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Autore: Akilendra    16/09/2015    3 recensioni
"Come si può fermare un cuore innamorato? Come gli si può dire che deve smetterla? Smetterla di amare, perché un cuore innamorato è un cuore malato e l'amore è la sua unica malattia, l'amore è la sua unica cura. Come si può fermare un cuore innamorato?
Non si può.
Continuerà ad amare sempre, si farà male, si farà bene. Togligli l'amore e appassirà. Diventerà arido e ghiacciato, duro come il marmo. Togligli l'amore e guarirà, ma sarà morto.
Loro erano vivi. Malati di amore, ma vivi."
Questa è la storia di due parabatai: iniziata a scrivere quando avrei tanto voluto leggerla, interrotta quando ho saputo che c'era e che sarebbe uscita, completata nell'attesa dell'unica ed originale scritta dalle ben più degne mani di Cassandra Clare.
Questa è la storia di Ben e Lena.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eccomi!
No, non mi ero persa chissà dove, solo che non credevo fosse una buona idea pubblicare questo ultimo capitolo prima di aver scritto l'epilogo, che in effetti ora come ora ho solo iniziato a scrivere.
In realtà all'inizio questo doveva essere l'epilogo (ovviamente la parte finale sarebbe stata diversa, ci sarebbe stata un'effettiva fine) poi però sono subentrate altre idee, nonché il sospetto che finirla qui sarebbe stato un po' troppo semplicistico.
Ma parliamo di cose serie... Udite, udite: in questo capitolo fanno da comparse (?) due personaggi di cui non ho ancora scritto ( in realtà di cui non ho ancora neanche letto). Avendoli stalkerati a lungo (ahahahah) ho cercato di rimanere fedele a quel poco che sapevo di loro, ma per vari motivi potrebbero non corrispondere a quelli originali. Anzi, sicuramente ci sarà qualcosa che non corrisponderà e Cassandra voglia perdonarmi se ho osato violentarli in questo modo! Ahahahah
Devo ringraziare principessac, Grace0191 e Stellina1993 innanzitutto per le loro belle parole, poi per la pazienza dei miei ritardi e per il tempo che spendono a leggere la mia storia: grazie davvero!
Spero che questo ultimo capitolo non sia una delusione ed anche se lo fosse, in effetti, apprezzerei se qualcuno me lo dicesse...
Un bacio (anche a voi cari lettori silenziosi), Akilendra


Ah, le frasi in inglese centrate ed in corsivo all'interno del capitolo appartengono al testo di due canzoni: la prima è da Ink dei Coldplay, le altre sono da I Bet my life degli Imagine Dragons.
Boh, questo capitolo mi ispirava molta musica... 
Secondo Ah (mi ricordo le cose all'ultimo minuto) proprio alla fine ci sono delle frasi che dice Ben, prese dal capitolo 18 (Questa non è una favola), probabilmente si capisce ma volevo specificarlo.
Detto ciò, non ci sarà più nessun "Ah"...  Credo.







27. L'unica sola verità





Tre anni dopo, a Los Angeles



Il sole ondeggiava indeciso se spegnersi oltre l'orizzonte o continuare a brillare. I suoi raggi si riflettevano sull'asfalto, sui vetri specchiati dei grattacieli, sulle palme nelle aiuole dei marciapiedi. Non un filo di vento smuoveva quell'aria intrisa di salsedine, Lena la sentiva addosso; i capelli, ramati alla luce del tramonto, le pesavano sulle spalle. Sfilò dal polso un elastico sperando di riuscire a domarli in una crocchia, quando questo si spezzò, le onde ambrate le ricaddero addosso, alcune ciocche le si appiccicarono alla pelle sudata del collo. Alzò gli occhi al cielo.
Sbuffando per spostare un ciuffo di capelli dal viso, si chiese come facessero gli Shadowhunters di lì ad indossare la divisa da cacciatori con quel caldo. A lei sembrava ancora insopportabile, ma del resto non era una che si abituava in fretta alle cose. Non le era bastato un anno per abituarsi a Los Angeles, sospettava che ormai non sarebbe più accaduto.
Forse avrebbe continuato a meravigliarsi di quelle strade che si accavallavano una sull'altra come le gambe di una signora, del sole cocente che faceva apparire piccole efelidi sulle sue guance e le schiariva i capelli , della gente che in estate girava in costume. Forse non si sarebbe mai conformata alla pazzia locale ed avrebbe continuato ad aspettare che scattasse il verde del semaforo per attraversare la strada. Forse non l'avrebbe mai sentita casa, eppure era rimasta dopo tutto quel tempo passato ad andarsene.
Aveva viaggiato, due anni con la valigia in mano, aveva oltrepassato più portali di quanti se ne potessero contare, conosciuto persone difficili da dimenticare. Non si era fermata mai. Mai, fino a quando non si era imbattuta nell'Istituto di Los Angeles.
Era stato strano dopo due anni trascorsi rimbalzando da un luogo all'altro — nessuno mai le sembrava abbastanza lontano — fermarsi, ancora più strano era stato tornare indietro. Indietro, di nuovo in America, così vicina ai ricordi, così vicina a quella che per lei sarebbe sempre stata casa, così vicina a...
Accelerò il passo concentrandosi solo sul suo respiro, l'aria che entrava ed usciva dal polmoni.
Dentro e fuori, fuori e dentro, ancora e ancora: un trucco che aveva imparato in India. I pensieri sbiadirono, si consumarono piano, scivolarono via come sabbia tra le dita e azzerarono la mente.
Funzionava sempre, per poco, ma funzionava sempre.

