmeno i quindici anni.
“Che ci fa qui?” pensò perplessa, mentre rispondeva: «E di cosa allora?» aspettandosi l’ovvia risposta, cioè che temeva lei; sempre se sapeva chi fosse.
«Del buio.» rispose la ragazzina, con un mezzo ghigno: «Da sempre. Ma dato che c’è qualcun altro, è meno.»
Athena restò un momento interdetta da quella risposta, ma concluse che probabilmente non la conosceva, così espresse la domanda che le premeva da un po’, ovvero cosa ci facesse lì. Lily si fece un po’ di coraggio, si avvicinò un momento e rispose con un’altra domanda: «Sai che mio zio si chiama Archer?»
Lei restò un secondo scioccata dalla notizia del tutto inaspettata, poi fece per borbottare qualcosa di risposta ma la piccola proseguì: «E tu sei sua sorella, no?»
La donna non rispose, cercando di capire dove volesse andare a parare la ragazzina; dopo un po’ di riflessione su cosa dire, chiese: «Chi te l’ha detto?»
«Lui.» rispose lei, sorridendo: «Non voleva parlarmene, ma ho aspettato il momento giusto e ha cantato subito.»
«E come hai fatto a scoprire che sono qui?»
Lily sorrise con un ghigno sornione, ripassando mentalmente la storiella che si era inventata per ribattere all’ovvia domanda e rispose: «Abbiamo fatto una gita in carcere con la scuola e non ti ho vista. Quindi eri nascosta. Allora ho seguito quel tizio palestrato e mi sono nascosta qui finché non è uscito.»
Athena, sempre più colpita da quanto fosse furba, continuò ad interrogarla; quando le chiese però se sapesse chi era lei in realtà, nome, cognome ma soprattutto soprannome, la ragazzina titubò. A scuola, con gli amici, tranne che a casa, aveva imparato a temere quel nome senza realmente sapere cosa fosse successo. E in giro, per le strade, anche solo nominarlo era tabù. Dirlo poi in faccia a lei… era quasi come una provocazione. Ma contando sul suo istinto materno, sperando che esistesse, rispose: «Sì. Il… Demone Rosso.»
Ponderando la risposta, cercando di decifrare il suo tono di voce, la donna chiese nuovamente: «E allora perché sei voluta venire qui?»
Non capiva cosa volesse. Se sapeva chi era, sapeva anche le storie che raccontavano su di lei. Perché andare da sola e senza protezione nella tana del lupo? Non aveva il minimo senso... Non lo disse apertamente, ma con il tono di voce volle far intendere il fatto che avrebbe potuto ucciderla seduta stante; doveva farle paura; doveva capire chi aveva davanti. Lily comprese il sottinteso, perché ribatté: «Allo zio non andrebbe molto giù, se mi succedesse qualcosa. E comunque, sì, so che è un rischio, ma volevo sentire la terza campana. Sono cresciuta con l’idea di aver a che fare con un mostro, ma lo zio mi ha distrutto ogni certezza.»
Athena si mosse apposta, facendo tintinnare le catene nel buio giusto per ricordarle in che situazione era, ma non per farle realmente paura: quella ragazzina le piaceva. Si era buttata a capofitto in un enorme pericolo, senza dar ascolto alle voci di altri. Ci era voluto probabilmente davvero molto coraggio. Prima che la donna potesse dire qualunque cosa però la porta si riaprì e Lance tornò. Lily restò immobile dov’era, davanti alla cella, non aspettandosi già il suo ritorno, ma una mano la prese per la maglia e la trascinò di peso in un angolo buio, nascosta al Campione. Non sapendo che i due erano d’accordo,  Athena aveva agito d’istinto per metterla al sicuro. Perfino lei si era stupita di quel gesto. La donna e Lance parlottarono, mentre la ragazzina scappava, e poi si salutarono. Fuori dall’edificio, il Campione vide Lily e le chiese: «Com’è andata?»
«Benissimo!!» rispose lei, tutta contenta e ancora emozionata di aver davvero parlato con la sua mamma: «Vero che mi fa un calco della chiave e mi da' la password?!»
