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Autore: DonnaEliza    10/09/2015    3 recensioni
"La verità è che a colui che gli dèi vogliono distruggere, ma distruggere davvero, non viene data in dono la follia, bensì l’immortalità.
Ma immagino che Euripide non potesse saperlo."
"Mi chiamo Julian. Sono morto a trentadue anni. Da allora, perdonatemi la battutaccia, tiro a campare."
Genere: Introspettivo, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Quando eravate bambini, vi hanno portato in campagna. Vostra madre ha fermato la macchina accanto ad un casolare di pietre tanto malmesso da sembrare disabitato; le imposte erano scrostate; un albero era cresciuto troppo vicino alla casa e le sue fronde coprivano una finestra al primo piano; eppure ci sono panni stesi ad asciugare all’aperto ed una donna impossibilmente curva, con un paio di babbucce informi ai piedi, sta cogliendo quella che sembra comune erbaccia pescandola dai ciuffi davanti all’uscio e la ficca poi nelle tasche del grembiule. Voi siete saltati fuori dalla vettura, nell’aia di terra battuta in cui biancheggiavano drappelli di galline. Un paio di cani arruffati sonnecchiano a ridosso del muro caldo di sole e scodinzolano blandamente quando li accarezzate, ma non insistete troppo: hanno le mosche negli occhi e sono veramente puzzolenti. Vostra madre sta parlando con la vecchia che era nell’aia, che ha solo pochi anni più di lei, ma alla vostra età un diciottenne è un adulto, e un quarantenne un vecchio. Le due si spostano dietro la casa, dove il terreno è coperto di appezzamenti quadrati piantati a lattuga, schieramenti inquadrati di ortaggi con il loro bastoncello di supporto, modesti filari di uva. Ci sono un paio di casotti che sembrano edificati con tavole di legno accatastate a caso e un tetto di lamiera. Sono piuttosto bui, e voi ricordate le ammonizioni a stare in guardia contro i chiodi sporgenti e i rastrelli arrugginiti, ma vostra madre sta esaminando minuziosamente una pianta di pomodori mentre la vecchia coglie cespi di lattuga che ripone in una sporta di rete e la faccenda ha tutta l’aria di durare ancora a lungo, quindi vi avviate verso il casotto più grande e dall’aspetto più robusto ed entrate con tutta la cautela di cui siete capaci, aspettando che da un momento all’altro un falcetto vi assalga di sua volontà per tagliarvi il polpaccio nudo ed infettarvi col tetano.
Trovate i conigli. Ce ne sono molti, rannicchiati con aria indolente in stie di legno scuro di sporcizia impilate lungo le pareti. Sotto gli sportelli di molte gabbie ci sono dei biglietti con annotate date di accoppiamento e di parto delle femmine. Alcune sono impossibilmente gonfie nella loro gravidanza, sprofondate in sé stesse come formiche regine; altre sorvegliano con un occhio nidiate di coniglietti minuscoli, mentre ruminano un filo di paglia. Infilate il dito nella rete delle gabbie, ma i conigli si spostano nervosamente e il massimo che vi guadagnate è di infilare l'indice in un fianco di morbida peluria il cui proprietario non si è accorto di voi.  Un angolo del casotto è stato adibito a recinto, delimitato da una rete a maglie fitte alta più di un uomo adulto. All'interno scorrazzano altri conigli. Il pavimento è coperto di sterco e fieno pesticciato e l'aria è satura di un odore dolciastro così intenso che sembra donare all'aria una sfumatura giallastra. L'atmosfera è talmente sospesa e sonnolenta da avere un che di arcano, come se foste entrati in un bislacco tempio eretto in onore del bestiame e di tutte le sue eiezioni.
Sapete che vostra madre non vuole che vi sporchiate e che probabilmente vi metterete nei pasticci, ma vi annoiate e i conigli, benché si muovano su un letto di strame, sembrano comunque più puliti dei cani nel cortile; perciò rimuovete con attenzione il ghirigoro di fil di ferro che funge da serratura alla porta del recinto ed entrate, facendo attenzione a che nessun coniglio scappi e richiudendo bene alle vostre spalle. Vi accosciate nel centro del perimetro, cercando di non toccare col sedere in terra, ed aspettate pazientemente che i conigli vi prestino attenzione. Via via che il tempo passa qualche ardimentoso si avvicina, e voi ammirate la luce rosata che sembra sprigionare dai loro padiglioni delicati quando un raggio di sole filtrato tra le tavole delle pareti colpisce le loro orecchie, vi divertite al moto laborioso dei loro nasi, ridete silenziosamente quando qualcuno tra i più coraggiosi si alza sulle zampe posteriori per osservarvi con più attenzione. Nessuno di loro si lascia toccare, ma se gli porgete una manciata di foraggio raccolta da terra si avvicinano fin quasi a mangiarvi in mano. Mentalmente, date un nome a tutti quelli che vi hanno colpito di più e decidete qual'è il vostro preferito. Quando vostra madre vi chiama, sulle prime non rispondete: non volete che la vostra voce spaventi i conigli.