Il sole era appena tramontato e una sottile nebbiolina avvolgeva già ogni cosa. La chiamavano June gloom* e non c'era modo di sfuggirle; la prima volta che ci si era trovata dentro Lena aveva pensato ad una sauna naturale. Umidità, soffocante, appiccicosa; l'uniforme aderiva perfettamente al suo corpo come una seconda pelle. Quel giorno toccava a lei la ronda e Lena sperò con tutta se stessa che, se ci fossero stati demoni nei paraggi, anche loro avrebbero sofferto il caldo.
Gli occhi setacciavano la foschia, facevano lo slalom tra le persone, cercavano bersagli su cui provare i suoi nuovi coltelli. Si trattenne più del dovuto ma, con tutta la buona volontà, tornò all'Istituto con le lame ancora perfettamente intonse.

L'Istituto di Los Angeles non era antico come quello di Roma, né alto come quello di Hong Kong, eppure ispirava una certa ammirazione. A Lena era sembrato fin da subito, con la sua architettura simmetrica, un luogo accogliente. Col tempo aveva capito che ciò che possedeva di più prezioso, lo serbava al suo interno.
Mentre si avvicinava all'edificio sollevò lo sguardo come faceva sempre, una figura se ne stava appoggiata dietro il vetro della finestra più alta, Lena fece incrociare i loro sguardi, come sempre.
Blu contro blu.
Rallentò il passo per non arrivare prima di lei e si ritrovò a sorridere quando fu la ragazza ad aprirle il portone.
- Più veloce! - Come sempre
- Si, Emma, sei la più veloce - ridacchiò scompigliandole le chioma bionda e lei si scansò per lasciarla passare. Mentre si aggiustava i capelli con le mani, chiuse la porta con un piede.
Emma Carstairs era una forza della natura, una di quelle che solo a guardarla ti veniva il mal di testa. Fiera, orgogliosa, una tipa tosta; nei combattimenti dava del filo da torcere ai cacciatori più grandi di lei. Tutti pensavano che un giorno sarebbe stata una cacciatrice degna di questo nome. Secondo Lena lo era già.
I primi tempi all'Istituto l'aveva considerata una ragazzina piena di sé, con i suoi quindici anni credeva di poter mettere a soqquadro il mondo. Un anno era servito non a farla cambiare, ma a far cambiare l'opinione di Lena. Aveva imparato che sotto quella maschera di presunzione si nascondeva un dolore troppo grande per la sua giovane età; le avevano raccontato la sua storia e lei non aveva potuto fare a meno di rispecchiarsi in quegli occhi blu così simili ai suoi. Vivere da orfana non era una passeggiata, vivere con il desiderio di vendetta ti faceva crescere in fretta.
Oh Lena, non è per quello che le somigli. 
Gli occhi corsero al braccio della ragazza, scorsero una runa che lei un tempo aveva incisa sul petto e lì si fermarono. Ancora una volta, come tante altre, solo per torturarsi un po'.
Emma aveva un parabatai.
Emma lo guardava in uno strano modo.

Julian Blackthorn era il cucchiaino di zucchero senza il quale non puoi bere il caffè. Jules addolciva Emma e lo faceva in un modo in cui non te lo saresti mai aspettato. Riflessivo, caparbio, trovava sempre il modo migliore per uscire da una situazione, portava sulle spalle una grande responsabilità senza mai lamentarsene. Divertente senza mai essere offensivo, onesto ma mai cinico, un grande ascoltatore, un fedele amico, un artista. Un buon parabatai.
Emma aveva iniziato a fidarsi di Lena solo quando l'aveva fatto anche Jules.
Jules... Lui era così diverso da...
- Allora? La cena è pronta, non vieni? - Fu una liberazione essere trascinata via dalle grinfie dei propri pensieri. Lena tirò un respiro di sollievo e seguì Emma.
Attorno al grande tavolo scuro erano riuniti i piccoli Blackthorn: Drusilla era intenta da fabbricare palline con la mollica del pane; Octavius aveva già cominciato a mangiare ignorando bellamente chi non si era ancora seduto a tavola; Tiberius aveva girato la sedia ed ora parlava sottovoce con la gemella Olivia; Ariadne piagnucolava in braccio a Julian mentre questo cercava di imboccarla. Lena si fermò sulla soglia della sala e si prese un attimo per ammirare l'insolita banda.
- Dov'è Arthur? - chiese al più grande notando l'assenza dello zio. Come spesso capitava, Emma rispose per lui.
- È in soffitta a leggere qualche stupido libro più vecchio dell'interno Mondo Invisibile - Lena si accigliò. Arthur Blackthorn avrebbe dovuto dirigere l'Istituto, prendersi cura dei nipoti e di Emma... Tutte cose di cui si occupava Julian.
Fece dietrofront intenzionata a trascinarlo giù per le scale a forza, ma Jules, che si era alzato dal tavolo, la raggiunse afferrandola per un braccio.
- Per favore, lascia stare, Alena. Non è importante - Avrebbe avuto qualcosa da ribattere, ma poi lo guardò. La piccola Ariadne aggrappata al corpo come un koala, schizzi di purè sui pantaloni, i capelli scompigliati dalle manine della sorella; pensò che fosse più intelligente dargli una mano che buttarsi nell'ennesima crociata contro lo zio. Tese le braccia in avanti in una tacita offerta di aiuto, Julian le affidò la sorella con la gratitudine negli occhi.