Lance non rispose subito, non molto convinto di lasciare che quella bambina andasse da sola da Athena; era sua figlia, non era minacciosa, ma non era certo di nulla con quella pazza. Decise che era troppo rischioso, così rifiutò e le disse che gliel’avrebbe fatta vedere qualche volta. Lily però non si diede per vinta: se lui non l’aiutava, si sarebbe arrangiata. Facendosi aiutare dal suo migliore amico, fece un calco della chiave; con la farina soffiata sul tastierino numerico, lesse i tasti premuti per la password, e per l’ordine aspettò che il Campione tornasse per poi spiarlo. Per sua fortuna, essendo piccola, riusciva a nascondersi nei pertugi, diventando completamente invisibile.
Ottenuti il calco e la password, ovviamente alcuni giorni dopo tornò a trovare la madre.
«Ancora qui?» borbottò Athena, vedendo che la sagoma entrata era troppo piccola: «Senza Lance?»
«Non mi serve più lui.» rise la ragazzina, orgogliosa di sé: «Ho fatto un calco della chiave e ricopiato la password!»
Stupita dalla sua furbizia, la donna disse: «Complimenti.»
Athena non riuscì a trattenere un sorriso. Le piaceva quella bambina: nonostante il lampante pericolo, continuava ad andare da lei. Non ne capiva il motivo, ma le faceva piacere.
«Bene, allora. Che cosa vuoi ancora da me?» chiese, visto che lei non pareva spiccicare verbo.
«Parlare!» rispose la ragazzina allegramente: «Ma perché è tutto buio?»
Athena si guardò intorno, ricordandosi che non le piaceva l’oscurità, ma non c’erano né luci, né finestre. Sarebbe stata a rischio psicosi se non fosse stato per la cella bella grande e le visite di Lance.
Sospirando, si scusò: «Eh lo so… Non c’è luce e nemmeno una finestra.»
«E perché?»
«Perché potrei evadere!» rispose lei, con una mezza risata, facendo ridacchiare anche la sua visitatrice. Notando però il suo evidente nervosismo, riprese, seria: «Perché nessuno deve sapere che sono ancora viva. E questo è l’unico posto dove può tenermi Lance, senza che qualcuno mi veda. Non va a genio nemmeno a me in realtà, ma non posso farci niente.»
Lily annuì a voce, per farle capire che aveva compreso, e riprese a parlare; voleva conoscerla sapere tutto di lei, senza riserve, mentre Athena cercava di dire tutto nel peggiore possibile dei modi per spaventarla, per valutare le sue reali intenzioni... ma nulla pareva funzionare. Lei non pareva dare peso al negativo e, nei giorni seguenti, passò spesso a trovarla. Athena continuava a tentare di farle paura, ma Lily non la temeva e anzi, apprezzava il suo sottile sarcasmo. Aveva visto che non era aggressiva, che era solo un po' solitaria e che quindi, poteva costruire un rapporto. Di qualunque tipo. Anche solo conoscenza. Le due cominciarono a parlare di tutto ciò che veniva loro in mente. Anzi, era più la ragazzina a tenere lunghi monologhi, perché Athena era piuttosto chiusa e poco loquace di natura. Con lei però si sentiva stranamente a suo agio. Lily stava cominciando a guadagnarsi la sua fiducia. Era difficile perché la donna sembrava non riuscire a fidarsi molto della gente. Ma la ragazzina era determinata a farcela. Dopo un po’ di tempo, Athena cominciò ad aspettarla. Era bello parlare con quella piccoletta che sembrava non avere la minima paura di lei. E Lily era felicissima. Sentiva finalmente di avere una vera madre, e questo le piaceva. Non per il fatto che ricevesse coccole, carezze o chissà che altro, ma solo perché Athena l’ascoltava e le dava qualche parola di conforto, nei limiti della sua capacità emozionale di psicotica. Per Lily, l’importante era qualcuno che ascoltasse i suoi sfoghi, le sue paure, le sue preoccupazioni. Raphael era un bravo padre, sempre pronto per lei, ma con il lavoro tendeva ad aver poco tempo per la figlia e lei non voleva disturbarlo con i suoi problemi. Soprattutto ora che doveva tirare fuori lei di prigione. Con Athena, invece, parlava libera e si sentiva meglio: raccontava le sue ansie a scuola, la sua rabbia verso alcuni professori, le sue paure… e Athena ascoltava con pazienza e interesse, senza metterle fretta e dandole sempre la certezza di essere ascoltata. A volte esternava consigli macabri che le ricordavano chi fosse davvero, ma Lily faceva di tutto per ignorarla. Quella donna non era la bestia del video, su questo ne era certa. O almeno, non lo era più.
