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Autore: Hamartia    19/09/2015    1 recensioni
«Desidero che la Luna e le Stelle mi guidino nella notte
Fedeli compagne nell'oscurità durante la strada per i Campi dei Giunchi
Non mi abbandoneranno a vagare eternamente nel buio
La morte che sopraggiunge è vita e rinascita
Lo Sciacallo mi condurrà nella Sala delle Due Verità
Se dalla Divoratrice il mio cuore sarà annientato
La sentenza di Osiride e della giusta Maat accetterò
Se sarò giudicata una Giusta di Voce correrò su prati infiniti col sommo Geb,
Le mie ali dispiegherò con la grande Nut,
E riemergerò giovane e vittoriosa dalle nere acque di Apopis
Non inferiore, ma uguale le Stelle tra loro mi accoglieranno,
La mia luce accompagnerà le altre anime per l'eternità»
Genere: Avventura, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo IV - I Let The Water Take Me
 
«'Cause they took your loved ones
But returned them in exchange for you
But would you have it any other way?
You could have had it any other way
'Cause she's a crueller mistress
And the bargain must be made
But oh, my love, don't forget me
But I let the water take me»
 
[What The Water Gave Me - Florence + The Machine]
 
Mi fermo. Jeremy mi guarda con un'espressione indecifrabile.
«Se vuoi chiedermi qualcosa puoi farlo, non mangio nessuno.. senza alcun motivo almeno..» gli dissi, quasi scherzando.
«Non volevo interrompere il tuo racconto» mi sorride «Mi stavo solo chiedendo perché non pronunciassi mai il suo nome, poi mi sono ricordato che, per le leggi dell'Antico Egitto e non solo, credo, è meglio non farlo..»
«Pronunciare un nome, così importante come quello di un Dio oltretutto, non è assolutamente un fatto da prendere alla leggera. A meno che tu non voglia richiamare qualche spirito dall'oltretomba..»
«Non è mia intenzione, decisamente. Immagino che sia piuttosto doloroso ricordare quel periodo, non sei obbligata a continuare se non ti va..» questi suoi modi apprensivi, come se capisse cosa ho passato, non li sopporto. Non sa proprio un nulla di me.
«Ho più di quattro millenni alle spalle, credi che non abbia già fatto i conti col passato ormai? Forse sei tu quello che non ha più voglia di ascoltare» gli rispondo imperturbabile.
«Certo che ho voglia di ascoltare, non capita tutti i giorni di avere un libro di storia vivente davanti» ride.
Non gli rispondo, mi limito ad osservarlo in attesa che mi dica di procedere. Non ho intenzione di dargli alcun tipo di soddisfazione. Si sta dimenticando chi è il suo interlocutore o non gliene importa proprio?
«Ok»- si alza sbuffando, -«meglio se prendo qualcosa da bere. Tu puoi continuare la storia.»
 
