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Autore: MissMargaery    12/09/2015    0 recensioni
Viola, una ventisettenne intrappolata in una vita che non la soddisfa, prende il volo verso Londra in cerca della sua vera strada. La città farà da scenario all' incontro Hayden, un biologo marino di ritorno da un lungo viaggio, che scopre di aver perso più di quanto immagina.
I loro percorsi si incroceranno, ma riusciranno ad andare entrambi nella stessa direzione?
Dal capitolo I:
Ne aveva sentito parlare fino allo sfinimento e avrebbe voluto sentirne parlare continuamente, per vederlo concretizzarsi finalmente tra le sue mani. Voleva che fosse vero e valido e che le desse la possibilità di poterci vivere, ma che più di tutto la rendesse realmente fiera.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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II
Vecchie e nuove abitudini



 
Non si dimentica mai la sensazione che si prova un primo giorno, qualunque esso sia, quanto fastidioso possa essere l’incessante martellare della sveglia all’interno del padiglione auricolare, invadendo la stanza col suo sgradevole ticchettio, ma in realtà non ce n’è sarebbe nemmeno bisogno, perché si è già svegli da ore, a fissare il soffitto, con gli occhi sbarrati.
Ormai  ne si conosce  così bene ogni crepa, ogni piccolo, inutile solco, da poterne tracciare il disegno a occhi chiusi su un foglio, ricalcando perfettamente la riproduzione in scala di quel soffitto. Si potrebbe persino riconoscere i versi di qualsiasi uccello si fosse appollaiato all’esterno di quella finestra, ogni rumore che fosse stato prodotto durante quella notte, al quale si sarebbero potute dare tutte le colpe per la nostra insonnia.
Si sa inconsciamente che la colpa è di quel piccolo tarlo che si insinua all’interno della nostra mente, quell’ansia che mangia ogni fibra cosciente del nostro corpo, ma non riusciamo ad ammetterlo.
Quella frustrazione è nutrita dall’entusiasmo di voler eccellere in quel nuovo ambiente e convertita in paura, quel dannato terrore di fallire, perché tutti almeno una volta lo abbiamo sentito impadronirsi delle nostre membra, tirandoci giù in una spirale di insoddisfazione.
E’ inutile negare di provare una gamma di emozioni diversa, e anche Viola lo sentiva inconsapevolmente, senza capire cosa l’avesse spinta a fare colazione alle 6 del mattino, nella tetra estraneità di quella piccola cucina.
Non aveva mai saltato quel suo rito consueto, che si ripeteva ogni mattina da quando ne aveva memoria, dovunque ella fosse, senza domandarsi perché lo facesse.
Generalmente preparava il suo caffè, a meno che non fosse in vacanza, e mentre aspettava che sgorgasse, come una piccola cascata scura, contemplava il silenzio della mattina seduta al tavolo o si dava alla lettura di un giornale o un libro.
Quel giorno aveva setacciato in punta di piedi, per non svegliare i suoi coinquilini, la libreria al piano superiore, cercando un romanzo, nel quale potesse buttarsi a capofitto. La scelta, suo malgrado, fu minima: qualche libro di moda o di grafica, per questioni lavorative dei suoi  amici e alcuni romanzi di consumo, eredità dei vecchi proprietari, nulla che le potesse interessare.
Scese silenziosamente le scale, cercando qualche rivista in cucina, ma sentiva che avrebbe dovuto lei stessa rifornire quella casa di carta stampata, sebbene non che le dispiacesse affatto.
Si maledì però di aver finito il giorno precedente l’unico libro che aveva portato con sé, in preda alla noia domenicale, così si sedette sulla panca posta sotto finestra, coperta da morbidi cuscini verdi, studiando il panorama cittadino al suo esterno.
Non era certamente una cartolina, ma i toni del lilla che baciavano il profilo delle case, rendevano quel quartiere piacevole alla vista, con quelle villette a due piani tutte uguali in mattonato, l’una accanto all’altra. Variavano per sfumatura, Viola si rese conto che quella in cui abitava era lievemente più rossa, rispetto alle altre che sfumano nel marrone terra di Siena e nel palissandro. Conosceva bene i colori, ci aveva lavorato per tutta una vita e quel particolare, poco evidente agli occhi di un completo estraneo alla materia, non poté non farle domandare  cosa avesse di speciale il colore di quell’abitazione, rispetto agli altri.
