Questa storia non dovrebbe esistere,
in questo momento. E se esiste è per un’unica ragione.
Oggi è il compleanno di
Fra’.
^__^
Auguri, Francy.
Millemila di questi giorni.
(Spiegazioni a fondostoria)
Buona lettura
suni
DRITTO NEGLI OCCHI
“...Sei qui?”
La voce di lei quasi si spense sull’ultima
sillaba, forse perché non aveva più bisogno di porre la domanda.
Jiraiya era accovacciato sul parapetto che correva intorno al perimetro del
tetto, con le gambe raccolte contro al torace e la testa chinata verso il
basso. Nel buio quasi totale della sera Tsunade lo distingueva a malapena e il
volto di lui era in ombra, celato dalla posizione raccolta, ma
l’impressione che ne ricavò fu di trovarsi davanti un Jiraiya
bambino, quasi indifeso, che datava parecchi anni indietro.
“Tu che ne dici?” le
rispose, atono.
Tsunade strinse leggermente e
involontariamente le mani a pugno, serrando amaramente le labbra. Incerta, si
avvicinò di qualche passo.
“Jiraiya, n…”
iniziò, con insolita apprensione.
“Non può essere!”
la interruppe rabbiosamente lui, battendo con forza la mano sulla superficie di
calce, accanto al proprio fianco. “Non può essere vero!”
ripeté alzando la voce, con enfasi. Tsunade lo vide fremere,
rannicchiandosi ulteriormente su se stesso, e per la prima volta non lo
trovò sciocco né eccessivo ma semplicemente desolante.
“Anche a me sembra
assurdo,” mormorò a fatica, soffocando un fremito di pena nella
voce ferma.
Lui tremava, e si stringeva le mani.
Le stringeva tanto forte, pensò Tsunade, che di quel passo si sarebbe
rotto qualche dito.
“Io lo conosco,”
continuò Jiraiya dolorosamente, ancora dandole la schiena. “Lui
non farebbe mai niente di simile. È il mio migliore amico. Io lo
conosco!” ribadì, con troppa foga.
Tsunade chinò soltanto lo
sguardo. Non rispose, perché non aveva nulla da dire, nulla che Jiraiya
volesse sentire. Lei stessa preferiva di gran lunga non formulare a voce alta i
pensieri che in quei giorni le avvelenavano le ore. Aspettava impazientemente
l’arrivo di Jiraiya da quasi due settimane – anche se non sarebbe cambiato
nulla, ne era consapevole, ma la solitudine improvvisa la faceva annegare - ed
era sicura che non avrebbe tardato a tornare al villaggio, una volta che la
notizia l’avesse raggiunto.
Infatti era arrivato quel pomeriggio,
affannato e stravolto da un viaggio durante il quale probabilmente non aveva
nemmeno fatto soste. La prima cosa che aveva fatto a Konoha, invece, era stata
marciare direttamente al palazzo dell’Hokage, per parlare con Sarutobi.
Quando lei era stata avvisata della sua venuta e li aveva raggiunti aveva
sentito la voce infiammata del compagno di squadra risuonare rimbalzando nei
corridoi, sugli alti soffitti chiari.
Era una voce da bestia ferita.
Sarutobi, l’ombra di se stesso.
Quando Jiraiya era uscito dalla stanza
lei gli era andata incontro, perché aveva bisogno di sentire vicino uno
dei due – l’altro, ormai, era perso per sempre – ma lui aveva
continuato a camminare quasi correndo, senza neanche guardarla, ed aveva le
mani premute contro le orecchie. Le sarebbe rimasto impresso a lungo: Jiraiya,
che non chiudeva mai gli occhi davanti a niente, fiero e sornione a fissare
dritto in faccia ogni nemico, intrepido nel fronteggiare qualunque evento della
vita senza ritrarsi mai, con i palmi schiacciati contro la testa per non
sentire e lo sguardo fisso, per non vedere.