Tsk. Uomini.
Da sempre attirammo la loro attenzione, tutti lodavano la nostra bellezza e le nostre capacità. Lo stesso Faraone propose spesso al grande sacerdote di donargli in sposa, se non entrambe, almeno una di noi. Ma le regole erano chiare: dovevamo restare pure, niente matrimonio e niente figli. La possibilità di vivere una vita normale si allontanò ancor di più e ne soffrimmo terribilmente. Imparammo ad ignorare quel lato della vita facendoci coraggio a vicenda. Se per me, che ero abituata a soffrire in silenzio, fu un'ardua impresa, ancor più difficile fu per mia sorella. Tutta la sua positività sparì, il suo sorriso si spense, mi sembrava quasi un morto vivente. E, per quanto la consolassi e le dicessi che potevamo vivere discretamente anche nella nostra solitudine, non riuscivo ad aiutarla.
E così passarono le stagioni e gli anni, fino al momento in cui vidi mia sorella cambiare nuovamente. Non tornò ad essere la ragazzina spensierata di un tempo ma era più serena e vivace. Alla sera sgattaiolava fuori dalla nostra stanza per andare a pregare gli dei, almeno così diceva, per tornare a dormire un paio di ore dopo. Pensai che avesse fato pace con se stessa e avesse finalmente deciso di abbracciare la vita che ci era stata data. Ma poi cominciai a notare certi lividi, sui polsi, sul collo, che cercava di nascondere. Quando chiedevo spiegazioni mi sorrideva e mi diceva di non preoccuparmi, che probabilmente erano le punture di qualche insetto. E io le credetti. A quel punto potevo ancora evitare il peggio ma fui sciocca e cieca e continuai a fidarmi.
Una notte fui svegliata da dei singhiozzi e la trovai seduta sul suo letto a piangere, ero terribilmente confusa e preoccupata, l'abbracciai e le chiesi di dirmi la verità. Mi raccontò tutto. Quando, di notte, usciva dalla nostra camera, in realtà andava a palazzo, invitata in segreto dal Faraone stesso. Non pregavano gli dei, questo è ovvio. Snefru la ammaliò con dolci bugie per farla sua; lei credette di amarlo solo perché le dava attenzione e la soddisfaceva. Il guaio era compiuto. Lei portava in grembo un esserino innocente che, ancor prima di nascere, avrebbe creato solo problemi a tutti noi.
Lei fu molto felice di aspettare un figlio ma era preoccupata di cosa sarebbe capitato al bambino una volta nato. Fui delusa dal suo comportamento ma non potei odiarla, era tutto ciò che avevo di più caro al mondo. Le consigliai di scappare quella notte stessa, in quel preciso istante, di andare oltre i confini del regno, in cui non era conosciuta. Poteva farlo. Poteva raccogliere tutte le provviste che le servivano, prendere un cammello e sparire nel deserto. Non lo fece. Non volle darmi ascolto. Credette che portare in grembo un bambino che avrebbe avuto per padre il Faraone, Dio in terra, e, per madre, una Dea reincarnata, l'avrebbe protetta alla fine. Ma non fu così.
I mesi passarono, il suo ventre si gonfiò. Continuai a ripeterle con insistenza di fuggire ma si rifiutò tutte le volte. Il tempo passava e la mia paura aumentava. Quando lo confessò a Snefru in uno dei loro incontri segreti, lui ebbe timore degli dei per aver deflorato una dea, una sacerdotessa destinata a restare pura e non volle più vederla. Il mondo le crollò addosso. L'unica speranza rimasta erano i nostri maestri, i sacerdoti. Venne il momento del parto. Ancora una volta il buio della notte ci accompagnava. La aiutai a far nascere il bambino. Ma quel punto i sacerdoti furono svegliati dalle urla di lei e dal pianto del neonato. Cercai di convincerli che era un miracolo che una vergine figlia degli dei potesse partorire un figlio, un altro segno della benevolenza divina. Che ci credettero o no strapparono il bimbo dalle nostre braccia.
Per giorni aspettammo la decisione dei nostri maestri e nel frattempo aiutai mia sorella a riprendersi. Finalmente i sacerdoti vennero e dissero che il bambino veniva affidato al Faraone, dato che ne aveva riconosciuto la paternità, cosa da non credere, e lei venne imprigionata in attesa di una condanna. Le guardie la portarono via. Implorai in ginocchio i sacerdoti di non farle del male, che avrebbero fatto infuriare gli dei, avrebbero scatenato la loro ira sul popolo dell'Egitto. Non mi ascoltarono. Come biasimarli, non credevo neanche io alle mie stesse parole anzi, l'ira degli dei si era già abbattuta su di noi e mia sorella ne pagava le conseguenze.