Non riuscì a darsi una risposta, distratta dal caffè e dal doversi divincolare in una stanza completamente nuova, illuminata solo dalla tenue luce dell’alba che filtrava tra le tendine, donando alla silhouette dei mobili una venatura tendente al grigio. Sentì lo spigolo del tavolo affondarle dolcemente nel fianco, mentre camminava lentamente verso il fornello. Imprecò tra sé e sé, muovendosi a tentoni e accendendo la debole luce della cappa, non voleva ustionarsi di certo il suo primo giorno di lavoro.
Quando il caffè riempì la sua tazzina, condito da poco zucchero, decise di ritornare a quella postazione, che probabilmente avrebbe cominciato a far parte delle sue nuove abitudini: la cucina, l’odore  dei chicchi tostati e il silenzio.
Aprì lievemente le imposte, facendo entrare la fresca brezza, giusto per far aerare l’ambiente; aveva imparato ad accettare il silenzio di quella casa più in fretta di quanto si aspettasse.
Era passato solo un giorno e non avrebbe mai immaginato che quella convivenza potesse nascondere tanta quiete e assenza. Impelagati nelle loro vite e nei loro appuntamenti, i suoi coinquilini non avevano avuto tempo per  Viola, che si era trovata a  pranzare da sola, impaurita da quanto la sua alienazione potesse farla cadere nella spirale di commiserazione e odio verso le azioni che aveva compiuto.
La giornata  era stata riempita solo dalla voce di Sebastiano, i suoi genitori non erano ancora pronti a perdonarla, suo padre era chiuso in se stesso e forse era meglio non avere un’altra conversazione ravvicinata con sua madre, a detta di suo fratello.
Viola avrebbe aspettato, o almeno così si diceva, chiedendo a Sebastiano di aggiornarli sul proprio lavoro e le novità casalinghe, nonostante fossero poche.
Lui sembrava stranamente rilassato, ma forse preferiva non far trasparire la sua preoccupazione, proprio per calmarla. Aveva solo aggiunto che Gabriele ormai era tornato a casa e, per quanto la rottura di quel rapporto lo avesse distrutto, generando un’imprevedibile reazione violenta, secondo alcuni amici, era riuscito a calmarsi.
Viola non chiese quale fosse il loro commento e Sebastiano non si sbilanciò a ragguagliarla sull’argomento.
Dopo una giornata in completa solitudine, passata tra la BBC e la lettura, le fu strano passare la serata con Alex e Gio, che cercarono di renderla speciale con una pizza e un giro per locali. Tutto ciò si avvicinava molto all’idea che si era fatta di quella che sarebbe stata la loro convivenza, tra pub e serate intrattenuta da turisti o, addirittura, qualche ultimo esemplare di londinese, ma fu piacevolmente sorpresa di aver acquisito la consapevolezza di poter stare da sola, senza essere attanagliata troppo dal senso di colpa.
In fondo, non le era mai stato troppo difficile conviverci, sebbene non si era mai azzardata a compiere delle sciocchezze tali, da arrivare ad aver paura del confronto con se stessa, dopotutto era tutto ciò che desiderava.
Una luce venne accesa al di fuori della cucina, Viola sbirciò notando la sagoma longilinea  di Giorgia in un pigiamino rosa tenue, camminare a piccoli passi verso la porta.
“Buongiorno.” Esordì sbadigliando, stropicciandosi gli occhi. Riusciva stranamente ad essere elegante anche in pigiama, nella sua semplicità, con uno chignon spettinato sulla nuca e il viso completamente privo di trucco. “Dormito bene?”
La risposta era chiaramente negativa, o meglio, quelle poche ore di sonno, dopo essere rientrati, erano state sicuramente riposanti, benché poche.
“Sì, insomma..” mugugnò, assaporando il gusto ricco del suo caffè. “Poteva andare peggio.” Continuò, pensando all’ipotesi di non dormire affatto.
Giorgia sembrava soddisfatta della risposta ricevuta e si servì una tazza di caffè, che accompagnò con delle fette biscottate ricoperte di marmellata.
Anche lei non era di certo una persona che amava parlare durante il mattino, accese giusto la tv per creare un effetto compagnia, aspettando che Alex le raggiungesse.