Quando vi raggiungono, lei e la vecchia, c'è un fuggi fuggi generale tra i conigli, messi sull'allarme dal rumore. Vostra madre si limita a fare una smorfietta, quando vi vede accovacciato nello sterco di coniglio: dopotutto vi ha portato in campagna, è normale che un bambino si sporchi. Vi invita ad alzarvi e, mentre le andate incontro, soggiunge, come se le fosse appena venuto in mente:
-Vuoi il coniglio?-
Quasi non credete alle vostre orecchie. Sì! Sì, mamma, lo voglio! Quello lì! Indicate il vostro preferito, che si accavalla con gli altri sul fondo del recinto.
-Quello no- interviene la vecchia. -E' troppo giovane.
Supplicate la mamma di prendere il coniglio che avete scelto, ma lei non vi presta attenzione e chiede alla vecchia di sceglierne uno. Quella entra, si aggira tra i conigli che ormai galoppano nervosamente per tutto il recinto, scartando qua e là con le orecchie ritte. Come se fosse in grado di leggere oltre le loro traiettorie, la vecchia si china e ne acchiappa uno per le orecchie. Un coniglio qualunque, marrone grigiastro. Non siete sicuri di riconoscerlo, ora che si sono tutti mischiati insieme è facile confonderli, ma va bene lo stesso, non speravate in un coniglio! Chissà cosa dirà vostro padre, e se lasceranno che lo teniate a dormire nella vostra stanza.
Col solito passo strascicato, la vecchia esce dal recinto, sempre tenendo per le orecchie il coniglio, che sta rigido come un paletto, con le zampette anteriori giunte davanti a sé come se stesse per ricevere la prima comunione. Voi tendete le braccia per prenderlo in collo, ma la vecchia lo scansa dalle vostre mani tese e quello tira un paio di calci in aria che le fanno ondeggiare il braccio.
-Attento- vi ammonisce con voce assente. -Se ti prendi un calcio ti fai male.- E procede oltre, uscendo dal capanno dei conigli. Fate per seguirla, ma vostra madre vi trattiene per una spalla. Voi non capite, ma aspettate a fare domande, d'altronde gli adulti spesso sono imperscrutabili e comunque, come se n'è andata la vecchia tornerà col vostro coniglio, magari in una scatola con i buchi per farlo respirare.
Quando sentite lo strillo, sulle prime non intuite niente. Ma poi la vecchia torna, dopo qualche minuto, senza più il coniglio e guida voi e vostra madre fuori, al sole. Lei chiede alla vecchia quanto le deve e c'è una breve, complimentosa contrattazione in cui la vecchia finge di volere meno soldi di quanti vostra madre gliene offre. Vi hanno insegnato a non interrompere gli adulti, ma state cominciando ad innervosirvi, così tirate vostra madre per una manica e chiedete timidamente dov'è finito il coniglio. Vostra madre esita a rispondere, ma non importa, perché la vecchia risponde allegramente:
-Un attimo ancora, giovanotto! Deve finir di sgrondare, sennò non è buono. Tanto, prima di stasera mica lo mangi.-
“Vuoi il coniglio”.
Non “un coniglio”.
I dettagli sono importanti.
