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Autore: theflairforanopera    13/09/2015    0 recensioni
Ballava, ammiccante come solo lei sapeva, elegante come nessun’altra. E quando un uomo le faceva cenno, lei sceglieva chi le sembrava più disperato, chi aveva scritto in faccia che a casa aveva da rimboccar le coperte a moglie e bambini, e faceva sì che gli arrivassero su un bigliettino le indicazioni per la sua stanza.
Genere: Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Nel più profondo del cuore della parte antica di Amsterdam, c’era una parte chiamata “De Wallen” – o meglio: le mura – in cui c’era un mercato piuttosto inusuale da veder di giorno, ma meno inusuale da immaginar di notte: si vendeva l’amore e l’amor si comprava. Non al chilo, sia chiaro: in minuti. Cinquanta euro per un terzo d’ora d’amore.
“De Wallen” era parte del celeberrimo “Rossebuurt”, il quartiere a luci rosse di Amsterdam. Eppure tra gli uomini del posto, ubriaconi o meno, c’era chi giurava che attorno a Eva le luci scemassero inspiegabilmente in sfumature bianche e che i suoi fianchi, i suoi seni, le sue curve brillassero di luci eteree e innaturali. Alcuni erano disposti a giurarlo sulla canna che tenevano fra le dita, altri blateravano su quanto semplicemente belle fossero le sue sode natiche.
Marlène era la più brillante ballerina e cantante del suo “caffè della sera”, nonché più astuta ed esperta donna del “marketing dell’amore”. I riflettori sembravano baciarle la carne candida e spoglia, stretta in quei corpetti di pizzo e organza. Gli uomini l’avevano ribattezzata Eva, perché tentatrice, per le sue labbra rosse di peccato originale, e lei si sentiva ormai Eva, perché tentatrice, perché  macchiata di peccati non suoi.
Marlène spense la sigaretta di camomilla sotto il tacco, si diede un’ultima sistemata allo specchio prima di entrare in scena. Le luci gialle del camerino la invecchiavano, pensò. Ma non era proprio così: non erano le luci, a sfiorire quei suoi appena compiuti e freschi diciotto anni: erano il fondotinta a coprirle le lentiggini, le carezze di sconosciuti, i drink pagati al bar, le grosse mani ruvide sulle cosce,  le banconote infilate tra i seni, i rossi capelli mai spettinati. Sistemò il seno nel corpetto, scoprì leggermente di più il sedere. Era pronta.
L’ennesima sera.
Ballava, ammiccante come solo lei sapeva, elegante come nessun’altra. E quando un uomo le faceva cenno, lei sceglieva chi le sembrava più disperato, chi aveva scritto in faccia che a casa aveva da rimboccar le coperte a moglie e bambini, e faceva sì che gli arrivassero su un bigliettino le indicazioni per la sua stanza.
Quella sera, a osservarla, incuriosito, c’era un uomo sulla cinquantina. Aveva quasi la bava alla bocca, per come la bramavano le sue labbra, per come la bramavano le sue mutande. S’era pagato una birra. Nel portafogli aveva le foto di due bambini e la faccia di una donna, forse, tagliata a metà. Mentre sfilava la banconota da cinque s’era fermato a rimuginarci su per qualche secondo. Aveva richiuso il portafogli con lo sguardo assente. Poi, scrollando la testa, fissò di nuovo lo sguardo su di lei. Era quello perfetto.
Marlène era estremamente meticolosa, dall’alto del suo palco, nella scelta dei “suoi uomini” e lui aveva l’aria di un povero cristo che avrebbe sborsato anche cento bigliettoni per trenta minuti facili.
Si fece aiutare da un uomo seduto in prima fila a scendere le scale del palco. Lui non si lasciò scappare l’occasione per aiutarla tenendole le mani sul sedere. Un tizio sulla sessantina le infilò una banconota da cinquanta nel reggiseno. Lei sorrise, si accomodò sulle sue gambe aperte, premendo il sedere sul suo membro moscio nonostante l’evidente desiderio. Poi s’alzò di scatto: indossava mocassini in pelle firmati, non era per lei.  Sporse le natiche verso le mani del vecchio, si prese la sua sculacciata. E anche altri cinquanta euro sotto gli slip.
Diede un biglietto al cameriere, indicando l’uomo in fondo al locale che aveva già scelto. Sculettando, si ritirò nella sua stanza, preparandosi ad accogliere sulle sue coperte rosse, il cristo di turno.
Nell’attesa, ebbe modo di ripetere il copione: “Non sei Marlène Meijer: sei Eva, ora. Solo una manciata di minuti. Passa presto.
Il cliente aprì lentamente la porta. Lei era stesa sulle sue lenzuola di seta rossa. Gli fece cenno di avvicinarsi, si alzò e si accese un’altra sigaretta di camomilla. Poi rivolse verso di lui un pacchetto di Marlboro rosse. Rifiutò scuotendo la testa. Se ne stava lì in piedi di fronte a lei, in imbarazzo.
“Come ti chiami?”, gli fece.
“Mark.”
“Vieni qui, Mark, non aver paura.”
Lo tirò dai passanti dei pantaloni, facendo notevolmente crescere ciò che conservava nelle mutande. Lo fece stendere sul letto. Cominciò a baciargli il collo, a leccargli le dita.
D’un tratto lui la fermò. “Ecco, ci siamo”, pensò lei. La fece spostare.
“Ma quanti anni hai?”
“Rilassati, va tutto bene.”
“Potresti esser mia figlia.”
“Ma non lo sono. Un uomo così non avrebbe cresciuto una ragazza come me. Vieni qui, vieni.”
“Sei una ragazza cattiva, oh sì… Una ragazza cattiva…” ripetè, eccitato.
“Sì, vieni. Rilassati.”
Poggiò le sue piccole mani sui suoi pantaloni. Lui si fermò ancora. C’aveva preso: era davvero quello giusto. Non era sesso, ciò che voleva. Voleva qualcuno con cui parlare.
“Fermati. Come ti chiami, bambina?”
“Sono Eva.”
“Come quella della Bibbia.”
“Non ti piaccio, forse?” chiese lei, provocandolo.
“Potresti esser mia figlia.”
“Ma non lo sono.”
“Eppure c’è qualcosa…”
“Rilassati, Mark.”
“Com’è che ti chiami?”
“Eva, ti ho detto.”
“No, sul serio.”
“Come ti chiami tu?”
“Mark Meijer.”

