Non
era semplice giungere a Valle, come non è mai stato facile
raggiungere località
montane; il lungo viaggio da affrontare, la scarsa stabilità
della strada piena
di curve e il clima gelido della zona aumentavano
l’isolamento del paesello
che, durante l’Inverno, manteneva col resto del mondo solo i
contatti
indispensabili per procurarsi il cibo. In Estate, però, gli
abitanti di Valle
vedevano passeggiare nella piazzetta gente “nuova”,
educata e ben vestita,
recatasi in quell’oasi perché attratta
dall’aria fresca e pulita. In effetti,
Valle sarebbe stata davvero un posto tranquillo e piacevole, se non
fosse stato
per quei boschi… per fortuna, tutti tacevano a riguardo.
Sì, i turisti si
sentivano ripetere fino allo sfinimento di evitare monte Janara a causa
delle
bestie feroci che lo popolavano, ma tutto finiva qui.
Finiva
qui perché il consiglio era sempre accolto.
L’ultimo
“incidente” aveva avuto luogo nel 1913. Oh, certo,
nessuno avrebbe mai
dimenticato la notte in cui Virginia Gaetani era scomparsa assieme ai
dodici
servitori della famiglia che, ingenui, erano andati a cercarla; tredici
morti,
nessun corpo ritrovato, il matrimonio rimandato, i Gaetani che avevano
minacciato di far finire la notizia su tutti i giornali. Ma quale
giornale
avrebbe mai pubblicato una notizia del genere, in un periodo come
quello? Alla
fine il caso era stato archiviato (per alcuni risolto: lo
“spirito del bosco”
se li era presi tutti, non c’era altro da dire o spiegare) ed
Emma Cardaniese
aveva sposato Elio nel 1914, dopo l’anno di lutto dovuto alla
memoria di
Virginia.
Leonardo
Gaetani era stato l’unico membro della famiglia a provare una
reale tristezza
per l’inspiegabile scomparsa della sorella; Quirino non aveva
trovato rilevante
l’accaduto ed Elio, come i genitori, era troppo furioso e
imbarazzato per poter
pensare al dispiacere; anzi, era giunto alla conclusione che senza
quella peste
si stesse meglio e si convinse che la sua morte fosse stata una
salvezza per
tutti.
***
Nel
1920, Angela Virginia Gaetani aveva cinque anni ed era identica a suo
padre:
solo il carattere pacato e l’innata delicatezza rivelavano
che fosse figlia
anche di Emma. A Emma, comunque, andava il merito di aver educato la
bambina,
una dama in miniatura buona, gentile e al contempo assolutamente
orgogliosa del
proprio casato. La piccola non aveva mai conosciuto le donne di cui
portava i
nomi, perché entrambe erano morte, ma la mamma le aveva
raccontato di come la
bisnonna Angela fosse stata forte e di quanto la zia Virginia fosse
bella.
Ritratti delle due non ne aveva visti, ma la bimba era troppo piccola
per
essere incuriosita da cose del genere; preferiva interessarsi a
fiorellini,
animali e cappellini. I morti erano morti e non facevano parte del suo
mondo,
pensava: dunque, la sua vita girava attorno ai nonni,
all’adorato cagnolino,
alla mamma e, soprattutto, al papà. Emma, innamorata, non
aveva mai pensato che
il marito fosse una brutta persona; dalla nascita di Angela, poi, era
arrivata
a convincersi d’aver sposato l’uomo migliore al
mondo. Chi aveva conosciuto davvero Elio
Gaetani, sapeva che non era
mai stato uno stinco di santo; tuttavia, gli stessi che avevano
conosciuto la
sua insensibilità e la sua arroganza, si erano visti
costretti a riconoscere in
lui un cambiamento innegabile, dovuto al matrimonio o, più
probabilmente, alla
paternità.
Elio
era oggettivamente un padre
perfetto.
Sapeva esser severo se necessario, ma solitamente trattava la figlia
con una
dolcezza tenerissima: Angela si addormentava tra le sue braccia,
appariva in
pubblico solo se accompagnata da lui e sentiva la necessità
urgente di baciarlo
ogni dieci minuti; dal canto suo, Elio l’amava a tal punto da
voler quasi
rinunciare a un figlio maschio: così Angela avrebbe avuto
sempre più
attenzioni, più amore… e tutta
l’eredità.
Ogni
desiderio – desiderio, non capriccio! – di Angela
andava esaudito, ogni suo
sogno realizzato.