Lena aveva girato il Mondo Invisibile, era stata ospitata negli Istituti più prestigiosi, trattata con i guanti perché, anche se cercavano di non darlo a vedere, tutti conoscevano la sua storia. Lì era diverso. I Balckthorn vivevano in una specie di bolla di sapone, un po' staccati da tutto; per Jules era già abbastanza prendersi cura dell'Istituto e dei suoi fratelli, non poteva preoccuparsi anche del resto del mondo. Ciò che sapevano di Lena era ciò che vedevano tutti i giorni e quel poco che lei stessa aveva raccontato.
Così quando la guardavano non vedevano niente di più di quello che era, niente preconcetti o pregiudizi, niente frasi mormorate sottovoce quando passava, niente occhiate impietosite. Nessuno all'Istituto di Los Angeles provava pietà per lei o per le cose che le erano successe e Lena non avrebbe potuto chiedere di meglio.
Dopo due anni passati a scappare si era finalmente sentita al sicuro, aveva sentito di poter avere ancora una possibilità. Per essere un'altra, per essere se stessa, una possibilità per dimenticare e per ricordare. Era tornata a farsi chiamare Alena, il suo nome, ciò che comportava, non la spaventava più: il passato era tale e non poteva fare più male. Solo una cosa continuava a fare male...
No. Non doveva pensarci.
Aiutò la domestica a sparecchiare la tavola per non soffermarsi su certi pensieri, trovando nei lavori di casa un ottimo diversivo. Certo, non era come affondare la lama nel corpo di un demone, ma poteva accontentarsi. Aveva imparato ad accontentarsi di tante cose.
Salì i gradini consumati della grande scala che portava al secondo piano, stava per passare oltre quando si accorse che all'interno della sala della musica la luce era accesa; c'era qualcuno, ma non stava suonando. Si avvicinò silenziosa allo spiraglio della porta, all'interno due figure parlavano fitto fitto.
- ...ci hanno sbattuti in questo Istituto per tenerci all'oscuro di tutto, vogliono tenerci lontani, così non possiamo dargli fastidio, hanno avuto un piano contro di noi per tutto questo tempo. Io non ci sto più, Jules, non lo accetto -
- Abbassa la voce, Emma, vuoi farti sentire da tutti? Non penso che il Conclave... -
- E allora cosa pensi? - 
- Penso che a quelli non gliene importi proprio niente di noi. Non c'è nessun complotto, se ne sono fregati per tutto questo tempo e continuano a farlo -
- E a te sta bene? Che mi dici di Mark e di Helen? Sono passati anni... E i miei genitori? Chi farà giustizia ai miei genitori? Non dirmi che ti sta bene così, Jules. Non ci credo - 
- E cosa vuoi fare? Cosa possiamo fare? - 
- Qui si parla della vita dei tuoi fratelli, della memoria dei miei genitori... Non me ne starò con le mani in mano, non più. Io... Io... - Nel lungo silenzio che seguì, Lena non riuscì a muoversi. Sapeva che doveva andarsene, che non avrebbe dovuto ascoltare una conversazione tanto intima, solo che non ci riusciva. Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
Il modo in cui si guardavano...
- Emma... - 
- Jules... - 
Il modo in cui ognuno dei due pronunciò il nome dell'altro...
Attraverso il sottile spiraglio, li vide abbracciarsi e provò qualcosa nei confronti di Emma. Una sorta di gelosa malinconia. Si sentì come vittima di un grande torto e si vergognò tremendamente di provare un sentimento del genere nei suoi confronti, a maggior ragione perché sapeva benissimo che non era Julian quel qualcosa che le invidiava...
Emma era la sorella che non aveva mai avuto, Emma non se lo meritava. Era ingiusta.
Si scostò bruscamente dalla porta costringendosi ad ignorare il discorso che proseguiva a bassa voce all'interno della stanza. E sapeva tanto di punizione quell'obbligarsi ad andarsene, quell'arrancare per le scale senza una meta precisa. 
Da cosa stai scappando questa volta, Lena?
Smetterai mai?