Non aveva avuto il coraggio di
seguirlo subito, e ora che l’aveva davanti non sapeva cosa dirgli.
“Invece non lo conoscevamo
abbastanza, forse,” mormorò cupa.
“No!” ruggì
Jiraiya, voltandosi di scatto. Il volto era determinato, le sguardo deciso e
non recava nessun’ombra della sua solita allegria inopportuna. “Ti
stai sbagliando, vi state sbagliando tutti! Non può essere, non farebbe
mai niente di simile! E’ un complotto, qualcuno…”
“Jiraiya,” lo
chiamò lei quasi in una preghiera, perché non serviva che lui si provocasse
ancor più dolore, ma lui non la stette a sentire, coprendo il suo
richiamo.
“…Ha organizzato tutto per
invidia, perché lui è il favorito del Sandaime, lo hanno incastrato!”
proseguì in un urlo d’impotenza. “Orochimaru non è un
assassino a sangue freddo! Non è un mostro, non è un
pazzo!”
“Jiraiya,” ripeté
Tsunade, ma le cedette la voce e dovette voltare il viso per celarne il
tremore, restia a mostrarsi debole. Soprattutto davanti a Jiraiya, il buffone.
Si morsicò le labbra,
imponendosi il controllo; ma non era facile. Dov’era lui, che sapeva
sempre fare la cosa giusta, che aveva ogni volta la risposta, il piano
perfetto, la spiegazione logica? Dov’era lui che combatteva per tre,
quand’erano bambini, che parava colpi destinati a loro con quei capelli
neri che sembravano ballare una danza nota solo a loro, e che sorrideva con
composta soddisfazione quando il nemico cadeva, vinto? Dov’era
l’appoggio, dov’era lo strano, inquietante e rassicurante
Orochimaru, e perché, e cosa stava facendo?
Perché?
“Perché?” le fece
eco Jiraiya ad alta voce, piegandosi vinto sulle proprie ginocchia.
“Perché, Tsunade, perché?”
Lei non lo vedeva più, troppe
lacrime le appannavano gli occhi.
“Non lo so,” gemette,
soffocando a viva forza un singhiozzo che non vide mai la luce.
Jiraiya non parlava più. Si era
abbandonato in avanti e se lei non stava prendendo un abbaglio, con quelle
sciocche lacrime tra le ciglia, per la prima volta lo vedeva completamente
sconfitto. Jiraiya che non si fermava mai, schiacciato
dall’incredulità e dalla ferita inattesa.
“Lo hanno incastrato,”
ripeté poi lui sottovoce. “Lo sai com’è fatto. Si
sarà sentito colpito nell’orgoglio e se n’è andato
piuttosto che abbassarsi a discolparsi,” aggiunse, con tono ragionevole.
Accennò una risatina sciocca, una risatina orrenda che sapeva quasi di
terrore. “E’ così stupido. Avrebbe dovuto pensare che quando
fossi arrivato avrei sistemato le cose, no? È questo essere migliori
amici, continua a non capire niente,” precisò, scuotendo piano la
testa.
“Jiraiya…” fece
ancora Tsunade, quasi incapace di dire qualcos’altro. Si asciugò
bruscamente le lacrime dal viso e la sua espressione si fece dura, quasi
severa. Non era giusto che facesse loro così male, Orochimaru.
“Non essere ridicolo, Jiraiya. Non c’è nessun complotto.
Orochimaru ha ucciso delle persone, ha fatto degli esperimenti su…”
scandì, secca e rabbiosa.
“Non è vero! Smettila di
dire queste cose su di lui, Tsunade!” sbottò Jiraiya rizzandosi in
piedi. Era alto, massiccio e fosco, arrabbiato tanto da non sembrare lui. La
guardava con collera, dopo anni trascorsi a sorriderle scherzoso. “Tu
dovresti essere la più intelligente di noi due, ma oggi non si
direbbe,” aggiunse torvo.
Tsunade soffocò
un’esclamazione irata, scuotendo appena la testa.