Non tardò a farlo, entrambi avevano orari più rigidi dei suoi, tra il negozio e l’ufficio,  sarebbero dovuti uscire di casa prima di lei, a causa della poca stabilità del suo lavoro.
“Ti dispiace se non ti accompagniamo?” si scusò Alex, infilando la giacca di fretta. “Purtroppo devo essere in ufficio alle 9.30”
“Non è un problema, davvero.” Lo tranquillizzò Viola, ancora in pigiama, distratta dal telegiornale.
“So come arrivarci e ho pur sempre 27 anni, non è il mio primo giorno di scuola, papino.”
Il ragazzo rise, controllando che ci fosse tutto nella sua cartella. “Giorgia, sei pronta?” chiese a voce alta, affacciandosi dalla porta, in modo che potesse sentirla dal piano di sopra.
La ragazza scese freneticamente le scale sul suo tacco dodici e una gonna a tubino,  movimenti decisamente non facili, per quell’abbigliamento poco comodo.
Si fermò davanti allo specchio all’ingresso e finì di acconciare i propri capelli e trucco.
“Su, andiamo!” gli intimò. “Scusaci, Vee, ci sarebbe piaciuto starti vicino.” Le schioccò un bacio sulla guancia.
“Ma, va!” l’allontanò con una spinta. “Mi avete trovato casa e lavoro, volete cambiarmi anche il pannolino?” ironizzò.
“Ci vediamo a pranzo.” Le confermò Alex, non riuscendo a trattenere le risate. “Buona giornata!”
Attese che la porta si chiudesse dietro di loro, per salire in camera sua e abbandonarsi a una doccia rilassante. Aveva un’ora esatta per rendersi presentabile, ma forse non sarebbe bastata. Guardò allo specchio il suo viso stanco, le occhiaie profonde che incidevano la sua pelle chiara, in corrispondenza dei suoi occhi dalla forma allungata, resi troppo sottili dalla pesantezza delle sue palpebre. Avrebbe dovuto dormire di più, era impensabile uscire la sera prima del suo primo giorno. Che razza di irresponsabile era stata? Le sembrava di essere ritornata alla fase ribelle dei suoi quindici anni, quando promise alla madre di ravvivare i toni ramati dei suoi capelli, tornando con una capigliatura rosso fuoco.
Quasi le mancava il suo tono severo e quelle sgridate, per argomenti così futili, avrebbe voluto chiamarla quella mattina, confessarle quanto aveva paura di sbagliare e quanto temeva che quel progetto non andasse in porto, sancendo il suo ritorno a casa, lì dove forse nemmeno era più la benvenuta.
Fissò il telefono a lungo, ricordandosi che guardare intensamente lo schermo del suo smartphone non avrebbe cambiato la sua situazione, né avrebbe fatto in modo che fosse pronta in tempo.
Si infilò nella cabina doccia, lasciando che il getto caldo la investisse totalmente e si perdesse nel vapore di quel cubicolo. La doccia fu catartica, per certi versi. Quando ne uscì la sua pelle aveva un leggero sentore di vaniglia, così come i suoi capelli, si sentiva rigenerata e riposata, benché l’orologio le ricordò che avrebbe dovuto sbrigarsi.
Si vestì in fretta, non badando troppo a cosa indossare. Il suo lavoro per ora consisteva nell’essere una tutto fare: pulire, sistemare, forse addirittura pitturare, erano tutte azioni all’ordine del giorno, ma non voleva apparire troppo sciatta, così indossò un paio di semplici pantaloni e una t-shirt non troppo nuova, coprendosi con una giacca di jeans.
A giudicare dal tempo, non avrebbe fatto troppo freddo, ma nello zainetto non dimenticò di infilare l’ombrello, l’agenda e altri pochi effetti personali.
Era pronta, un colpo di spazzola e un leggero filo di trucco furono il tocco finale, prima che uscisse di corsa verso Paddington, camminando così velocemente da non avere nemmeno il tempo di mandare un messaggio a Seb, delusa da non averne ancora ricevuto uno.
Quando salì sul bus, tenne così stretto il suo telefono tra le mani, con la costante sensazione che si potesse spezzare, quasi quanto la sua tensione, in attesa che suo fratello le mandasse un solo cenno di incoraggiamento. Non l’aveva mai sentito così distante e temeva che quella lontananza non fosse dovuta solo alla Manica che li divideva.