La ragazzina tornava tutti i giorni, ogni mese, con ogni tempo; passò lì tutte le vacanze estive. Voleva solo stare con la sua mamma, parlarle, conoscerla un po’, sentirsi amata. I tempi del processo erano lunghi, molto lunghi, per via delle prove che i due avvocati dovevano raccogliere: erano passati quattro mesi dall'ultimo processo e nulla faceva pensare ad un'udienza nell'immediato futuro. Nei loro incontri clandestini, parlava quasi sempre la ragazzina, anche se avrebbe voluto sapere qualcosa di più sulla donna. Ma non si azzardava a fare troppe domande. Se lei non voleva raccontare, non l'avrebbe forzata. Anche perché temeva la possibilità che si potesse arrabbiare e la uccidesse. Dopo tutto quel tempo passato insieme il timore le era passato ma aveva sentito il padre e N dire che il Demone usciva soprattutto in caso di rabbia. Quindi, era meglio non rischiare.
«… e poi.» stava raccontando quindi, tempo dopo, presa dal racconto, raggomitolata fuori dalla cella per il freddo pungente che quella stagione invernale aveva portato: «È arrivato il prof e ha fatto il tema a sorpresa! C’era Felix, il mio compagno di banco, che praticamente guardava più il mio foglio che il suo e il prof l’ha chiamato fuori interrogato per punizione! Lui ha detto tutte le vocali e nient’altro!»
Athena sogghignò, immaginandosi la scena, e commentò: «E il prof sarà stato estremamente felice immagino.»
«Di più! Voleva quasi tirargli addosso la sedia!»
La donna ridacchiò e Lily sbottò: «Uffa, a te non posso chiedere niente. Qui dentro scommetto che è talmente eccitante che ne hai da dire…»
«Talmente tante da starmene zitta!» assentì lei, per poi scoppiare a ridere con la figlia.
«Il freddo non accenna a diminuire, eh?» chiese poi, notando quanto ancora arrivava vestita pesante.
Lily sbuffò e rispose: «Macché. È già un miracolo che non mi sono ancora ammalata.»
Athena ridacchiò, ringraziando mentalmente Lance per il riscaldamento. Morire di freddo non era una delle opzioni che preferiva.
La ragazzina invece, sfruttando il silenzio, si fece coraggio e chiese, titubante, sperando di non farla arrabbiare: «Posso farti una domanda?»
«L’hai già fatta.» ridacchiò la donna, intuendo l'argomento visto il tono di voce: «Ma puoi farne un’altra, se ti va.»
Lily arrossì imbarazzata e borbottò: «Beh ecco… volevo sapere se… cioè, insomma… perché… ehm, accidenti, non so come dirlo…»
«Fammi indovinare.» la interruppe Athena, intuendo ciò che tanto la imbarazzava e un po’ anche impauriva: «Vuoi sapere perché facevo quelle cose.»
La ragazzina arrossì ancora e annuì, mezza pentita di quella domanda forse troppo impertinente. Athena però non parve offendersi, perché chiese di risposta: «Sai cos’è il disturbo antisociale della personalità?»
«No…» rispose lei, titubante. Forse le stava per rivelare qualcosa su di lei? Di sua spontanea volontà?
La donna sorrise alla reazione. Se voleva mascherare la faccia curiosa e impaziente di sapere, non ci stava riuscendo. Ridacchiò, persa nei ricordi, e commentò: «La prima volta che me l'ha detta il mio, se così posso definirlo, psichiatra, gli ho risposto che secondo me non era nulla più di una parola molto lunga.»
Fattasi seria, aggiunse: «Se ti dico psicopatia, ne sai qualcosa di più?»
Lei alzò le spalle e rispose: «Beh, l’ho sentito usare per definire le persone cattive.»
«Uso improprio del termine.» borbottò la madre, quasi lapidaria, per poi spiegarsi meglio: «Vedi… una persona diciamo normale, tende a fare il meno male possibile agli altri. L’educazione che viene impartita dai genitori insegna le regole morali e il modo di comportarsi. Ma la natura umana è crudele … »
«E questo che centra?» chiese Lily, non sicura di star seguendo il discorso.
