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Autore: Lost In Donbass    13/09/2015    1 recensioni
Breve monologo di una ragazza di mare che rimpiange il suo amore perduto.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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REMEMBER WHEN …
Avevi gli occhi azzurri. Pensi forse che io non me lo possa ricordare? Hai mai pensato a quegli enormi occhi a mandorla che disegnavo dappertutto, sui quaderni, sui libri, sul banchi, sui muri, dovunque? Hai mai realizzato il perché io parlassi sempre e solo di occhi? Forse no. Ma tu non realizzavi mai niente in tempo. Erano talmente blu da far male alla vista, da perforare qualsiasi muro, qualsiasi cuore, qualsiasi anima. Così blu, così profondi, così marini da poter incantare me. Me, ti rendi conto? Perle di rara bellezza, che soffocavano, si facevano amare, che distruggevano e che consolavano, occhi che prendevano e che mollavano. Occhi da cui dipendevo, da cui tutti noi venivamo incantati. E tu non te ne rendevi conto, e ci guardavi senza problemi, senza sapere, senza pensare a quanta gente soffocavi con quello sguardo, a quanta gente facevi annegare nel blu osceno delle tue iridi luminose. Aspettavi me, come Medusa aspettava Perseo. Colei che avrebbe resistito ai tuoi occhi tanto da poterti guardare dritta nelle pupille.
Avevi i capelli biondo grano. Scivolavano tra le mie dita, leggeri, setosi, rilucenti di perla alla luce del sole. Pensi forse che io non risenta sotto le dita i tuoi fili dorati? Quando erano bagnati dall’acqua di mare, incrostati di sale, impregnati di oceano. Quando splendevano d’oro puro sotto il sole cocente che cuoceva il campo di grano infinito su cui correvamo fino a svenire in mezzo alle spighe sporche di sangue. Accecavano, da quanto erano biondi. Quando covavano una luce nascosta nelle sere d’inverno, che aspettava di uscire dirompente in primavera, splendeva pulsante nella fibra dei tuoi capelli. E noi la guardavamo, ammaliati dalla luce che potevi emanare in qualsiasi momento. E rimpiango ancora quando potevo accarezzarti i capelli, scompigliarteli, intrecciarteli con le margherite che crescevano dietro il muro della cascina. Quando ti mettevo un velo bianco in testa, e dicevo che eri la mia sposa.
Avevi la pelle candida. La accarezzavo sempre, quando ti tenevo per mano, quando in città dovevo trascinarti e non farti perdere in mezzo alla gente, come una povera fata strappata alla sua Corte. Quando riluceva alla luce lunare, sul tetto e sembravi uscita direttamente dal Cielo, essere troppo bello per poterci appartenere. Quando al mare ti scottavi come un’aragosta, e toccava sempre a me fasciarti le scottature. Quando d’inverno le guance ti diventavano rosso fuoco, come le tue labbra quando ti baciavo. Era bello baciarci sul tetto di notte, tu che rilucevi baciata dalla luna e io avvolta nell’oscurità dell’Inferno da cui provengo e che governo. Era bello baciarti anche al mare, tu, diretta figlia del sole e dell’acqua e io, frutto degli abissi più neri e più reconditi di un oceano che ci ha concepite, cresciute, uccise.
Avevi la gonna a righe. E roteavi, me lo ricordo. Quando il vecchio giradischi cominciava a girare veloce, tu iniziavi a ballare delicata, come una fata, ondeggiando sulle note dei vecchi balli dimenticati. Cercavo di convincerti a vestirti in modo moderno, ma tu niente: gonna, camicetta, cappotto grigio, guanti durante l’inverno. Sembravi così tanto simile a loro, alla loro ottusità, al loro essere bigotti: eppure eri il contrario, un cambiamento unico che celavi dietro il cappotto e sotto i guanti di lana verde scuro.