 
Camden Town sembrava totalmente diversa di mattina, a rimpiazzare i neon colorati, vi erano vestiti dalle forme e colori più differenti, turisti dagli sguardi curiosi, che fissavano vetrine, cercando di nutrire i loro occhi di quante più immagini possibili.
Le piaceva quel melting pot di stili, quell’essere circondata da persone così differenti, che si trovavano lì per i motivi più disparati, incuriosendola così tanto da essere tentata a chiederglielo.
Amava quel luogo, ma lo preferiva nella misteriosità della notte, quando tutti erano un po’ brilli e forse più socievoli, nascondendosi dietro la poca lucidità di una bionda.
Le sembrava così strano poterlo vivere, ma in fondo le mancava molto Napoli e sapeva che un giorno, sarebbe tornata, forse da turista, ma non avrebbe potuto farne a meno.
Continuò a camminare a passo spedito, controllando l’orologio. Era in perfetto orario, così come Juan, seduto all’esterno del magazzino, che controllava il telefono.
“’Giorno!” esordì con la voce di chi non parlava da ore.
“Hey! Buongiorno!” si voltò verso di lei, esibendo un grosso sorriso sorpreso. “Almeno tu sei puntuale.” Commentò abbracciandola in segno di saluto.
“Beh, faccio del mio meglio.” Si giustificò, ricambiando la stretta. “Chi manca?”
“L’unica altra persona che si unirà a noi, Dan, l’addetto ai lavori.” Commentò, senza far trapelare alcun dispiacere nel doverlo aspettare. “Sta venendo da Newbury col furgone, quindi mi sa che ci toccherà aspettare un po’. Preferisci aspettare dentro?”
Viola scosse la testa, ricordando che il locale non era poi così accogliente e il clima all’esterno sembrava perfetto, un bel fresco e un cielo coperto da grosse nuvole scure. Sebbene sembrassero preannunciare pioggia, nessuna goccia li aveva ancora disturbati, quindi perché entrare?
“Tu, piuttosto di dove sei?” chiese incuriosito. “So che sei italiana, come quella tua amica, Giorgia, ma non mi pare di aver letto sul tuo curriculum da dove vieni precisamente, o almeno non ricordo.”
“Da Napoli.” Rispose, esibendo una certa fierezza nella risposta.
“Bel posto, ci sono stato da piccolo con la famiglia, tornai qualche anno fa con gli amici in vacanza… mi pare fosse il 2008.” Rispose entusiasta.
“Già, un po’ mi dispiace aver dovuto abbandonare tutto, ma questo progetto sembrava l’unica alternativa possibile per realizzarmi nel mio campo.” Disse rammaricata, quasi si stesse giustificando per la scelta che aveva compiuto.
“Speriamo vada in porto allora, ci tengo molto. Ho  sacrificato tutta la mia vita per la fotografia e questa è la mia grande occasione.” Spiegò, tenendo gli occhi bassi,  storcendo il labbro, mentre pronunciava la parola grossa occasione. “anzi, oserei dire un po’ la nostra.” Aggiunse, rialzandoli e posandoli su di lei, tenendo il sopracciglio inarcato.
Provò un certo imbarazzo nel sostenere quello sguardo, tanto da dover distoglierlo in pochi secondi, cercando goffamente di cambiare argomento.
“Allora? Dove sei stato di bello a Napoli?” chiese, sorridendo, cercando di nascondere  il suo evidente disagio nei confronti del suo giovane e apparentemente brillante capo.
“Ci sono stato sette anni fa?!” esclamò ridendo. “Non è che abbia questa memoria di ferro. Comunque sono un appassionato d’arte, penso si sia capito, quindi sono stato al Madre e credo al museo di Capomonte? Qualcosa di simile.”
“Capodimonte, sì.” Lo corresse lei.
“Giusto, poi la sera uscivamo in una piazza al centro, non ricordo affatto il nome, ma passavamo la sera lì a bere birra e a fumare.”
“Bellini, sicuramente, anche io esc.. uscivo lì, o comunque ci spostiamo per qualche serata e concerto, niente di particolare.”
“Non lamentarti, almeno ti sapevi divertire.” Le rispose, mostrandosi abbastanza intrigato dalla sua vita.
“Non c’è molto altro per divertirsi.”