«Ti voglio raccontare una cosa… che risponderà alla tua domanda.» rispose la donna. Non sapeva perché volesse dirglielo. Ma quella ragazzina... andava da lei, parlava con lei, le teneva compagnia... era ingiusto che non sapesse niente del Demone. Ingiusto che sapesse solo il peggio e non un po' di quel meglio che era uscito dopo anni di terrore. Voleva confidarsi. Strano ma vero. Sperò solo che non fosse pura follia.
Lily annuì, seria e concentrata, e mormorò: «Sono pronta.»
Athena la imitò, sedendosi a poca distanza da lei; solo le sbarre della cella le separavano. Con un respiro, la donna prese a raccontare: «Avevo cinque anni. Abbandonata in fasce, sopravvissuta da sola per anni. Nei boschi, per le strade... non sapevo nemmeno parlare. Giovanni mi trovò quando, per difendere Pidg, pardon “Deathly Eagle”, uccisi il suo tormentatore. Mi prese sotto la sua ala, e cominciò a crescermi, educandomi a una sorta di culto del sangue. Cosa vuoi farci, mi divertivo, non capivo che era sbagliato. Non potevo capirlo. Nessuno mi aveva mai detto “ehi, Athena, guarda che se uccidi un'altra persona fai una brutta cosa”. Anzi, Giovanni mi diceva l'opposto... Arrivò il giorno in cui non aveva più tempo per starmi dietro. Così mi portò da un suo amico, il generale LT Surge. Lui fece l’esatto contrario, rovinando tutte le fatiche di Giovanni. Mi insegnò la morale, che uccidere è sbagliato e via dicendo… sai, lo considero come un padre, anche se non è quello biologico. E gli voglio bene come se lo fosse. Sembrò che il Demone Rosso non sarebbe mai potuto nascere. Ma vedi… io sono malata. Di mente. E non dico così per dire, ma perché è vero. Soffro del disturbo antisociale della personalità. Sono una sociopatica, che perde la testa con la rabbia e che... beh, che ama uccidere come nient'altro. È inutile negarlo. La sensazione di onnipotenza, avere il potere di vita o di morte... è una sensazione magnifica. Giovanni lo scoprì e usò la mia instabilità mentale per arrivare al suo scopo. Riusciva a manovrarmi come un burattino. Mi vergogno quasi ad ammetterlo... Un sociopatico non ha pietà, non ha scrupoli, non ha coscienza, non si fida di nessuno e vive per uccidere. È disorganizzato, istintivo e non riesce a stare a contatto con la gente. Io sono così. Sono sempre stata meglio da sola, per i fatti miei…
Ma non è tutto. Sono, anzi, ero nevrotica, cioè scattavo alla prima provocazione. Anche una banalità mi faceva salire il sangue alla testa. Immagina la catena: una minima provocazione diventa un affronto per via della nevrosi, la nevrosi aumenta la rabbia, la rabbia scatena la bestia… ed eccoti pronto un bel massacro.
Semplice ed efficace, se nessuno ti insegna a controllare l’ira. E Giovanni non ne aveva alcuna intenzione.»
Presa dal racconto, anche se turbata dal sentire che era tutto vero, detto proprio da lei, Lily chiese: «Poi che è successo?»
Athena alzò le spalle, più serena di quando aveva già raccontato quella storia in passato: «Lance uccise i miei sei Pokémon. E io crollai. Psicologicamente. Scappai a Isshu, per rendere onore all’ultimo desiderio del mio amato fratello, e incontrai la professoressa Aurea Aralia. Devo tutto a lei se non faccio più del male. Mi ha rimesso sulla retta via … quando nessuno era mai riuscito a fermarmi. Non credo di essere guarita. Uccidere mi piace… però ho imparato a trattenere gli istinti omicidi, quindi non sono più pericolosa. Tranne che in casi estremi.»
«Tipo?»
«Se qualcuno osa toccare chi so io… non ci sarà cella che tenga.» rispose la donna, con un tono tetro e velato di minaccia; nessuno poteva toccare Raphael e sperare di passarla liscia.