“Stai rifiutando di prendere
atto della realtà,” lo ammonì, drastica.
Jiraiya raddrizzò il capo e le
sembrò respirare per la prima volta da quando l’aveva raggiunto.
Le sue labbra si arcuarono persino in un’ombra del suo solito sorriso
scanzonato.
“Se prendere atto della
realtà significa credere che il mio migliore amico sia un essere
spregevole, allora non lo farò mai,” affermò, sicuro.
“Ci crederò quando me lo dirà lui stesso, guardandomi
dritto negli occhi.”
Tsunade rimase ferma, con le palpebre
leggermente spalancate, mentre lui d’improvviso si muoveva, camminandole
accanto e oltrepassandola rapido senza aggiungere altro. Abbassò la
testa, vinta, e strinse i denti con fiacca amarezza.
“Così ti farai ancora
più male, stupido,” mormorò tristemente prima di voltare lo
sguardo, apprensivo e rassegnato insieme, nella direzione in cui era sparito.
“Sono indeciso. Non riesco a stabilire se sia molto ostinato o solo
molto stupido. O entrambe le cose.”
Tsunade ridacchiò divertita alle parole noncuranti e un po’
assorte del compagno di squadra. Jiraiya, a una ventina di metri da loro,
continuava ostinatamente a prendere la rincorsa buttandosi contro
l’albero per camminare sul tronco, finendo puntualmente per precipitare a
terra dopo al massimo tre metri. Cominciava ad avere una bella collezione di
bozzi.
“Sei molto duro. Sta facendo del suo meglio,” scherzò
con disinteresse, indicando il terzo ragazzino condiscendente.
Orochimaru spostò uno sguardo pesantemente cinico su di lei,
scostando una lunga ciocca di capelli dal viso con un gesto sciolto, dettato
dall’abitudine.
“Non lo starai difendendo, Tsunade,” commentò
indifferente, con un accenno vaghissimo di sorriso malizioso nel pronunciare il
suo nome.
“Nemmeno per idea!” protestò vivamente lei, sgranando
gli occhi.
Jiraiya lanciò un barrito di protesta, frustrato dall’ennesima
caduta.
“Non credo abbia capito come funziona il procedimento, in
realtà,” continuò Orochimaru vago, osservando il compagno
con la distaccata curiosità di uno scienziato di passaggio.
“Potresti spiegarglielo, così la smette di strillare,”
sbuffò lei, scuotendo le spalle con esasperazione.
Orochimaru le lanciò un’occhiata piuttosto scettica, prima di
sospirare profondamente con fare molto rassegnato. Si alzò in piedi nel
suo modo fluido, scuotendo le lucide chiome corvine con noncuranza.
“Ho un’idea migliore. Ma è solo perché tanta
dedizione mi sta commuovendo,” ribatté, senza la minima
convinzione ma anzi, quasi scocciato e velatamente ironico.
Tsunade lo guardò incuriosita mentre, calmo e incurante di qualunque
cosa lo circondasse, si dirigeva verso il tronco tormentato da Jiraiya. Quando
l’ebbe raggiunto non rallentò nemmeno il passo intanto che il
compagno di squadra, appena atterrato nuovamente carponi, si bloccava sul punto
di rialzarsi per ricominciare e, stupito, lo guardava interdetto.
Orochimaru continuò a camminare quasi maestoso, poggiò il
piede sul tronco e senza nemmeno darsi lo slancio prese ad effettuare la
risalita, come se stesse ancora camminando a terra. Lo fece lentamente,
perché Jiraiya lo vedesse bene e seguisse ogni suo movimento in modo da
memorizzarlo.
Tsunade sorrise. Orochimaru non gli stava spiegando, gli stava facendo
vedere. Era un metodo superbo e arrogante, ma si trattava pur sempre di lui.
“E allora?” berciò in quel momento Jiraiya animosamente,
stizzito. “Che hai da vantarti tanto, eh, musone? Riuscirò a farlo
molto meglio di te!”