“Eppure era dannatamente bella…” sospirò, ripensando evidentemente a quei momenti. “Forse ho qualche foto, potrei inserirla nella mostra. Tu ne hai qualcuna?” chiese accendendosi una sigaretta.
“Niente di spettacolare, non sono una fotografa, al contrario tuo. Ho visto i tuoi lavori e sono fenomenali. Mi è piaciuta tanto una foto di Varsavia, l’acqua sembrava davvero uno specchio, avrei potuto capovolgerla e vedere la stessa immagine.” Gli spiegò ammirata. Lo pensava davvero, non era un tipo da imbonirsi le persone; non eccedendo nei complimenti, riusciva a dichiarare solo il più profondo interesse in qualcosa che davvero le interessava.
“Grazie.” Le sorrise. “Sei troppo gentile, se vuoi te ne porto una copia.”
“Non preoccuparti, non voglio disturbarti, e soprattutto non è necessario.” Lo rassicurò, scuotendo la mano sgraziatamente.
“Piuttosto, hai qualche amico fotografo, hai studiato arte, sicuramente conoscerai qualcuno nel campo.”
Certo che ne aveva, ma il suo essere riflessiva, l’aveva salvata in corner, mandando un veloce impulso al suo cervello, in modo tale da pronunciare un deciso, e forse un po’ troppo frettoloso, no, invece che un ovvio sì.
Non poteva di certo contattarli, dopo quello che era successo, avendo perso il conto delle motivazioni per cui sarebbe stato meglio evitare: l’ovvio odio che provavano per lei, dopo ciò che aveva fatto a Gab, il non aver detto loro la meta del suo trasferimento e soprattutto il non far trapelare il luogo dove si fosse spostata.
Ricordava ancora l’imbarazzo nell’aver mentito spudoratamente, dicendo che aveva trovato un posto di lavoro nel nord della Germania, pur di far sembrare la notizia credibile. Si vergognava così tanto.
“Se dovessi notare qualcosa di interessante, magari inoltramelo. Abbiamo bisogno di materiale, Vicky non ha trovato molti artisti disposti a collaborare per il momento.” Palesò una certa delusione nell’ammetterlo, ma Viola tentò di ovviarla, posando la propria mano sulla giacca di jeans di lui.
“Vedrai che ci verrà qualcosa in mente.”
Juan spense la sua sigaretta e cercò di assemblare un’espressione accondiscendente, cercando di deviare il discorso su Daniel, in preda a una manovra proprio di fronte a loro.
“Buongiorno, scusate il ritardo.” Esordì il biondo, dalla muscolatura ben evidente sotto la felpa sdrucita del Chelsea e un sorrisetto sghembo, di chi sapeva di aver perso proprio di vista il tempo.
“Siamo qui da poco, non preoccuparti.” Lo tranquillizzò Juan, stringendogli la mano. “Tutto liscio il viaggio?”
“Domani dovrei regolarmi meglio, ma sì, direi.” Asserì, storcendo il labbro inferiore. “Ho portato un po’ di pacchi, mi aiutate a scaricarli?” domandò, indicando il furgoncino bianco, parcheggiato a pochi passi.
“Certo, facciamo presto, abbiamo molto da fare!”
Viola seguì i due colleghi, milioni di pensieri iniziarono a sbocciare colorando la sua mente di altrettante domande, ma quella più spaventosa rimaneva chiusa nel suo bozzolo, al centro della sua mente, senza un’eventuale risposta. Ce l’avrebbe fatta? In quel momento avrebbe voluto risvegliarsi appena la mostra fosse stata allestita, aprendo gli occhi direttamente sul suo futuro.


Note: Mi dispiace aver lasciato passare più di un mese, prima di aggiornare. Perdonatemi, ho fin troppi dubbi su questa storia e ho paura di non rendere giustizia all'idea che avevo nella mia testa. Siate clementi, sperando che ci sia davvero qualcuno che legga.
Ad ogni modo, so che il finale sembra tranciato a metà, infatti il capitolo doveva contenere il primo giorno di lavoro di Viola nella sua interezza, ma mi sembrava davvero troppo lungo e forse anche un po' noiosetto. Vi prometto che la storia si sbloccherà quanto prima, purtroppo per renderla "verosimile" ho bisogno di un po' di tempo per introdurre Hayden.
Vi ringrazio per eventuali critiche positive e negative che siano. Alla prossima-

 
   
 
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