Quella sera non si fermò davanti alla porta dietro la quale i bambini fingevano di dormire, non gli diede la sua buonanotte silenziosa, come era solita fare. Camminò lungo il corridoio senza guardarsi indietro e quando arrivò alla sua camera ci si barricò dentro chiudendosi l'uscio alle spalle. Sarebbe stato certamente un piano efficace per isolarsi dal mondo, se solo non avesse condiviso la stanza con Emma.
Quando la ragazza entrò, Lena non era ancora pronta ad uscire da quella piccola bolla di isolamento in cui si era rinchiusa da sola. Emma, com'era sua abitudine, si tuffò accanto a lei sul suo letto, ignorando completamente il proprio. Le gambe incrociate, lo sguardo puntato verso il soffitto, le braccia intrecciate dietro la nuca. Si accorse di conoscerla molto bene quando seppe che stava per farle una domanda prima ancora che aprisse bocca e si preparò a rispondere ad una delle solite domande sui suoi viaggi. Avrebbe chiesto di Tokyo questa volta? Di Amsterdam? O di Londra? Le avrebbe parlato volentieri dell'Africa.
- Alena, posso farti una domanda? - Me l'hai già fatta.
Norvegia? Portogallo? Ad Emma non avrebbe detto di no, le avrebbe raccontato anche della Bulgaria, se solo lo avesse chiesto, le avrebbe...
- Come faccio a sapere quando una cosa è sbagliata? - Oh...
- Voglio dire: so che è sbagliata... Cioè, sarebbe sbagliata per chiunque.. - Ma tu, Emma, non sei chiunque.
- Però... - Però non è così semplice.
- Oh, ti prego, dimmi qualcosa. Non ci capisco più niente! - Che ironia bastarda aveva la vita. Le stava davvero chiedendo quello che aveva appena sentito?
Lena si prese un attimo per riflettere. Non aveva la minima voglia di aprire un discorso del genere e per un attimo fu tentata di liquidare la sua domanda in modo sbrigativo. Tuttavia Emma meritava una risposta migliore e lei le diede la migliore che aveva.
- Vedi... A volte, ciò che è sbagliato per chiunque è tremendamente giusto per te - Certo, la migliore che aveva, ma Lena era sempre stata piuttosto a corto di risposte. Non le aveva per lei, come poteva darle a qualcun altro?
- E allora come si fa? Come faccio a capire quando è giusto e quando non lo è? - Sfilò la testa da sotto il cuscino e si girò per guardarla, ora che anche lei aveva smesso di fissare il soffitto, si ritrovarono occhi negli occhi.
Blu contro blu.
- Lo senti, Emma. Lo senti e basta - A quelle parole la ragazza si alzò in piedi sul letto, il materasso rimbalzò ad ogni suo movimento infervorato.
- E se io lo sentissi? È possibile che io lo senta proprio in questo momento? Mi stai dicendo che non dovrei cercare di forzarmi, se lo sento non devo reprimerlo, giusto? Se lo sento non può essere sbagliato - Per l'Angelo, che stava combinando? Non doveva immischiarsi in certe faccende, non ne aveva forse avuto abbastanza? Non doveva incoraggiarla, non doveva spingerla verso qualcosa che aveva portato lei stessa verso la rovina.
Nessuna rovina, Lena. Nessuna rovina. Stai benissimo, va tutto a meraviglia. Nessuna rovina. Nessuna...
Suonava patetica persino a se stessa. 
Se pure si era persa in quei pensieri, Emma non lo notò intenta com'era nel perdersi nei suoi. Si lasciò ricadere sul materasso. Il braccio corse al petto, la runa incisa su di esso, quella runa, poggiava sul cuore. 
- Io lo sento. Proprio qui, Alena - Pensò che era un disastro e subito si sentì in colpa: solo perché lo era stato per lei, non significava che doveva esserlo anche per Emma. Lei era diversa, lei non avrebbe fatto i suoi stessi errori.
Emma avrebbe lottato perché era una cacciatrice nata.
Emma non sarebbe scappata perché era coraggiosa.
Emma sarebbe rimasta perché non era Lena.

Fece finta di non accorgersene quando nel pieno della notte si alzò dal letto e sgattaiolò fuori. Fece finta di non sapere che stava andando da Jules.

La mattina seguente quando Lena aprì gli occhi, Emma non c'era. Ancora sotto le coperte, stiracchiò i muscoli come un gatto, poi si alzò dal suo letto e si avvicinò a quello rassettato disordinatamente della ragazza. Lo disfece e lo rifece da capo.
Si trascinò fino al bagno e si fermò davanti al lavandino; poco più in alto una tipa con la sua stessa faccia la fissava assonnata. Ciocche sudate di capelli le si erano appiccicate al collo e le pesavano sulle spalle, Lena le spostò distrattamente. Riacquistò l'attenzione quando lo specchio le restituì il suo riflesso, alzò una mano e sfiorò in punta di dita la pelle imbrattata di inchiostro dietro l'orecchio.
Era successo quattro mesi prima, Emma era tornata dalla ronda insieme a Julian con in testa un'idea bislacca. Voglio un tatuaggio, aveva detto. Lena lì per lì le aveva riso in faccia. Era a dir poco ridicolo infatti desiderare un altro segno sulla pelle, erano Shadowhunters e di segni che sarebbero rimasti per sempre ne avevano fin troppi. A cosa le serviva un altro che, a differenza degli altri, era anche inutile?
No, non glielo avrebbe lasciato fare.
A dimostrazione del fatto che avrebbe dato ad Emma anche la luna, se solo gliel'avesse chiesta, non solo il giorno dopo le permise di incidersi sulla pelle quello scarabocchio mondano che voleva, ma si lasciò convincere perfino ad accompagnarla. Non vorrai mica lasciarmi da sola? Non l'aveva lasciata da sola. Per solidarietà aveva imbrattato anche un po' della sua pelle.
Era una piccola rosa, al lato del collo, proprio dietro l'orecchio destro; aveva petali che sembravano morbidi solo a guardarli ed un bel gambo su cui spuntavano delle spine. Era rossa.
L'aveva scelta perché era il suo fiore preferito, perché le piaceva, perché trovava che...
Sei una pessima bugiarda, Lena.