Orochimaru levò visibilmente lo sguardo al cielo, mentre Tsunade si
nascondeva il viso tra le mani con una smorfia d’imbarazzo, prima di
sospirare rassegnata.
“Ma allora non capisci proprio niente,” borbottò
incredula.
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Inaspettatamente gli venne in mente
proprio lui, in un momento qualunque. Lì, seduto sulla nuova poltrona
della sua nuova sala sotterranea ancora in allestimento, con una gamba poggiata
mollemente sul bracciolo e i capelli finalmente liberi dall’opprimente
coprifronte di Konoha, mentre osservava pigramente un nuovo e inutile
sottoposto che si affannava e raddrizzare un pilastro gli venne in mente
precisamente Jiraiya e si guardò intorno con genuina curiosità.
Sorrise.
Insolita, la mente umana.
Sarebbe stato molto più
semplice tirarlo dall’altro lato, quel pilastro, anziché
spingerlo.
Jiraiya doveva essergli venuto in
mente per quel motivo: le soluzioni stupide a problemi banali erano decisamente
il suo forte.
“Sto iniziando ad annoiarmi,
Taiyu,” commentò piatto, poggiando il mento sul palmo della mano.
L’altro, per la sorpresa di sentirlo parlare d’improvviso, perse la
presa sulla pietra e lasciò cadere la colonna, vanificando dieci minuti
di sforzi.
Ripugnante.
“Ch-chiedo scusa, O-orochimaru
sama,” si affannò a giustificarsi, accennando persino un inchino.
Era incredibile come bastassero una
solida nomea di forte shinobi e pochi mesi di fama discutibile e spaventosa per
circondarsi di imbecilli adoranti e terrorizzati. Incredibile e molto, molto
vantaggioso.
“Ma prego,” rispose vago,
con un lieve cenno della mano e un sorriso letale. L’uomo arretrò
di un passo, e poi di due altri nel vederlo alzarsi senza smettere quel sorriso
agghiacciante. “Ti lascio continuare,” proseguì glaciale,
prima di voltare le spalle a Taiyu per lasciare la sala. Sentì
distintamente il suono del suo respiro spezzato dallo spavento e tinto appena
di sollievo per lo scampato pericolo.
Persone così vigliacche erano
una risorsa preziosa – uccidendole non si privava di niente di utile,
l’uso migliore che potesse farne era proprio quello di carne da esperimento
– ma sospettava di annoiarsi, alla lunga. Il giorno in cui avesse trovato
di nuovo un individuo abbastanza straordinario da catturare il suo interesse e
non temere il suo sguardo sarebbe stato un buon giorno, riteneva. [Se ne
sarebbe ricordato molti anni dopo di sorpresa in un letto, davanti alla katana sguainata
e agli occhi rossi di un ragazzino ancor più subdolo e ambizioso di lui.
Anche i migliori sbagliano, pare.] Nel frattempo avrebbe impiegato
intelligentemente il suo tempo diventando immortale.
“Reko-san,” mormorò
gelido, passando accanto al suo secondo che bivaccava sulla soglia,
“quando finisce con la colonna chiudilo di sotto con gli altri. Un simile
rifiuto non mi serve a nulla…vivo.” Sorrise, suadente.
“Sì, Orochimaru
sama,” ribatté lo shinobi senza sembrare troppo impressionato.
Reko andava meglio degli altri. Era un
buon elemento, tutto sommato, un nukekin di Suna dalla notevole potenza e dal
piacevole sangue freddo.
Ma non era un individuo al di sopra
della norma. Era umanamente noioso anche lui, come tutti gli altri. Tutti,
senza eccezioni.
Curiosamente, di nuovo, gli venne in
mente Jiraiya.
Di tutti gli uomini che avesse
conosciuto, Jiraiya era sicuramente l’unico con cui non si fosse mai
annoiato. Sarebbe stato un soggetto molto interessante per innumerevoli
esperimenti, ma sapeva perfettamente che averlo a disposizione non sarebbe
stato possibile. Nemmeno gli interessava davvero, dopotutto.