Avevi un sorriso splendido. Scendevamo lungo il fiume, tenendoci per mano, almeno lì, al sicuro dai loro sguardi, dove solo gli alberi chini sull’acqua potevano compiangerci e biasimarci, solo l’acqua poteva piangere per noi, solo gli animali potevano sorriderci, solo l’erba bagnata poteva farci da madre che io non ho mai avuto e tu nemmeno. Mi ricordo come brillavi, di luci morte e vive, risplendente come una specie di santa del demonio, sopra le spighe di grano, come noi tutti ci trascinavamo dietro alla tua scia di brillanti, e tu ci lasciavi al buio della strada, quando ti chiudevi in casa. E noi fuori a disperarci, a mendicarti un sorriso che ci potesse far dormire tranquilli. Ma io lo sapevo di averne uno solo per me, e fingevo, davanti a loro. Perché io potevo farlo, ero una di loro. Tu no.
Avevi la voce sottile. Cantavi, sul tetto della casa, quando io poi arrivavo arrampicandomi dal balcone, sulle tegole, sui camini, per abbracciarti e sentirti intonare qualche vecchia canzone sentita alla radio. Te la ricordi, la radio che ti avevo regalato, rubata giù in città? Quando la attaccavi e ballavi, e sentivamo le notizie. Eri l’unica ad avere la radio, nascosta sotto il materasso. Con le nostre canzoni straniere che raccontavamo agli altri come fossero storie, e loro pendevano dalle nostre labbra, mentre raccontavo e tu cantavi. Quant’è che non sento la tua voce. Chissà chi è ora il fortunato che ti può ascoltare, non è più la ragazza di quindici anni che viveva nei capannoni come i piccoli marinai della sua età. No, sarà un ricco avvocato, o magistrato che non saprà apprezzare.
Avevi la brutta abitudine di venire al porto con me. Dove io picchiavo, venivo picchiata, uccidevo, venivo uccisa, rubavo e mi veniva rubato. Dove si annidava tutta la feccia di questo mondo, e dove io gestivo i miei affari. Quando entravi nella vecchia casa, e loro mi avvertivano e io ti venivo a prendere, portandoti sui tetti, dove la puzza di pesce e di nafta era più accettabile e dove nessuno ti avrebbe sfiorato con un dito. Quando ti narravo le storie di mare che giravano per quelle vecchie case distrutte, appena prima della campagna. Quando tu piangevi, perché non potevo scappare dalla mia condizione sociale e tu dalla tua, e quando ti dicevo di scappare via con me su un bastimento, ma ti opponevi. Eri una sedicenne assennata, certo. Per mia sfortuna.
Avevi le mani di perla. Te le stringevo tra le mie, quando ti tiravo su per i tetti, quando salivo sul tuo balcone e le stringevo fino a farmi e a farti male. Dormivamo insieme, a volte, se io riuscivo a infiltrarmi in camera tua, come due bambine, tu in camicia da notte di lino, io con un pigiama troppo grosso e puzzolente di fumo, nel grosso letto che avevo il terrore di sporcare. Dormivamo in pace, come sorelle, tenendoci una mano e io scappavo quando arrivava l’alba, e tu non ti svegliavi mai in tempo per vedermi piangere mentre chiudevo la finestra. E meglio, perché tu non dovevi vedermi piangere.
Avevi il coraggio di una bestia. Per stare con la sottoscritta, nel suo mondo malato fatto di storie, mare e porti. Per andare contro la tua famiglia, la tua estrazione sociale, le tue basi. Superavi tutto, stando con me. Ritrovavi una libertà che non avevi mai avuto, uscivi dal tuo guscio finto per essere vera. Essere libera. Con chi sarai ora? Di nuovo prigioniera del tuo mondo e del tuo credo, di nuovo vittima dei soprusi della borghesia. Invece che viva nel mondo dei poveri e dei ladri. Invece che con me, a sopravvivere come bestie. Ti venererei come una regina, se ti avessi. Ma tu sei lontana da me, sei scomparsa e so che non ti riavrò più. Mi manchi.
Avevi la faccia tosta. E lo so, perché rispondevi, ti facevi valere, ma non era colpa tua se nessuno ti ascoltava. Quando facevi credere loro di essere attenta, invece pensavi a me, alla tua amata nascosta sotto una cassa di acciughe che cercava di procurarti le novità che venivano dai lontani continenti. Come quando ti avevo portato una collanina di perle giapponesi, rubata a un tizio morto. Non so se andrò all’Inferno, per aver rubato a un cadavere, ma anche fosse mi andrebbe bene perché era per te. E lo sai che ti amo ancora, come quando ti ho vista per la prima volta.