Got a tattoo and the pain's alright
just wanted a way of weeping you inside



Era il 15 Febbraio, era il suo compleanno. Ne aveva già passati due da quando se n'era andata, due senza ricevere una rosa rossa. Per il terzo se l'era regalata da sola, incisa sulla pelle per non passare un altro compleanno senza.
Sospirò appannando un po' il vetro dello specchio. Fece una smorfia al suo stesso riflesso mentre cercava di tirare su i capelli così che non le dessero fastidio; si rese conto ben presto che era un'impresa a dir poco impossibile. Faceva troppo caldo ed erano troppo lunghi per non dare fastidio. Le passo per la testa un'idea per nulla da lei, per questo decise di metterla in atto.
In un'insolita determinazione mattutina cercò, per tutta la stanza e senza troppo successo, un paio di forbici, quindi tornò davanti allo specchio impugnando uno dei coltelli da lancio che le aveva regalato Emma. Tra poco avrebbero smesso di dare fastidio.

Era rimasta a guardarli sulla porta della sala d'addestramento. Emma e Julian erano intenti in un combattimento corpo a corpo che poteva essere riassunto come: "Emma attacca, Julian si difende". L'ammaliava guardare quella furia bionda, era energia allo stato puro, velocità, potenza, un uragano in miniatura. Julian non spiccava altrettanto nei combattimenti a distanza ravvicinata, in compenso era un bravo arciere, un fine stratega. Nella sua mano stava meglio un pennello che una spada ed andava bene così, Jules era un artista. 
- Hai della pittura tra i capelli - Il ragazzo si voltò verso di lei a quella osservazione, notando solo in quel momento la sua presenza. Si fermò, accigliato, la testa inclinata verso sinistra come tutte le volte che osservava con attenzione qualcosa.
- E tu non ce li hai più, i capelli... - Emma approfittò della sua distrazione per metterlo al tappeto. Piccola bastarda. Poi si voltò per vedere cosa aveva attirato l'attenzione del suo parabatai. Le si avvicinò curiosa, alzò una mano e la fece scorrere per tutta la lunghezza delle sue ciocche, dalla nuca fino alla fine del collo. C'erano ancora, erano solo più corti, e Lena sospettava che avrebbero continuato a dare fastidio.
- Stai bene - decretò alla fine. Si sorrisero a vicenda.
- Ora che sei arrivata anche tu ci divertiamo -.

Il divertimento per Emma consisteva nell'inventarsi finti attacchi di demoni a cui lei e Jules dovevano far fronte, inutile dire che Lena finiva sempre col recitare la parte della cattiva.
Quando combattevano insieme si completavano. Julian diventava più intraprendente, Emma dimostrava una maggiore temperanza, anche se a volte tendeva ancora a fare tutto lei. Voleva parare tutti i colpi, proteggerlo da tutto.
Parabatai.
Allenarsi con loro per Lena era un po' come riavvolgere il nastro del tempo. Li guardava battersi fianco a fianco, guardarsi le spalle, proteggersi a vicenda secondo quell'istinto naturale che veniva da dentro. Era una dolce tortura alla quale non poteva rinunciare. Rubava con gli occhi quei momenti a loro che li vivevano ed incoscienti non si rendevano conto di quanto fossero preziosi, rari. Di quanto facilmente avrebbero potuto perderli. Perdersi. 
Lena viveva di ricordi ed aveva paura che sbiadissero, rubava quelli degli altri per non consumare i propri.

Finita una sessione Julian era sempre il primo ad andarsene, correva a fare una doccia perché non sopportava il sudore addosso. Emma e Lena rimanevano sempre qualche minuto da sole prima di andare ed ogni volta, in muto accordo, si sedevano a terra e si prendevano cura dei coltelli. Le loro erano decisamente le lame più affilate di tutto il Mondo Invisibile.
- Quando la smetterai di lasciarci vincere? - sbuffò la bionda, le gambe incrociate ed un broncio da bambina.
- Quando vuoi la smetterete di farmi fare la parte del demone - ribatté Lena. Sorrisero, sincronizzate.
- Dovresti essere un po' meno apprensiva nei confronti di Julian quando combattete insieme. Non puoi parare tu tutti i colpi, lascia che ogni tanto sia lui a difendere te. È importante, Emma - La ragazza non alzò nemmeno gli occhi dalla lama, non era la prima volta che glielo diceva.
- Mi viene naturale - si difese come faceva ogni volta.
- Lo so - Silenzio. Suoni di metallo nell'aria. Emma si bloccò, riprese ad affilare i coltelli, si bloccò ancora. Lena era sicura che le stesse per chiedere qualcosa, ma poi tornò al suo lavoro. Si disse che fu per quello che quando la domanda arrivò la trovò completamente impreparata, ma la verità, e lo sapeva anche lei, era che non sarebbe mai stata pronta ad una domanda del genere. Non sarebbe mai stata pronta a sentire di nuovo quel nome quando aveva passato tre anni a non nominarlo neanche con la mente.
- Chi è Ben? - Era scappata, se n'era andata, aveva messo tra loro quanti più chilometri aveva potuto, aveva girato il mondo. Era tornata al punto di partenza.
- Chi... Chi te ne ha parlato? Chi te l'ha detto? - Aveva giurato che ci avrebbe messo una pietra sopra, provato a levare dalla testa ogni pensiero che lo riguardasse. Era rimasta vuota.
- Chiami il suo nome ogni notte - Aveva provato a cancellarlo. Se l'era tatuato sulla pelle.
- È il tuo parabatai? Perché non sei con lui? - Strinse nella mano la lama del coltello e questa affondò nella carne; l'impugnatura divenne viscida a causa del sangue. Si era illusa che quel dolore potesse essere abbastanza per non scivolare via, ma non lo sentì nemmeno.
Emma le si buttò addosso togliendole il coltello di mano. I lineamenti contratti ed il respiro corto, come se fosse stato suo il sangue che imbrattava il pavimento. Aveva accantonato completamente il discorso e si rigirava tra le dita le sue mani ferite. Lena rispose comunque.
- Era. Era il mio parabatai, ora non lo è più - Emma ansimò, sul suo viso si alternarono confusione, incredulità, rabbia persino. Quella rabbia che nasce perché vuoi troppo bene. Le scivolò di bocca una risata nervosa, parlò con una spontaneità disarmante.
- Questa è la più grande cazzata che io abbia mai sentito! - Lena avrebbe voluto urlarle contro che non capiva - Non si smette mai di essere parabatai -.