Marlène ci pensò un po’. Sembrò aver ricevuto un colpo nello stomaco.
Meijer: quello era il suo cognome.
Sua madre le aveva raccontato di come suo padre fosse un uomo buono e affascinante. Era un marinaio. Si erano amati tanto, eppure la sua vita era in mare. Dunque lei lo lasciò libero di andare, ma non appena lui ripartì, la sua pancia cominciò a crescere, e crescere. Gli scrisse lettere ogni mese, fino a quando Marlène non nacque. E allora lui si presentò con un cesto di fiori raccolti da lui stesso e una coperta per la bambina. Le baciò le manine, baciò sua madre sulle labbra. Poi andò via, dicendo semplicemente che voleva che la bambina avesse il suo cognome.
Sua madre le aveva raccontato che dalle ultime lettere che si erano scambiati aveva saputo che ormai viveva in Andalusia, lontano da loro. 
Questa era la dolce storia che conservava Marlène dentro di sé. Ed era il dolce motivo per cui era disposta a vendersi: doveva riuscire a trovare suo padre.

“Ed è da tanto che hai ‘sto vizio?”
“Ragazzina, bada a come parli.”
“…”
“Erano più di vent’anni, che non venivo in un locale…”
“Cosa fai nella vita?”
Si mise a sedere, lo invitò accanto a sé. Lo abbracciò, facendogli poggiare la sua testa sui seni scoperti.
“Sono in pensione ormai. Ero un lupo di mare, un marinaio.”
Il colpo nello stomaco si fece più forte.
“Come mai non c’hai messo piede per così tanti anni?”
“L’avevo conosciuta, la donna della mia vita. Non avevo bisogno di nessun’altra.”
“Hai avuto figli con lei?”
“Una bambina…”
“E’ lei la bambina che conservi nel portafogli?”
“Come lo sai?”
“…”
“No, non è lei. Non ho fotografie della mia bambina. L’ho potuta vedere solo una volta.”
Gli sfilò la cintura, gli aprì la cerniera dei pantaloni. Lo mise a zittire. Lo tirò su di sé. Si lasciò spogliare. Lo amò fra le labbra, fin dentro la gola. Amò sentirlo godere. E si stese sulle lenzuola, lasciandosi aprire le gambe. Pianse, decidendo di donare la purezza del suo corpo a suo padre.
E pianse anche lui, nel ritrovare il pene, le mutande, le mani e perfino le sue lenzuola di seta sporchi del sangue di quella ragazzina.
“Sono tua, papà. Sei tu l’uomo di cui mi ha raccontato mia madre. Ti ho trovato. Sono tua. E ti amo.”
“Non puoi esser la mia bambina.”
“Credo di esserlo, papà. E sono tua, ora.”
L’uomo le diede uno schiaffo in pieno volto, si rialzò i pantaloni e fuggì via.