Solo
l’aspetto di quella bambina aveva, in principio, turbato suo
padre: Angela era
identica a Virginia. Passasse il secondo nome, che Elio aveva accordato
solo
perché lo riteneva una specie di formale obbligo, ma la
somiglianza… ! Si era
cominciata a notare quando aveva tre anni e per gli altri non era stata
una
sorpresa: Virginia ed Elio erano stati come due gocce d’acqua
e i riccioli
castani di Angela, i suoi occhi grandi dalle lunghe ciglia…
ricordavano l’uno
come l’altra. Semplicemente, Angela era una bimba che
somigliava a suo padre.
Eppure
per Elio era tanto strano vedere quanto il suo piccolo amore
somigliasse alla
sciocca sorella… l’essere che più
amava, uguale a quello che più aveva odiato.
Non
potendo cambiare la realtà, Elio decise dunque che, se
Angela somigliava a
Virginia, Virginia doveva essere guardata con occhi diversi. Angela non
poteva
ricordare qualcosa di negativo. Somigliava a Virginia? Bene, allora
Virginia
era stata buona. Buona, dolce e bella. Lui forse non l’aveva
compresa, si era
sbagliato sul suo conto… ora non importava.
L’importante era convincersi che l’immagine
di Virginia, nella sua memoria, divenisse pulita e perfetta,
così Angela
avrebbe potuto somigliarle tranquillamente.
Nonostante
ciò, i ritratti di Virginia Gaetani rimasero a giacere in
cassetti chiusi,
lontani dagli occhi di tutti.
Come
molte bambine amate, Angela era molto sicura di sé e
piuttosto coraggiosa; non si
era mai allontanata da casa perché, come il padre,
apprezzava ogni agio;
tuttavia, il mondo non la spaventava, come non la spaventava il buio,
né i
mostri delle storie che a volte le raccontavano. Non condivideva
neanche la
paura di essere abbandonata, comune a molti bimbi: credeva ciecamente
ai suoi
genitori e sapeva con certezza che mai e poi mai l’avrebbero
lasciata sola.
Quando
Emma disse ad Elio che era necessario recarsi a Valle,
perché i suoi genitori
erano ormai anziani e non era saggio far loro affrontare un lungo
viaggio per
vedere la nipotina dato che Angela era ormai abbastanza grande per
spostarsi
senza fare troppi capricci, il ragazzo non fu contento. Valle non gli
era mai
piaciuta e, dalla scomparsa di Virginia, la riteneva ovviamente
pericolosa.
Solo quando gli fu assicurato che più nulla era accaduto,
che tutto ormai
sembrava “normale” e che, comunque, era sempre
stato sufficiente tenersi
lontani dal bosco durante la notte, Elio si decise.
***
Nel
grande e cupo castello che, invisibile a chi non fosse gradito,
troneggiava su
monte Janara, il conte e la contessa trascorrevano una vita tranquilla,
tra
libri, strumenti musicali e pennelli. Il fatto di non poter vedere il
giorno e
di non aver contatti con altri uomini non rappresentava per loro un
grande
problema, perché amavano la notte e la solitudine; ognuno
bastava all’altro e,
se proprio avessero voluto discorrere con una terza persona, avrebbero
potuto
contare su quel vecchio che avevano preso come maggiordomo. Nessuno lo
sapeva,
ma dopo quella di Virginia Gaetani c’era stata
un’altra sparizione; nessuno lo
sapeva, perché quel vecchio era giunto a Valle in silenzio
ed era salito sul
monte senza farsi vedere in paese.
Solo
una cosa intristiva la contessa: lei e suo marito non avevano e non
avrebbero
mai potuto aver figli… e lei, amante dei bambini, aveva
sempre sognato di esser
madre; non aveva parlato della sua sofferenza per non addolorare anche
il
marito, ma questi l’aveva notata e, deciso a vederla felice,
le aveva suggerito
un’idea ottima.
Non
aveva mai provato su nessun essere umano l’ipnosi e non era
sicura di riuscire
a chiamare qualche bambino vista la distanza che separava il castello
dal
paese; tuttavia i bimbi hanno delle menti “aperte”,
come amava definirle lei,
il che avrebbe dovuto rendere più semplice la comunicazione.
In ogni caso,
tentare non avrebbe fatto male a nessuno… e lei non voleva
mica rapirli, i piccoli.
Quando fossero cresciuti, o se avessero per caso espresso il desiderio
di
tornare a casa, li avrebbe lasciati andare.
«Vieni
da me!»
Angela
aprì gli occhietti di scatto. Si sentì spaesata
per qualche secondo, poi
ricordò di trovarsi a Valle, a casa della nonna, in una
stanzetta che era stata
arredata appositamente per lei! Ma chi era che l’aveva
chiamata? Non era la
voce della mamma, questo lo sapeva. Si guardò attorno, senza
scorgere nessuno.