La sua giornata passò a rallentatore, la sequenza di fotogrammi all'interno di una pellicola. Guardò accadere le cose senza viverle, faceva tutto senza fare niente. Ritirata in un angolino della mente, accovacciata tra pensieri che turbinavano, immobile mentre tutto si muoveva. Era più semplice far finta che non stesse accadendo a lei, che i ricordi appartenessero ad un'altra persona e ad un'altra vita. Era più semplice far finta di non aver mai avuto un parabatai, o almeno così si costringeva a credere.
La verità era che Emma non poteva capire.
Per tutto il tempo non fece che ripetersi che era una fase, l'ennesima prova, se lo ripeté così tante volte che finì col non avere più dubbi al riguardo. Una fase. L'avrebbe superata e sarebbe tornata alla sua vita: a Los Angeles, con Emma e Julian. Sì, non doveva fare nient'altro, era semplice, così semplice... tremendamente semplice. Eppure un tempo, che ora sembrava lontano anni luce, aveva detto di non aver mai voluto che fosse semplice.



I know I took the path that you would never want for me
I know I let you down, didn’t I?
So many sleepless nights
Where you were waiting up on me
Well I’m just a slave into the night



Sospirò stanca e questa era forse l'azione che aveva compiuto con più vitalità in tutta la giornata. Dato che non poteva tenere occupata la testa, si impose di tenere occupate almeno le mani; così piegò la divisa che aveva indossato quel giorno, la piegò tre volte, ognuna peggio della precedente. Spalancò le ante dell'armadio e cominciò a tirare giù dalle stampelle un indumento alla volta, lo buttava sul letto e lo piegava fin quando non perdeva il conto delle volte. Impilò tutti gli abiti sul materasso, poi tornò davanti all'armadio. Ne mancava solo uno, l'aveva ignorato fin quanto c'erano stati altri vestiti davanti che potevano coprirlo, ma ora non c'era più niente dietro il quale potesse nasconderlo. Era una divisa da Shadowhunter, la pelle nera ormai logora sui gomiti e sulle ginocchia, la misura leggermente più piccola di come le portava ora.
Le mani corsero ai lembi della maglietta che indossava, li afferrarono e li sollevarono fino a sfilarla dalla testa, poi slacciarono i pantaloni, lasciò che scivolassero a terra e li scavalcò. Fece un passo e poi un altro, si ritrovò dentro l'armadio. Come aveva fatto con tutti gli altri abiti tirò giù anche quella divisa dalla sua stampella, quando la indossò la sentì aderire addosso come una seconda pelle. Tremendamente familiare.
Le dita accarezzavano il tessuto morbido e confortante: il colletto alto, i rinforzi sui gomiti e sulle ginocchia, la pelle elastica sulle spalle, il piccolo taschino all'altezza del petto... Lì si fermarono.
Qualcosa sporgeva oltre l'orlo, le sue dita vi indugiarono a lungo. Lena sapeva cos'era, l'aveva messa lì perché pensava che quella divisa non l'avrebbe indossata mai più.



Now remember when I told you that’s the last you’ll see of me
Remember when I broke you down to tears
I know I took the path that you would never want for me
I gave you hell through all the years



Lentamente la sfilò dal sul nascondiglio. I bordi, lì dove era stata piegata, erano consumati e segnati da piccoli strappetti. Una lettera. 
Quante volte l'aveva stretta tra le mani i primi tempi che se ne era andata? Quante volte ci aveva pianto sopra prima di addormentarsi? Poi l'aveva relegata nella tasca di quella divisa che non usava mai, infondo all'armadio per non doverla vedere ogni volta che lo apriva. L'aveva nascosta lì e aveva fatto finta di dimenticarsene, così come aveva fatto finta per altre mille cose.
La stese piano stirandola sulle ginocchia; in alto, attaccate al bordo, spiccavano parole più volte ricalcate. La grafia storta e pendente. 
Non leggere.
Una richiesta, che richiesta non era, a cui non era mai andata contro. Prima di allora...

"...perché, Lena, sei la compagna di sempre, l'unica amica che ho e che vorrei, sei la sorella oltre il sangue, sei la mia parabatai ed infinitamente di più. Di più di quanto riuscirei mai a scrivere o a dire, di più di quanto riuscirei mai a rendermi conto o a pensare. Sei di più e basta, un punto fermo nel mio mondo che non smette un attimo di girare. Io non smetto un attimo di girare, ma per quanto possa farlo, per quanto possa perdermi, vagare, allontanarmi, sono tornato, torno e tornerò sempre da te. Sempre..."