A quanto sembrava, Jiraiya lo stava
cercando. La cosa bizzarra – era scoppiato a ridere quasi
incontrollatamente, quando Reko gliel’aveva riferito – era che non
lo cercava per ucciderlo per conto di Konoha, o per vendicarsi della fiducia
mal riposta in lui: no, da quanto andava proclamando ai quattro venti, di
villaggio in villaggio, Jiraiya lo stava cercando per avere spiegazioni e per accertarsi che lui
fosse davvero colpevole.
Ridacchiò silenziosamente tra
sé, composto, spostando indietro i capelli neri.
Jiraiya era assurdo. Doveva essere la
ragione per cui non lo annoiava. Viveva nel suo mondo di gesta eroiche e alti
valori morali, e si comportava con coerente bizzarria. Lui era rimasto decine
di volte a guardarlo a bocca aperta – metaforicamente, perché di
rado, già da bambino, lasciava trapelare le sue emozioni – domandandosi
se fosse pazzo, o malato, o migliore di chiunque. Quest’ultima opzione
l’aveva eliminata da tempo. Jiraiya era un povero illuso.
Ma era anche divertente, dopotutto.
“La guerra finirà.”
“Potresti smetterla di ricordarmelo, Jiraiya? Ti assicuro che mi sta
venendo l’emicrania.”
Jiraiya aveva aggrottato la fronte mentre l'altro parlava, imbronciato, e scosse la testa
con estrema disapprovazione.
“Ma insomma, musone, non puoi essere contento che ci sia la
guerra!” protestò con foga, gesticolando nella sua direzione.
“La guerra è una cosa orribile!”
Orochimaru sospirò, annoiato.
“Non sono contento,” replicò impassibile. “Non
strettamente in questo istante, dal momento che se non ci fosse la guerra non
sarei costretto a stare qui con te di guardia,” precisò con un
sorriso maligno. “Ma in linea generale, sì, sono contento. La
guerra è interessante.”
“Tu non parli sul serio,” insistette Jiraiya, incupendosi.
“Pensa a tutte quelle vittime…”
Orochimaru sospirò teatralmente, tediato.
“Ti prego, Jiraiya. Sono anch’io un orfano di guerra, ti
ricordo, ma queste storie melense mi danno solo il voltastomaco,” si
schernì, con fare stremato.
Jiraiya lo fissò risentito, prima di scuotere la testa.
“Tu sei tutto una montatura,” sentenziò petulante.
Orochimaru voltò lo sguardo verso di lui, sinceramente sorpreso. Era
sdraiato mollemente sul largo ramo della quercia, mentre Jiraiya stava seduto
un po’ rigido appoggiato al tronco, e da quella posizione poteva vedere
perfettamente la sua espressione sostenuta.
“Una…montatura?” ripeté scettico, sbattendo una
volta le palpebre con lentezza.
“Non è vero che ti piace la guerra. Se ti rilassassi e
smettessi di interpretare il tuo ruolo saresti felice di essere una persona
normale in un normale paese pacifico,” insistette Jiraiya, saputo.
“Ma devi fare il musone dal cuore duro,” sogghignò,
sornione.
Orochimaru si grattò lentamente una guancia, con educata
perplessità.
“Immagino sia la tua visione delle cose,” concesse, superiore.
L’altro ragazzo scrollò ripetutamente la testa, prima di
sorridere.
“Pensaci un po’,” aggiunse, con un sospiro rapito.
“Quando la guerra finirà, potremo mettere su una casa come si
deve, tutti e due,” iniziò soddisfatto.
“Gradirei che le rispettive abitazioni si trovassero ai lati opposti
del villaggio, in quel caso,” intervenne Orochimaru distrattamente.
“Stammi a sentire, musone, invece di sparare scemenze!”
protestò Jiraiya piccato, prima di riprendere il suo vagheggiamento.