Avete pianto per tutta la strada fino a casa, seduti sul sedile posteriore dell'automobile che vostra madre sta guidando nervosamente, snervata dal senso di colpa. Avete gridato istericamente finché non avete ottenuto che la sporta della spesa, con gli ortaggi e l'involto di carta oleata contenente il corpicino scuoiato, sventrato e decapitato, venisse riposta nel portabagagli, lontana dai vostri occhi. Avete continuato a piangere anche a casa e i vostri genitori vi hanno preso in giro perché non possono chiedervi scusa per non avervi avvertito di quel che sarebbe successo al coniglio. Negli anni avete raccontato questa storia agli amici, una volta cresciuti, ogni volta facendola passare per un avvenimento buffo in cui la vostra inesperienza vi ha giocato un brutto tiro: avete mimato la vostra faccia, con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, quando avete capito che cosa c'era in quel fagotto da macellaio che la contadina infilava nella sporta di vostra madre. E i vostri amici hanno riso, comprensivi, e vi hanno raccontato aneddoti analoghi capitati anche a loro, o a conoscenti.
Vi siete chiesti spesso se il silenzio di vostra madre e la bruta sollecitudine di quella vecchia non fossero stati una forma di vendetta tardiva, una rivalsa in ritardo di generazioni su quando la stessa cosa era capitata anche a loro. Forse, da allora non avete più mangiato carne di coniglio.

Alcuni di voi sono stati ancora più sfortunati, e hanno ottenuto proprio il coniglio o l'agnellino che avevano scelto. Alcuni l'hanno visto macellare sotto i loro occhi. I bambini di campagna sono stati privilegiati: hanno imparato presto ad identificare l'animale col cibo. Hanno giocato, ai piedi delle loro nonne, con le piume della gallina che veniva spennata a pochi palmi di distanza dalle loro teste; hanno riso all'imitazione di loro padre del grido del maiale scannato. Per l'età in cui è toccato a loro prendere in mano il coltellaccio, avevano già le loro difese.

Il nostro è un trauma da bambini di città. Spiegare a Doris che si sarebbe dovuta nutrire, e come, e di che cosa, fu come regalare ad una bimba una nidiata di coniglietti, aspettare che avesse dato un nome a tutti, guardarla addomesticarli e poi spiegarle dettagliatamente come tenerli fermi tra le ginocchia per spezzargli il collo. Non riusciva a crederci, mi guardava come l'avessi insultata, come se per un voltafaccia le avessi detto che era una persona cattiva e che si meritava quello che le era capitato. Per diversi minuti ripeté solo “No”, con inflessioni sempre diverse. Poi, mi chiese con tono di sfida cosa sarebbe successo se lei non l'avesse fatto.
-Onestamente, Doris, non lo so fino in fondo. Anch'io ho provato a resistere, ma sono durato pochi giorni. E' come se ricominciassi a morire: cominci a puzzare, diventi torpido, impacciato nei movimenti. Ma rimani lucido. Sulle prime ho sperato che sarei morto, ho ritentato un paio di volte di non mangiare più, ma ogni volta ho avuto troppa paura, capisci? E se non funzionasse? Quanto a lungo sarei rimasto vivo in un corpo che si putrefà? E se mi avessero trovato, attirati dall'odore, e avessero capito che cos'ero e mi avessero esaminato? Tu saresti in grado di affrontare un rischio simile?
“Per paradossale che sia, Doris, noi viviamo; anche se non siamo vivi. So come ti senti, ma io, dopo tutti questi anni, sono diventato un po' fatalista: voglio pensare che c'è uno scopo anche per noi. E sono umano, quindi non voglio morire. Ora abbiamo l'un l'altro, possiamo farcela.”