Forse non era Emma quella che non capiva, forse era stata lei, per tutto quel tempo a non capire.

Non si smette mai di essere parabatai.



So I bet my life on you



Smise di leggere, tutt'un tratto le parve assolutamente inutile. Si rese conto che c'erano molte altre cose che doveva fare, cose che avrebbe dovuto fare molto tempo prima. Uscì dall'armadio con la vecchia uniforme addosso e cercò per tutta la stanza un foglio ed una penna.
In cima alla lista di quelle cose c'era: "scrivere".



* * *

Julian non sopportava la sensazione del sudore quando ti si asciuga addosso. Era inutile il sudore, qualcosa di veramente inutile. Nella sua personale classificazione del mondo ciò che non aveva colore e non poteva essere disegnato era inutile ed il sudore quasi non aveva colore.
Julian vedeva colori ovunque.
No, non come tutti. Se per chiunque una bottiglia era verde, per lui poteva benissimo essere viola. Il fatto era che non si fermava all'apparenza delle cose, scavava a fondo, non si accontentava dello strato più esterno, vedeva senza usare gli occhi. Lo faceva anche con le persone ed era inquietante, tutti quelli che conosceva avevano un colore e a volte più di uno. L'unica che rimaneva una tela bianca era Emma.
Un controsenso a pensarci bene, dato che la conosceva come le sue tasche avrebbe dovuto trovarle tavolozze e tavolozze di colori diversi... Ma no, Emma non aveva un colore, Emma non poteva avere un colore e neanche più di uno, non c'era sfumatura che poteva darle giustizia.
Per Emma non bastavano i colori.
Ed era per questo che nella camera di Julian, vicino la finestra ed in mezzo a tutte le altre tele, ce n'era sempre una diversa dalle altre.
Sempre la stessa, sempre bianca.

Emma non aveva mai bussato prima di entrare nella stanza di Jules. Non lo fece neanche quella volta e quando mise piede nella sua camera lo trovò di spalle, a fare ciò che faceva sempre quando aveva un po' di tempo libero. Seduto sull'immancabile sgabello, fissava quella tela bianca con un'intensità disarmante ed Emma non avrebbe saputo dire se l'amasse o l'odiasse, se un giorno l'avesse colorata o se sarebbe rimasta così: bianca e vuota.
Forse per Julian era già piena.

Gli si avvicinò da dietro e sollevò una mano per poggiarla sulla sua spalla ed attirare così la sua attenzione, ma questo si voltò prima, negli occhi i colori che mancavano sulla tela. Il suo sguardo vagò sul viso di Emma, poi si spostò sulla mano che teneva stesa vicino al fianco ed a ciò che stringeva nel pugno.
Un foglio?
- Una lettera - disse la ragazza sollevando il pezzo di carta tra le sue dita. Gli occhi blu tradivano il bisogno di condividerne il contenuto con il suo parabatai.
- Da parte di Alena - Aspettò che Emma si sistemasse sulle sue gambe e la cinse con le braccia.
- La leggiamo? - chiese, dato che lei non accennava a volerla aprire. Era agitata anche se cercava di non darlo a vedere; ma Julian non vedeva, Julian sentiva.
- Sì, ma facciamolo insieme - gli rispose in un soffio, lui sorrise. Afferrò un lembo del foglio e lasciò a lei l'altro.
- Come sempre -. 


* * * 


Non aveva mai corso così in tutta la sua vita.
E dire che era una Shadowhunter, avrebbe dovuto essere allenata, avrebbe dovuto essere preparata. Solo che non c'era assolutamente nessun allenamento che avrebbe potuto prepararla a quello.
Non aveva mai corso così in tutta la sua vita.

E quando era arrivata dal Sommo Stregone di Los Angeles, che non era Magnus ma un portale sapeva farlo, per poco non le restava più un filo d'aria per far muovere le sue corde vocali. Alla fine cercando di non sputare un polmone, che le servivano ancora entrambi, era riuscita a fare la sua richiesta. Ed era stata esaudita, la sua richiesta.
Mai era stato più difficile concentrarsi per evocare nella propria mente un'immagine davanti al portale. Aveva in testa un turbinio di pensieri annodati ad emozioni e ricordi, una matassa talmente incasinata da risultare quasi impossibile da districare. Il risultato era stato che, mentre lo attraversava, il portale aveva fatto così tanta fatica a riconoscere la destinazione che l'aveva catapultata praticamente dall'altra parte di San Francisco. Poco importava: aveva attraversato la città a piedi, era arrivata all'Istituto, aveva spalancato la porta come una furia, aveva urlato — con quale fiato non lo sapeva. Era tornata a casa.
Si era illusa che l'Istituto di Los Angeles fosse il luogo per lei, ma ora che era di nuovo lì, come mai avrebbe immaginato, si rendeva conto di quanto fossero sciocche le sue presunzioni. Non c'era un solo posto nel mondo, e lei lo aveva girato quasi tutto, che fosse come San Francisco. Aveva passato così tanto tempo a raccontarsi bugie, quando c'era un'unica sola verità. Lei era lì per un'unica sola verità.