“Organizzeremo il sistema di Konoha in modo molto più stabile e
proficuo. La nazione del Fuoco tornerà ricca e prospera, non perderemo
più i nostri uomini in battaglia e invece di combattere potranno
dedicarsi al benessere dell’intera comunità. Il bene di uno
è il bene di tutti,” proseguì, assorbito dalla narrazione.
“Svegliami quando hai finito, Jiraiya,” suggerì
Orochimaru, socchiudendo gli occhi per mostrarsi insonnolito.
“Sei odioso, Orochimaru,” osservò Jiraiya truce,
spintonandolo piano e ricevendo in cambio un rapido sguardo assassino.
“Non dovremo più viaggiare solo per uccidere e combattere, ma per
visitare luoghi lontani, avvicinarci a conoscenze innovative e immergerci in
culture da cui apprendere il meglio. Torneremo a casa con oggetti affascinanti
e storie fantastiche per sedurre le ragazze,” e ridacchiò
estasiato, sfregandosi le mani.
“Ero sicuro che loro c’entrassero in qualche modo,”
commentò Orochimaru, lontano e ironico.
Jiraiya ridacchiò con un imbarazzo nemmeno un po’ credibile.
Il giovane genio si trattenne a stento dal fare altrettanto.
“Non stavi per addormentarti? Puoi farlo, capisco che tu non sia in
grado di reggere tutti questi turni. Non tutti sono resistenti come me,”
lo punzecchiò Jiraiya, spingendo il petto in fuori con scherzoso orgoglio.
“Non è esattamente la ragione per cui mi stavo addormentando,
ma se ti piace pensarlo…” ribatté Orochimaru atono, godendosi
l’occhiata oltraggiata e il grugnito di protesta del compagno di squadra.
Poi Jiraiya tacque, voltò la testa dal lato opposto e rimase fermo a
guardare la strada da sorvegliare, in silenzio. Orochimaru osservò per
un paio di minuti le fronde degli alberi sopra la propria testa, gettandogli
qualche fugace occhiata indagante, ma l’altro sembrava non avere nessuna
intenzione di riprendere a parlare. Sbuffò silenziosamente tra
sé, interiormente stizzito.
“E poi?” chiese, condiscendente.
“Poi che?” replicò innocentemente Jiraiya.
“La tua storia, com’è che continua?”
domandò lui, asciutto e indifferente.
Jiraiya sogghignò trionfale, piegandosi appena verso di lui.
“Credevo ti annoiasse,” commentò beffardo.
“Mi incuriosisce sapere fin dove può spingersi il tuo
buonismo, Jiraiya,” commentò lui reprimendo uno sbadiglio.
“Senza contare che ne abbiamo per altre tre ore, qui.”
Jiraiya annuì soddisfatto. Chiaramente, era convinto che lui fosse
ammaliato dal suo racconto di buoni sentimenti, fiori e usignoli.
“Beh, allora,” iniziò, affondando più comodo
contro il tronco. “Tu avrai…dei gatti, e quando sarai in viaggio li
lascerai a Tsunade. Non a me, perché dimenticherei di dar loro da
mangiare. Non credo che ti sposerai, sai, hai davvero un caratteraccio…
Ma visto che siamo famosi e forti shinobi avrai sempre un sacco di donne che ti
ronzeranno intorno… Diventerai il capo degli ANBU, dapprincipio, ti
chiameranno tutti Orochimaru sama…e ti guarderanno passare con
ammirazione.” La voce cadenzata e sempre più lenta di Jiraiya si
abbassava poco a poco, rapita, e Orochimaru, senza accorgersene, tendeva
inconsciamente il collo verso di lui per non perdersi le parole.
“Naturalmente avrai tre allievi tostissimi… Sarai un sensei
piuttosto capace, te ne do atto,” proseguì Jiraiya.
“Sicuramente migliore di te,” ridacchiò Orochimaru,
sprezzante.
