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Autore: Daleko    16/09/2015    4 recensioni
"Sono patetico? Non lo so, non riesco a peccare di superbia e mi rendo conto di scimmiottare, anche in modo piuttosto lezioso, grandi del passato che posso realmente incontrare solo nel mondo orinico quando la fantasia me lo permette."
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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- Questa storia fa parte della serie 'Diari'
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"Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia."
G. Leopardi


Sabato, diciassette e quaranta; sono già in strada con le viscere attanagliate dall'ansia. Fortunatamente la temperatura comincia ad essere più mite dei giorni scorsi, perché la camicia comincia a mostrare segni di sudore; ho impiegato ore per sistemare il mio aspetto per renderlo il più piacevole possibile e sto per rovinare tutto.
Per l'occasione ho scelto una semplice camicia di tela bianca in doppio ritorto e polso dritto con finta, bottoni spessorati con filo a croce, taschino smussato, collo italiano e, ovviamente, le maniche arrotolate di due giri immediatamente sotto il gomito; è la punta di diamante del mio abbigliamento serale, pronta a valorizzare il blue jeans sbiadito e i mocassini Ivy League di un delicato beige. Senza rendermene conto mi tormento le mani, scruto il cielo con preoccupazione, sospiro in ansia: cammino con la dovuta flemma verso la casa che ho già rivisto più volte durante le mie notti tormentate e, stringendo con la mancina una bottiglia di Brunello di Montalcino di vent'anni fa, entro nel giardino e suono al campanello di Marie alle diciotto in punto, come ovviamente segnalato dal mio Cartier. Mi guardo indietro, ridiscendo mentalmente i tre scalini del patio; ho dimenticato la pipa, ma poco importa.
"Marie, va' alla porta!"
Clack. Il delicato suono della serratura che scatta verso l'interno precede il topino dai capelli castani che, prontamente, infila il viso nella fessura creatasi dall'apertura della porta. Efelidi delicate adornano quel naso delicato che si arriccia verso l'alto, accompagnando il sorriso che si è schiuso sulle sue labbra. Si fa da parte, invitandomi ad entrare senza dire una parola. Dall'esterno riesco a vedere un lungo pavimento in legno rossastro decisamente elegante, accompagnato da muri bianchi e immacolati. Mentre mi soffermo sui particolari scorgo un movimento alla destra della mia visuale: è Véronique che, uscendo da quella che sembra essere la cucina, viene verso di me. "Federico, ciao! Che puntualità!" "Mi spiace, forse mi attendavate più tardi" cerco di scusarmi stringendo con mano ferma quella che mi viene tesa. Noto che anche lei indossa un vestito, seppur molto più adulto di quelli abituali di Marie; evidentemente è un vezzo di famiglia. "Assolutamente, vuoi accomodarti in sala da pranzo? Mio marito è nello studio. Marie, vuoi andare a chiamarlo? Digli che sarà pronto a momenti" avvisa la bambina mentre io, riscuotendomi dai pensieri che mi affollano la mente, ricordo di avere qualcosa per la donna. "Véronique, questo è per lei: è un Brunello di Montalcino del novantacinque" le porgo la bottiglia mentre lei si copre le labbra con una mano, intenzionata a ridere con garbo. "Non dovevi, sei stato gentilissimo! Aspetta, la mettiamo nel ghiaccio... Ah, e dammi del tu!" continua a parlare mentre torna in cucina con la bottiglia tra le mani. Non la seguo, limitandomi a spostarmi verso l'entrata della cucina. "Non sono ancora così vecchia" continua con la sua lieve risata muliebre. La osservo con vaga noia mentre si china per prendere un secchio per il ghiaccio: il vestito azzurro e bianco le fascia il corpo con grazia, mettendo in risalto le sue forme femminili; torno con la mente alla figura del padre di Marie, chiedendomi come un uomo così poco attraente possa sposare una donna oggettivamente avvenente come Véronique. Dopo essermi voltato ed essermi ritrovato a guardare all'interno della sala da pranzo ho trovato la risposta da solo: le porte aperte mi lasciano scorgere all'interno della stanza e già dall'esterno si evince la ricchezza della stessa. Compio qualche passo in avanti, ritrovandomi a passeggiare lentamente su un grande tappeto Bakhtiar, un tappeto persiano di ottima fattura e dal rosso vivido che richiama alla mente il lusso che immaginavo già da qualche minuto. Intorno a me tutto è pregiato: un lampadario di cristallo sovrasta la grande stanza a metà fra l'antico e il tecnologico; sul fondo ci sono due divani in stile classico con cucitura capitonné e rivestiti in pelle e velluto, di fronte ad un televisore non più piccolo di ottanta pollici. Alzo le sopracciglia, sinceramente stupito; le tende che ricoprono le finestre sono pesanti, arricciate e dorate in modo che richiamino le decorazioni sui muri: ghirigori classici d'oro e sull'oro, illuminati da giochi di luci con la complicità del lampadario.