I’ve been around the world and never in my wildest dreams
Would I come running home to you
I’ve told a million lies
But now I tell a single truth
There’s you in everything I do




In quei tre anni in cui credeva di star cercando di dimenticarlo la verità era che gli aveva dedicato ogni gesto. Se ne rendeva conto solo ora in effetti: ogni cosa era per lui, in ogni singola cosa che aveva fatto c'era un po' di lui.



- Non ho capito bene - disse cinerea, Eleanor ripeté addolorata ciò che cercava di dirle da quando era entrata come un uragano nell'Istituto.
- Benjamin non c'è. Non è più qui con noi - Lena scattò in avanti, azzerando la distanza tra di loro ed urlandole senza controllo in faccia.
- Come sarebbe? Che vuol dire che non è più qui con voi? Rispondimi! Che vuoi dire? - La donna investita dalla sua furia le posò una mano sul petto cercando di fermarla.
- Voglio dire che lui non è qui, non è all'Istituto né a San Francisco - La vide appoggiarsi al muro, incapace di reggersi in piedi. L'espressione sconvolta, esausta, sollevata infondo. Per un attimo aveva pensato...
- Okay... Va bene, okay. Dove... Ora. Dov'è andato? Dov'è ora? - Articolare un'intera frase di senso compiuto, nel tremendo stato confusionale in cui si trovava, sembrava impossibile.
- Non lo so, è terribile: io e Nicholas non abbiamo sue notizie da un paio di anni ormai... Oh, Lena, fatti abbracciare! Non sai quanto mi dispiace! Non sai quanto sono in pena per lui e quanto lo sono stata per te, in un colpo solo ho perso due figli! - Due anni... E non avevano la più pallida idea di dove fosse...
- Non è possibile... - Sentì mancarle il terreno sotto ai piedi.
- Per l'Angelo! -  Eleanor corse a sorreggerla prima che potesse cadere a terra.
- No, non è possibile... - No...
- Oh, Lena, ti prego... - Non le interessava minimamente per cosa la stesse pregando, la interruppe prima. Una determinazione così disperata nella voce che nessuno avrebbe mai potuto dubitare delle sue parole.
- Io lo trovo. Mi hai sentito, Eleanor? Io lo trovo Ben, ti giuro che lo trovo - Le prese il viso tra le mani mentre lo diceva e quella non poté fare a meno di notare che fosse incredibilmente più donna di come l'aveva lasciata. Era cresciuta, poteva leggerglielo in faccia, nel tocco delle sue mani, nella sua voce... Quando avrebbe voluto rivedere suo figlio, chissà se anche lui era finalmente diventato un uomo...
La lasciò di botto, infervorata, fuori controllo, ma pur sempre determinata.
- Lo trovo. Dammi un mano, sbrigati! Un cartina, un planisfero, un mappamondo... deve esserci un cazzo di mappamondo in questo Istituto! - imprecò tra i denti. 
- Sì... Nella biblioteca, credo - Non se lo fece ripetere due volte e corse verso le scale. 
Quasi la buttò giù la porta della biblioteca quando la aprì ed entrò dentro. Lo sguardo corse veloce ad ogni angolo della sala e si fermò smanioso su un antico mappamondo di legno; da come lo puntò Eleanor avrebbe detto che avrebbe distrutto anche quello ed in effetti non si sbagliò di molto. Lo raggiunse in fretta e lo agguantò con una prepotenza — che mai le era appartenuta — da far spezzare i vecchi e fragili assi di legno che lo tenevano dritto.
Si rigirava fra le mani la palla di legno su cui era dipinto tutto il mondo, la guardava e la riguardava come se lei stessa avesse potuto darle una risposta da un momento all'altro. Ci passò dieci minuti buoni, finché non la fermò tra le sue dita; aveva le mani ai lati opposti della sfera, in modo da farla rimanere in equilibrio. Eleanor non osò chiederle a cosa stesse pensando.
Dove sei, Ben? Dove sei?
Lentamente, in un movimento così diverso da quelli con cui l'aveva maneggiata finora, spostò la sfera tra le sue mani. Un dito cercò San Francisco, il palmo ci si posò sopra; l'altra mano si spostò automaticamente dall'altra parte del mappamondo. Il punto opposto della terra.
Oceano Indiano, il punto opposto della terra.
C'era qualcosa di fastidiosamente errato in quell'affermazione, Lena lo sentiva, lo ricordava... Solo che le sue mani ce le aveva davanti agli occhi, inconfondibili, perfettamente ai punti opposti del mappamondo. No, non due punti, due poli... Sì, ai poli opposti della terra... Ci spediranno ai poli opposti della terra... Era un ricordo sfocato. Inclinò la testa di lato, respirò rumorosamente.

...Stai delirando, non ti rendi nemmeno conto di quello che stai dicendo, Lena... Pensi di essere pronta a dire la verità?... Ho già detto che ci divideranno? Ci spediranno ai poli opposti della terra...

Stette ancora ferma un momento e poi la sua mano si mosse da sola, risalì piano la curva della sfera tra le sue dita e si fermò in un punto. Non era esattamente il polo opposto della terra rispetto a San Francisco, era dalla parte opposta sì, ma alla stessa altezza.
Dopotutto Ben non era mai stato un asso in geografia.

... una a San Francisco ed uno... In Tibet. Mi spediranno nel fottuto Tibet e mi lanceranno dall'Everest...



Il fottuto Tibet.
  
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