Inger era seduta sulla sua solita poltrona. Era un venerdì sera e alla TV non trasmettevano nulla di interessante: niente programmi di cucina a quell’ora, niente film da guardare, solo una interminabile serie di talk show e squallidi reality. Aveva abbassato completamente il volume, giusto perché quelle immagini di persone che muovevano le labbra senza emetter suono le tenessero compagnia. Sfogliava vecchi album di fotografie, ogni tanto rilucidando gli occhiali. Nella sua mente affioravano copiosi i ricordi tristi della serena infanzia della sua bambina. Ricordava il suo primo compleanno: quando la sua piccola Marlène non riusciva a spegnere la candelina sulla torta e al quarto tentativo soffiò insieme a lei, illudendola di esserci riuscita da sola.
Poi arrivò alla foto del primo giorno di scuola: quello era stato l’anno in cui più aveva fatto domande sul suo papà. Inger, per tutti quegli anni in cui la bambina non si era dimostrata così pretenziosa di sapere, così curiosa di conoscere chi l’aveva messa al mondo, aveva avuto il tempo per ricucire i più minuziosi dettagli rigurardo suo padre, per dipingerlo nella sua mente come chi meritava di essere. Forse, andando a scuola, e incontrando i padri delle sue amichette; forse vedendoli venire a prendere le loro bambine all’uscita, si era incuriosita sull’avere un padre. Forse pensava fosse un privilegio che lei non era tenuta a ricevere. E fu per questo, che Inger, tentò con ogni sua forza di non farle mai mancare nulla e proteggerla in qualsiasi maniera.
Non avrebbe mai voluto che la sua bambina seguisse le sue orme, facesse i suoi stessi sbagli, mettendo piede nello stesso mondo che aveva intrappolato lei anni e anni addietro.
E fu per questo, che non appena sentì il messaggio lasciato alla segreteria telefonica, dalla stessa Marlène, le si gelò il sangue:
“Mamma, sono io, Marlène. Ho trovato papà. L’ho trovato. Sto arrivando a casa. Non credo sia la persona di cui mi hai raccontato tu…”
E allora la donna non ebbe altra scelta: riempì la vasca da bagno, ci si infilò vestita.
E si tagliò poi le vene dei polsi.

Marlène girò lentamente le chiavi nella toppa della serratura. Stava assaporando quel momento atteso da tutta la vita, che pure l’aveva delusa. Ma non aveva alcuna fretta. Le gambe le sembravano d’un tratto pesanti. Strinse di più il cappotto attorno a sé per nascondere alla mamma i vestiti della vita segreta che portava al di sotto. Posò l’ombrello, si tolse la sciarpa. Entrò in salotto, poi attraversò il corridoio fino alla cucina. Sul tavolo trovò un biglietto.

Amore, amore mio. Forse non potrai mai sapere chi sono stati né il tuo papà né la tua mamma. Non siamo mai esistiti. Soprattutto io.
Ti ho amata.


Meijer: quello era il suo cognome. Eppure la storia era andata in un modo ben diverso da come era stato raccontato a Marlène. Sua madre non era nuova, all’epoca, al mestiere più antico del mondo. E quando si rese conto di non riuscir più a guardarsi le dita dei piedi, non sapeva chi potesse essere stato l’uomo a darle quel figlio.
Quando, in una giornata fredda d’inverno, nacque Marlène, Inger la affidò al cognome più sicuro, il più comune possibile: Meijer. Era, così, sicura che non avrebbe mai fatto domande, se le avesse raccontato di un padre che in realtà non era mai esistito. E forse avrebbe fatto meno male crescere una bambina inventando un uomo che l’aveva amata veramente.
Suo padre sarebbe potuto esser chiunque ad Amsterdam, e così doveva essere.
Ma fu così che la bambina di Inger si donò a un chiunque qualsiasi, finendo ciò che la sua mamma aveva cominciato.
   
 
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