"Ciao" sento una vocina flebile chiamarmi; mi volto e, non vedendo nessuno, abbasso lo sguardo. Un bambino intorno ai quattro anni mi guarda con occhi neri spalancati, il pollice rugoso stretto fra le labbra e i capelli ben pettinati; non faccio caso all'abbigliamento perché, al mio minimo accenno di sorriso, scappa via. Torno a vagare con lo sguardo sulla stanza, notando un particolare che mi era sfuggito: sul tavolo mancano solo le pietanze, ché è già tutto al suo posto. Non riesco a trattenere un lieve schiudersi delle labbra: il tavolo, rigorosamente in mogano così come le sedie, è già coperto da una tovaglia bianca ricamata e completa d'ogni cosa, stoviglie e tovaglioli di stoffa, facendomi sentire quasi a disagio: sul muro di fronte, pronto a fornir calore d'inverno c'è un imponente camino, mentre sul lato vuoto della stanza -non essendo il tavolo centrato- c'è un pianoforte a coda di cui, dalla mia posizione, non riesco a scorgere la marca. Distolgo lo sguardo, quasi imbarazzato da questo posto trasudante lusso, quando sento qualcuno alle mie spalle chiamare il mio nome.
"Federico, ciao! L'altra volta non mi sono presentato, mi chiamo Achille" anche lui mi tende di nuovo la mano. L'afferro con un sorriso di circostanza, accompagnato da un "piacere mio" altrettanto di circostanza. Dietro di lui scorgo Marie che mi lancia qualche occhiata alquanto timida: l'angoscia torna ad afferrarmi le viscere e vengo scosso da un brivido; distolgo lo sguardo per riportarlo sul tavolo, lontano dagli occhi di Marie. "Ti senti bene? Vuoi un'aspirina?" "La ringrazio ma è stato solo un breve malessere passeggero. Ha una casa molto raffinata, ho notato il pianoforte, lei suona?" tento di cambiare radicalmente argomento senza osservare l'uomo; non ho il coraggio di voltarmi né so se riuscirei a dissimulare il terrore che sto soffocando con forza. "Riferirò i complimenti al mio arredatore!" scherza con una risata troppo forte per i miei gusti. Sento le scarpette di Marie allontanarsi correndo; mi volto e l'uomo è solo, con i suoi orridi baffi e, improvvisamente, con un sigaro stretto fra i denti. Mi poggia una mano pesante sulla spalla, piantandomi al suolo con il suo braccio. Rimpicciolisco istantaneamente. "Il pianoforte? Oh, è uno Steinway C-227" riferisce quasi tediato dall'argomento; quasi svengo alla notizia di quale strumento prezioso sia a pochi passi da me. "Te ne intendi, Federico?" "Assolutamente no" "Vuoi un sigaro? È un Louixs" mi informa con tranquillità mentre continua a sorridere. Deglutisco a fatica, quasi strabuzzando gli occhi: ho cercato di colpirli positivamente con un vino costoso e invece mi rendo conto che la mia camicia sartoriale vale meno dei loro tovaglioli. "No, la ringrazio, non fumo" rispondo candidamente mentre il peso sulla mia spalla diventa più pesante. "No? Marie mi ha detto che fumi la pipa. Non è così?" ribatte con tono lievemente più basso; io vorrei rispondere, ma la voce sembra mancarmi. Comincio a sudare copiosamente.

 
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