Non oppose resistenza quando la portarono nelle prigioni. Si era spenta nuovamente e definitivamente. E io mi sentivo perduta senza di lei.
Nei giorni successivi mi fu concesso di andare a trovarla nelle prigioni dove, impassibile, attendeva la fine della sua vita. Una sera le dissi che avrei provato a farla scappare quella notte, non potevo sopportare di vederla morire, lei che era la mia roccia, che aveva sempre il coraggio di fare e di dire quello che avrei voluto fare e dire io, per essere libera da questa che gli altri chiamavano vita e noi chiamavamo prigionia. -«Non voglio più vivere.» mi disse, «So che non capisci. Sei mia sorella, la migliore sorella che chiunque possa avere e ti amo per questo. So che sei forte e che riuscirai a vivere senza di me ma io non posso continuare a sopportare questa vita che non è mai stata mia e, soprattutto, non posso vivere senza rivedere mai più il mio piccolo, perché so che sarà così. Promettimi solo questo: fai in modo che mio figlio sopravviva a tutto questo e, appena ne avrai la possibilità, va via da questo posto, fa che non ti trovino e vivi una vita che valga la pena di essere vissuta. Fallo per me.»
Detto questo, mi afferrò le mani e, guardandomi negli occhi, recitò:
«La mia vita sarà la tua vita
Non temere la morte, tu risorgerai
Nel buio eterna luce avrai
La mia vita sarà la tua vita»
Dalle sue dita fuoriuscì una sostanza vaporosa che, attirata come da una calamita, passò nelle mie che l'assorbirono ma non sentii alcuna differenza. Tornai a guardarla negli occhi, ma era troppo tardi: potei vedere la vita che scivolava via una volta per tutte, lasciando il vuoto dentro quegli occhi così neri e profondi. Cadde a terra, morta, e urlai il suo nome come non avevo mai fatto prima. Non si mosse. Capii solo più tardi cos'era successo.
Le guardie, attirate dalle mie urla disperate, entrarono e pensarono che l'avessi uccisa io con qualche strana magia per evitarle le sofferenze della sorte a cui era stata condannata. E condannarono me al suo posto. I sacerdoti si opposero, non volevano far infuriare gli dei ulteriormente. Non potevano perdere entrambe le dee reincarnate. Fu tutto inutile.
Tre guardie insieme al grande sacerdote mi portarono sulla sponda del Nilo, mi legarono piedi e mani. In quel mometo capii: dovevo annegare nelle acque del sacro fiume. Non avrei sofferto molto, ne fui quasi sollevata. Questa mia piccola gioia però non durò a lungo. Il primo pugno arrivò dritto in faccia e mi ruppe il labbro. Seguirono una serie di calci allo stomaco che mi tolsero il fiato. Mi rannicchiai per terra. Il sacerdote cominciò a protestare, non capiva perché lo facessero, non erano quelle le normali procedure. -«Ordini del Faraone.» rispose secco uno degli uomini.
Chiusi gli occhi. Non volevo più vedere nessuno di loro. Cosa avevo mai fatto di male per meritare tutto questo? Dov'erano gli dei? Non dovevano forse proteggermi? Forse era quello il mio destino, morire da martire per una causa che non è mai esistita. D'improvviso mi afferrarono per i capelli e poi arrivò il dolore pungente, come di mille aghi conficcati in faccia. Sentii il solco lasciato da una lama affilata, che dal sopracciglio destro, percorreva il viso fino alla mandibola. Il calore del sangue a bagnarmi il volto. Non urlai. Non lottai per liberarmi. Li lasciai fare quello che volevano.
La tortura procedette, per pochi minuti oppure ore, non so dirlo con certezza. So solo che i miei occhi restarono chiusi per tutto il tempo. Non volevo più vedere quelle terre che tanto avevo amato, la sabbia gialla, quelle genti a cui mi ero dedicata, che avevo curato e protetto con tutta me stessa. Dopo avermi frustata, lacerata e scorticata in quanti più punti possibili, si stancarono della mia mancanza di reazioni. Mi legarono in sacco e mi gettarono nel Nilo. Le sue nere acque notturne, così gelide, furono un balsamo per il mio corpo martoriato, che bruciava come se fossi già morta e finita direttamente nelle fiamme infernali.
Aprii gli occhi. Non fece alcuna differenza, continuai a non vedere nulla da dentro il sacco. Mi sentii già libera e lontana da tutte quelle sofferenze. Così lasciai che l'acqua mi riempisse i polmoni, il naso e la bocca. Lasciai che mi bloccasse il respiro e, andando sempre più giù, verso il letto del fiume, morii.
   
 
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