“Papà ovvio.” intuì invece Lily. Lui l'amava e quando ne parlava, sembrava far intendere che il forte sentimento era ricambiato con la stessa intensità; e voleva crederci. Altrimenti la sua nascita e il processo non avrebbero avuto senso di esistere.
Le venne un pensiero, così chiese: «Si può passare geneticamente secondo te?»
«Non saprei.» rispose lei, alzando le spalle: «Dicono che c’è una predisposizione genetica all’atteggiamento violento in caso di rabbia, ma il mio mix mentale è talmente raro che dubito fortemente.
Poi non si può mai dire. La mente è ancora un campo molto inesplorato.»
«Capisco. Certo che sei strana.»
«Strana. Meglio dire pazza.» commentò lei con un ghigno.
«Preferisco strana.» ribatté la ragazzina, ridacchiando. Non poteva credere che tutti le avessero precluso la conoscenza della madre. Era forte, decisa, simpatica... anche quando doveva parlare di cose delicate. Una figura materna su cui sapeva di poter contare. Era sicura che, se avesse saputo, l'avrebbe aiutata per qualunque cosa. Ma non sapeva se avrebbe potuto avere il suo affetto. Non l'aveva ancora minacciata o simili, ma l'aveva detto anche lei: non era una che legava facilmente. Se avesse saputo, forse... ma si trattenne dal rivelarsi. Forse il desiderio del padre, forse la paura, ma questo qualcosa le impedì di parlare.
In quei mesi, nel frattempo, Raphael era nel suo ufficio che pensava ad un modo per affinare la sua difesa e ovviamente vincere. Il telefono squillò all’improvviso e lui fece in tempo solo a sentire la voce di Elle sussurrare: «È arrivata Gebirge!» che qualcuno bussò alla porta.
Senza attendere risposta, una donna di circa quarant’anni, bionda, vestita con una minigonna e una maglia scollata a mezze maniche, entrò richiudendo la porta dietro di sé.
«Buongiorno, signor procuratore.» salutò l’uomo, perplesso da quella visita inaspettata: «A cosa devo l’onore?»
La donna storse la bocca, seccata, nel vedere che, come sempre, il suo abbigliamento provocante non scatenava nell’uomo alcuna reazione ormonale; si ricompose in fretta e rispose: «Ho un lavoro per lei, Grayhowl. Deve sbattermi dietro le sbarre il cognato del cugino di un mio caro amico.»
«Procuratore, io non faccio queste cose…» cercò di ribattere lui ma lei rispose: «Che saranno mai quattro chiacchere per incantare le Corti. Non faccia il difficile, avvocato. Potrei darle un extra per questo piccolo favore.»
Raphael alzò gli occhi al cielo, immaginandosi che tipo di extra, ma poi disse: «Perché non lo chiede a Grendel? Lo sa che io non accetterò mai. Nemmeno per la sua... ehm, generosa offerta.»
«Grendel senior è occupato per un processo indetto dal giudice Vodel. Grendel junior mi ha risposto in maniera poco elegante.»
Immaginandosi la risposta di Gabriel, e trattenendosi quindi dal ridacchiare, Raphael rispose: «Ho un processo in ballo anche io, procuratore, mi dispiace.»
«Anche lei?! Allora mi dica di cosa si tratta perché Grendel ha la bocca cucita. Un “processo” è troppo vago!» esclamò lei, intuendo che fosse lo stesso per entrambi. Se c'era l'occasione per rivaleggiare in aula, quei due non se la sarebbero lasciata scappare.
«Io pure, mi dispiace.»
La donna cercò di convincerlo in tutti i modi, ma Raphael era irremovibile, anche se non capiva perché Grendel mantenesse il segreto. Il panico sarebbe stato a suo favore infondo. Alla fine, il procuratore si arrese e se ne andò, delusa e arrabbiata, facendo sbattere rumorosamente la porta.
«Katrina von Gebaude, detta Gebirge. La tigre della procura se ne va con la coda tra le gambe.» ridacchiò Raphael sistemando le carte: «Strano però che quello sbruffone non dica nulla.»
Con quel dilemma in testa, chiuse una pratica, ma non resistette alla tentazione. Prese il telefono e fece il numero. Lo accostò all’orecchio, sentendo squillare, mentre spegneva il computer.
«Studio dell’avvocato Grendel.» rispose una voce.