Non mi rispose. Non toccò l'argomento per giorni, comportandosi come se niente fosse successo. Io ero metà sulle spine e metà sollevato dalla parvenza di normalità della nostra routine e aderivo con entusiasmo ad ogni sua proposta, accompagnandola nei posti che desiderava visitare, comprandole ciò che desiderava acquistare; ero un genitore che vizia la figlioletta dicendo sempre di sì, ansioso che la nube della sua ultima bizza passi alla svelta. Quello che stava succedendo era che la mole d'informazioni era stata troppa per Doris, che come per miracolo era uscita da un parossismo isterico pochi giorni prima grazie a nient'altro che un bagno. Io avevo avuto anni per impararmi, e se questo aveva comportato esperimenti che mi avevano nuociuto, avevo almeno potuto agire secondo i miei tempi. A lei avevo rovesciato addosso un compendio sulla vita in assenza di battito nel giro di un pugno di giorni, sperando di risparmiarle tempo, di insegnarle a manutenersi. La rivelazione della nostra ematofagia fu la goccia che fece traboccare il vaso e Doris reagì con la negazione: la sollecitudine con cui arredò il nostro appartamento, il bisogno di acquistare abiti e cosmetici e tutti gli altri comportamenti che mi avevano divertito come squisitamente femminili erano la messa in atto di una strategia di difesa portata avanti con rigore militare: Doris riprogettava la propria umanità. Usciva spesso in pieno giorno, con gli occhiali da sole ben calcati sul naso e un foulard annodato sotto il mento: non si sentiva a suo agio con gli occhiali da sole, e ricalcare la moda delle dive cinematografiche fasciandosi i capelli come su una macchina sportiva le sembrava l'unico modo di giustificarli. Raramente resisteva più di un paio d'ore, se la giornata era luminosa, e quando tornava era di cattivo umore. Borbottava che la luce fioca le causava la depressione e si paragonava ad una pianta in vaso, che perde tono e si affloscia senza sole. Comprò un vasetto di fondotinta molto più scuro del tono della sua pelle e per giorni si ostinò a portarlo, sostenendo che le dava un'aria più “sana”. Inutile dire che, dopo aver speso un'ora a stendere quell'intruglio su viso e collo con una spugna umida, aveva l'aria di una malata di ittero. Desistette, infine, quando si accorse di quanto fosse seccante rimuovere le tracce arancioni lasciate sui colletti degli abiti. Si preparava spesso del tè, che poi versava nelle tazze e lasciava a raffreddare in giro per casa. Poi, le sciacquava e risciacquava, mugugnando perché non avevamo detersivo per piatti. Diceva che era la forza dell'abitudine. Una volta la trovai a cucinare uno stufato; mise in scena una gran manfrina di sorpresa e imbarazzo, ridacchiando nervosamente e raccontando di come l'avesse fatto totalmente sovrappensiero, dopo tutto aveva cucinato tre volte al giorno per anni. Non le credevo neanche per il tè, figuriamoci per questo. Anni dopo, mi ha confidato di essersi forzata a mangiare e bere più volte, in quel periodo: non si capacitava di non avere più fame, di come l'odore del cibo non le stimolasse più alcun appetito. Andava nei caffè o al pub, e consumava un'ordinazione. Spesso rimetteva già nel bagno del locale. Portava nella borsetta una bottiglietta di collutorio e dopo essersi sciacquata con quello, l'alcool in esso contenuto le seccava la bocca tanto da costringerla ad ordinare qualcos'altro per bagnarsi la lingua. A quel punto, non resisteva ad inghiottire di nuovo, ed era da capo.
Se solo me ne avesse parlato, mi verrebbe da dire. Se solo me ne avesse parlato, le avrei raccontato di tutti i pasti che mi ero cucinato, partendo dai più consueti e restringendo il campo ai soli piatti di carne, poi alle bistecche al sangue, poi alla carne cruda, per approdare al sanguinaccio e per finire al sangue di maiale, che compravo da un macellaio che riforniva principalmente allevamenti e trattava carogne. Niente aveva funzionato: avevo vomitato per anni. Negli anni Novanta ho provato anche col sushi: un disastro. In mancanza di succhi gastrici i miei denti non si erano consumati come succede ai bulimici, ma a causa dei conati mi sono procurato delle lesioni al tubo digerente: prima ancora degli anni '30 mi ero dovuto abituare a convivere con la famigerata sensazione dell' “osso di pollo” in gola. Credo di avere avuto un tic di deglutizione per quasi vent'anni. Alla fine mi sono abituato. Abituato, e rassegnato. Noi non siamo carnivori: siamo ematofagi. Antropoematofagi, se per caso questo termine è mai stato coniato da qualcuno di autorevole.
Se solo me ne avesse parlato.
Storie: se anche me ne avesse parlato, tutta la mia esperienza non l'avrebbe aiutata a superare un solo giorno della sua solitudine. È come avere fame e sentirsi dire che in Africa i bambini muoiono di fame. Non ti fa certo sentire più sazio, al massimo più in colpa. E Doris non doveva combattere con la fame, ma col bisogno struggente di sentirsi viva. La sua condizione di bambola di carne la stava strangolando, e senza neanche la benedizione di sentirsi soffocare. Non si può descrivere a parole cosa si provi in uno stato di atarassia forzata. Avete paura, ma non vi si chiude la gola. Vi sentite nervosi, ma lo stomaco tace. Vi innamorate, ma il cuore non batte più forte. Siete un cervello solitario, che grida al vostro orecchio cosa provate senza che il corpo lo convalidi.
Vi innamorate...
   
 
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