Avevi una collana d’oro, con il simbolo della Madonna. E tu ci stavi sempre così attenta, la stringevi nel pugno, la tenevi al collo anche quando venivi da me, e ti avrebbero dato della blasfema se lo avessero saputo, che anche io toccavo quel ciondolo. Io, con le mani sporche di grasso e di fumo. Io, con il fiato che sapeva di sale e di sangue. Io, che non meritavo niente secondo loro. Io, che ti amavo più di me stessa e che venivo amata da te. Eri un motivo per lottare, per vivere, per morire, per credere in qualcosa che ci avrebbe aiutate a consumare la nostra vita insieme. Ma ora tu non ci sei più, e nemmeno la collanina d’oro che mi volevi regalare. Avevo rifiutato, perché tu ne avevi più bisogno, per resistere al mondo che andava cambiando sempre di più e che inevitabilmente lottava per separarci.
Avevi le guancie rosse, e non puoi sapere quanto mi mancano. Toccarle, baciarle, accarezzarle. Chissà ora chi può apprezzare le tue guancie, ma lui non è sicuramente in grado di toccartele come facevo io. Perché è una cosa diversa, la bellezza oggettiva di un uomo che ti ha sposata per costrizione, e la bellezza soggettiva di una ragazzina che non ti ha mai più visto da quella orrenda sera di molti anni fa, quando tu mi salutasti piangendo, e io non ti avrei più lasciata andare. Mi hai portato via i ricordi, le memorie, le gioie, i dolori, la vita. Te ne sei andata distrutta come me, due ruderi lasciati all’intemperie, costrette ad amarsi senza sapere dov’è finita l’altra, costrette alla distanza più orrenda, a un silenzio che durerà tutta la vita e anche durante la morte. Non saremo mai felici, bambola, mai.
Avevi la passione per le storie. Quando ti raccontavo le cose che accadevano al porto, le storie di mare narrate nelle bettole, i canti che portavano i gabbiani dall’Ovest. Tu ascoltavi, facevi domande, ti interessavi ai racconti che non saranno mai nostri. Avrei voluto viverle con te queste avventure di altri uomini, portarti nel mio mondo, eppure non ce l’abbiamo fatta. Fallito ancora prima di cominciare. Polvere ancora prima di bruciare. Morte ancora prima di venire alla luce. Non è giusto, bambola, non è giusto niente. Ci hanno staccate, mutilate della nostra fonte vitale. Ci pensi ancora, alle mie storie? Le racconti ai tuoi figli, sempre che tu ne abbia? Le scrivi sul tuo diario segreto, se l’hai ancora? Il diario con qualche mio tremulo segno quando mi insegnavi a scrivere. Le sogni sul tuo letto caldo e morbido, al fianco di un uomo sconosciuto? Io non ho nessuno a cui raccontarle, a volte ai bambini dei porti in cui capito. Non mai avuto nessuno dopo di te, solo un cuore spezzato che non si rimarginerà mai.
Avevi un nome, ed era Matilde. Me lo ripeto ogni giorno, sulla lingua, prima di dormire, appena sveglia. Eri la mia donna, la mia vita, il mio sangue, le mie mani. Eri Matilde quando ci baciavamo, quando ci facevamo promesse, quando piangevi, quando io piangevo e tu non mi vedevi. Quando tu soffrivi e io mi facevo forte per te, anche se pian piano mi laceravo l’anima. Anima mia, dove sei finita? Chissà se l’uomo che adesso ti ha sposata riesce ad intuire l’amore che spero tu ancora provi per me. Se legge all’inverso nei tuoi occhi la tristezza che ti attanaglia, se capisce dalla tua voce ciò che io ho lasciato dentro di te. Chiuditi in te stessa, come sto facendo io. Il mio germoglio è morto quando tu te nei andata via per sempre. Ma cos’è un per sempre? È una vita, è una morte interiore, cos’è? Per me, è il vivere come un morto senza di te. Senza poter dire il tuo nome. Senza ritrovarti mai se non nei miei sogni, sempre uguale. Ti ricordi la prima che volta che dissi il tuo nome? Hai ancora il pegno con il tuo nome che ti avevo dato, inciso nel legno solo per te?
Io ti amo ancora Matilde, e non ti dimenticherò mai.
  
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