«Sono l’avvocato Raphael Grayhowl. Potrei parlare con il suo principale, per cortesia?»
«Attenda in linea, avvocato.»
L’uomo ascoltò la musichetta di attesa, mentre ripassava cosa doveva dire al rivale. Doveva ponderare bene le parole. Una sbagliata e andava tutto a quel paese.
«Raphael. Quale onore.» rispose dopo alcuni minuti la voce ironica e sarcastica di Grendel.
«Devo farti una domandina, Michael.» disse lui, calcando il nome, che non usava mai, parlando ovviamente con lo stesso tono arrogante e provocatorio.
«Chiedi pure. Starà a me decidere se risponderti o meno.»
«Rispondere è cortesia, dicevano. Che poi tu non lo sia, è un altro discorso.»
«Spero solo che la tua sia una domanda intelligente. Non ho voglia di perdere tempo con discorsi inutili.»
Raphael tagliò corto con le provocazioni e chiese: «Perché Gebirge non sa nulla?»
Grendel capì subito a cosa alludesse l’interlocutore e con un sogghigno si sistemò più comodo sulla sedia. Mettendosi la coda della penna tra i denti, soppesò le tante risposte che gli attraversarono la mente. Finché non ne scelse una e disse: «Sarebbe troppo facile vincere. Vedi, io voglio umiliarti davanti alle Corti. Purtroppo, loro non potranno assistere, ma il giudice Vodel mi ha promesso la celebrità che desidero da anni se vinco. Voglio prendere il tuo posto, Grayhowl. E lo avrò, costi quel che costi.»
Raphael non poté fare a meno di sogghignare. Ancora con quella storia. Era una disputa che risaliva ai tempi dell’università, quando lui prendeva voti più alti del rivale. Michael se l’era legate tutte al dito e ora esigeva vendetta. Soprattutto perché, anche se si era laureato alcuni anni prima, era meno popolare e ricercato di Raphael, che invece era famosissimo e richiestissimo per via della sua innata bravura.
«D’accordo, allora. Vedrò di impegnarmi di più. Ci si vede in aula.»
«Sappi che perderai.» rispose l’altro, gelido.
L’uomo mise giù la cornetta e fissò la foto di Athena. Lei gli sorrideva, lei credeva in lui e questo bastò per fargli tornare la grinta che lo avrebbe fatto vincere. Non l’avrebbe fermato nessuno.
E sempre in quei mesi, tra l'estate, l'autunno e l'inverno, Giovanni sconfisse i vari Leader di Hoenn, costruendosi un forte team e prendendo sempre più fiducia in se stesso. Finché un giorno, deglutendo, non entrò in quella palestra. Con un sorriso un po' imbarazzato, mormorò: «Ciao, Tell. Ciao, Pat. Come state?»
I due gemelli, Leader dell'isola di Verdeazzupoli, stavano giocando a carte quando arrivò. Si voltarono a guardarlo, sorrisero con due sorrisi identici ed esclamarono, in coro: «Ciao, Gio!»
Pat si alzò con un salto e corse ad abbracciarlo, esclamando: «Quanto sei cresciuto, Giovanni! E in che condizioni sei?! Sembra che non vivi in una casa da mesi!»
«Beh.» borbottò lui, imbarazzato: «In effetti, è così...»
Tell lo fissò sospettoso e chiese: «Che vuoi dire?»
Giovanni si liberò dalla stretta della ragazza, fece un passo indietro, mostrò le sue sei medaglie e, con un sorriso, chiese: «Tell, Pat... mi concedete una sfida?»
I due gemelli restarono per un momento immobili, stupiti. Poi sorrisero; Pat lo abbracciò nuovamente, troppo felice della notizia: il piccolo figlio di Athena era cresciuto così tanto da affrontare la Lega. Era una notizia bellissima. Tell invece gli diede una pacca sulla spalla e rispose: «Sì. Ma purtroppo non ora. Stiamo ristrutturando la Palestra e se gli altri sfidanti vanno bene anche nel campo esterno, vorremmo che tu combattessi là, in quel ring. Ti dispiace?»
«No, figurarsi!» rispose lui, contento di vedere che ci tenevano alla sfida quanto lui; avrebbe approfittato del tempo in più per allenarsi e sconfiggerli. Sarebbe stata una lotta epica.

  
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