«Vieni
da me!»
Le
sembrò di tornare a dormire, ma gli occhietti erano aperti.
Era strano, non le
era mai capito prima: era proprio come dormire, o sognare…
ma con gli occhi
aperti e senza essere stesi.
«Vieni
da me!»
La
terza chiamata fu come il canto di una sirena per un marinaio: la
piccola balzò
giù dal letto, infilò le belle pantofoline e
aprì la porta. Piccola e
silenziosa com’era, non svegliò i familiari
addormentati e riuscì senza troppe
difficoltà (e senza sapere come) a sbloccare la serratura
del portone. Guidata
da una forza che non la spingeva ma la attirava, come se una cordicella
fosse
legata al suo corpicino e la conducesse dolcemente verso chi ne teneva
le
redini, Angela camminò in un sentiero disabitato pieno di
alberi e in salita;
quando giunse nel cuore del bosco, dove ogni direzione le sembrava
uguale, fu
un lupo a mettersela in groppa e portarla a destinazione. Lei, ancora
in
trance, non ebbe paura.
Il
conte non aveva mai visto sua moglie tanto agitata: si sfregava le mani
con
ansia e spiava il cancello attraverso la finestra.
«Non
verrà nessuno» sussurrò mortificata,
«devo aver fallito»
«Mia
cara, dovresti concedere a questa creatura il tempo di
raggiungerci». Sorrise e,
avvicinatosi, prese tra le sue le mani di lei. «Hanno le
gambe corte, non puoi
pretendere che siano veloci»
Come
sempre, il tocco di lui la tranquillizzò. La contessa tese
le labbra e, quando
quelle di lui le raggiunsero, si sentì libera da ogni timore
e incertezza: il
resto del mondo non la turbava e non le interessava, finché
era con Lui.
Riaprendo gli occhi lo vide sorridere: col mento le indicò
che l’ospite stava
arrivando.
Lo
baciò nuovamente e, con enfasi, corse a spalancare il
portone: un esserino dai
riccioli scuri avanzava verso di lei a passo deciso e con lo sguardo
perso.
«Buonasera,
mia cara» esclamò la stessa voce che aveva
chiamato Angela. La bimba sbatté le
palpebre e vide una bella signora accovacciata davanti a lei; dietro la
signora,
in piedi, vi era un uomo vestito elegantemente, che la osservava con
stupore. «Hai
adescato la persona giusta» lo sentì dire,
«potrebbe essere davvero tua figlia…
ti somiglia»
«Potrebbe
essere davvero nostra figlia»,
lo
corresse la signora senza distogliere lo sguardo dalla bambina.
«Non
avevo mai visto un castello» ammise la piccola, meravigliata,
dicendo la prima
cosa che le venisse in mente. Non aveva paura, perché la
signora le sorrideva e
la accarezzava… e somigliava anche un po’ al suo
papà.
«Vorresti
vedere com’è fatto dentro?»
domandò la signora alzandosi e mostrando così la
maestosità del lungo abito nero.
La
piccola esitò. Le vennero in mente le parole dei genitori
riguardo gli estranei
e si sentì improvvisamente stupita: perché quella
signora non le aveva ancora
detto chi era?
«Non
vuoi sapere il mio nome?» indagò, per preparare il
terreno alla domanda
successiva.
«No,
mia cara, non è necessario; non m’importa
conoscere il tuo nome… puoi scegliere
tu un nuovo nome con cui farti chiamare»
Angela
sorrise, divertita: le sembrava un bel gioco. «Allora voglio
esser chiamata
Neve!» decise dopo una veloce ma attenta riflessione: la neve
era certamente
una delle cose più belle che avesse mai visto. «Ma
tu chi sei?» tornò a
domandare quando, felice, la signora la invitò a entrare nel
castello.
«Io
sono la contessa di questo paese… e lui è mio
marito» spiegò semplicemente,
scostando una ciocca di capelli ricci che le aveva coperto gli occhi.
Ancora
le parole di Elio ed Emma sull’importanza del non dare
confidenza agli estranei
si affacciarono nella testolina della bimba, assieme alle immagini di
alcune
fiabe in cui i bambini venivano puniti per aver disobbedito ai genitori
e
seguito qualche sconosciuto. Quella signora però viveva in
un castello ed era
una contessa… e una contessa non poteva essere molto diversa
da una
principessa. E se quella donna era una principessa, non era una strega,
ed era
buona.
«Dunque,
piccola mia? Vuoi entrare?» La signora aveva una voce tanto
dolce da
accarezzarla e le tendeva la mano. La bimba la afferrò e,
guardandola negli
occhi, annuì con un sorriso. Fu il conte a richiudere il
portone.