Fuori
era
buio, l’aria fredda, la notte cominciava il suo innaturale
corso. Le stelle non
si vedevano ancora e forse non si sarebbero mai viste, se un improvviso
vento
non fosse venuto a spazzar via le nuvole che si impadronivano del cielo
nero.
Dentro tutto era illuminato di una luce soffusa, chiara, che non
riempiva di
gioia come quella pura e unica del sole, ma andava bene ugualmente.
La
casa
era popolata, gli uomini e le donne che l’abitavano
chiacchieravano
spensierati, ora felici ora tristi, inconsci di quello che stava per
accadere.
Tutti erano felici, stavano giocando a carte
e ascoltando distrattamente la radio, tutti tranne uno:
Michael. Lui era
in camera sua, ora sdraiato per terra, ora alla sua scrivania a
scarabocchiare
qualcosa, ma era chiaramente turbato da qualcosa di profondo.
Michael
normalmente era un ragazzino allegro, spensierato, socievole e un
ottimo
giocatore di poker. Fu questo che insospettì la madre, visto
che quella sera il
figlio non si sarebbe unito loro e, a pensarci bene, neanche in quella
seguente. Quando sua madre entrò in camera Michael stava
camminando in circolo
per il perimetro della sua stanza, uno spazio in cui si trovava bene,
si
sentiva “a casa”. La camera era molto semplice, non
molto grande ed era
tappezzata di poster e disegni che Michael aveva collezionato nel corso
della
sua breve vita. La mobilia era di color arancione, a dir la
verità quasi un
giallino, mentre la scrivania ed i suoi accessori, come anche il letto,
erano
di un color ciliegio molto opaco.
Lei
chiese
subito al figlio: "Ehy, Mike. Vieni di là, che ci stiamo
divertendo a
carte. Il nonno sta battendo tutti e ride come se fosse un giovanotto.
Ma non
sa che quando arriverai tu non avrà scampo. Dai, Mike! Mike?
Mi stai
ascoltando?"
"Scusa
mamma ero distratto. Comunque non voglio divertirmi stasera, vorrei
poter stare
un po’ da solo se non Vi dispiace. Domani ho, come ben sai,
un impegno
importantissimo, ma che ho paura di affrontare. Mi tremano le gambe
anche solo
a pensarci." rispose lui, sedendosi sul letto di fianco alla madre. Lei
lo canzonò dicendo: "Non vorrai farmi credere che ti
preoccupa così
tanto quello sciocco impegno, vero? Dai, piccolo
mio lo sai che puoi farcela."
"Non
è per me che sono preoccupato, ma per i miei amici. Mi sento
che sbaglierò
qualcosa e loro ne risentiranno. Per colpa mia."
esclamò, ed iniziò a piangere. Poi
scese in
sala da pranzo, un’altra stanza di media grandezza, ma
stavolta la mobilia era
di un verdino chiaro. Cambiò più volte stanza, ma
non servì a calmarlo. Niente
sembrava riuscire a calmarlo. Così decise di andare a
prendere un po’ d’aria e
si infilò il suo giubbotto di pelle e un cappellino a
strisce verdi e blu.
Nell’uscire
dalla casa sbatté accidentalmente l’uscio di casa
e questo provocò l’ira del
padre, un uomo alto, grosso e con i capelli e la barba bianchi, uno con
cui non
molti volevano averci a che fare. Lo sentì alzarsi dal
tavolo e corse verso
l’altro lato della strada, per nascondersi
dall’eventuale ricerca del genitore,
ma mentre stava per abbassarsi qualcosa andò storto,
decisamente storto.
Qualcosa o qualcuno lo strattonò verso il basso con forza e
lo trascinò nel
buio della notte. La mano del rapitore era grossa, piena di peli ispidi
e la
pelle era ruvida. Ma la cosa che lo sorprese di più fu che
con una sola mano
l’uomo lo tenne alzato e senza neanche faticare.
Così si allontanarono nel
boschetto che si trovava lì vicino.
I
suoi
familiari, non vedendolo tornare, si misero a chiamarlo, lo cercarono,
piansero
per lui ogni notte ed ogni dì sempre di più. Ma
invano. Michael era scomparso,
non sarebbe più tornato. Mai più.