“Assolutamente no, musone,” ribatté Jiraiya scuotendo la
testa, prima di sbadigliare. “Io sarò un supersensei
troppo…simpatico e i miei allievi mi adoreranno. Tu sarai
più…il genere maestro da ammirare… Uno che mette un
po’ soggezione…esigente…severo,” borbottò,
pensoso e un po’ intorpidito. Sbadigliò ancora. “Ti
costruirai una casetta…quasi in cima alla montagna…da cui si
vedrà tutta Konoha. Mangeremo spesso lì quando saremo…tutti
insieme…al villaggio… Io, te…Sarutobi
sama…Tsunade…”
“E quand’è che ti avrei invitato a casa mia?”
protestò Orochimaru contrariato. Jiraiya ridacchiò sottovoce,
mentre lui tornava ad osservare le foglie dritto sopra di sé.
“Sembra interessante, la storia del sensei. E Tsunade,
di’…?”
Non finì la domanda: lo strombettio emesso dal naso di Jiraiya gli
segnalò che s’era addormentato. Sollevò la testa di scatto,
per scoprirlo col capo reclinato sulla spalla e la bocca semiaperta, assopito.
Scoppiò silenziosamente a ridere, esilarato: per fortuna era lui, quello
resistente.
Jiraiya: un divertimento continuo.
Ma si era addormentato, lo sapeva, soltanto perché lì
c’era anche lui, e si fidava. Scosse piano la testa, fatalista, prima di
ripensare distrattamente al racconto del compagno di squadra.
Aveva ben altri progetti per l’avvenire, naturalmente, ma –
gatti a parte - quel bislacco dipinto non era male per ingannare il tempo in
una sera di guardia.
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Correva, tanto da avere i polmoni che
parevano esplodere. Non si curò della prima né della seconda
esplosione, schivò facilmente la terza e stese senza il minimo sforzo lo
shinobi che gli si parò davanti per attaccarlo. Un altro gli fu addosso
alle spalle, ma non lo colpì mai: era già morto quando la potenza
del suo jutsu ne sbatté il corpo a terra, in una posizione contorta e innaturale.
Un terzo uomo trovò in pochi secondi una fine analoga, poi Jiraiya
riprese fiato, cercando di vedere qualcosa nella coltre di polvere dovuta agli
scoppi ravvicinati.
Cercava da due anni, ormai, senza
tregua. Aveva attraversato paesi interi, seguendo voci e soffiate sempre
più vaghe e confuse, che iniziavano ormai ad assumere toni di leggenda.
Non si era mai fermato, nell’impellenza assoluta di rivedere quel volto e leggervi cose che ormai
sapeva già, ma che aveva bisogno di toccare con mano per riuscire a
crederle reali, ad accettarle con il loro carico di orrore e sconfitta.
Mentre la nube di polvere si diradava
lentamente l’eco delle esplosioni si affievolì, portandogli un
coro lontano di voci umane lamentose e lugubri. Quel dedalo sotterraneo aveva
qualcosa di profondamente malsano, inquietante e sinistro.
Tossì, strizzando gli occhi per
mettere a fuoco, prima di azzardare un paio di passi in avanti, parendogli di
intravedere una soglia, o una biforcazione.
“Jiraiya.”
La voce alle sue spalle lo
immobilizzò di botto. Per alcuni lunghi secondi non respirò
nemmeno, pietrificato ad occhi sgranati, mentre il battito accelerato del suo
stesso cuore diventava quasi assordante. Poi deglutì faticosamente il
groppo pungente fermo nella sua gola, umettandosi le labbra improvvisamente
secche. Con una lentezza incontrollabile, non voluta, prese a voltarsi indietro
e gli parve di impiegare un tempo infinito prima che il suo collo e il suo
busto si torcessero abbastanza da permettergli la visione dello spazio dietro
di sé, ormai appena infoscato da un leggerissimo pulviscolo.
E lui era lì.
Non era cambiato affatto,
dall’ultima volta che l’aveva visto, a Konoha: gli stessi lunghi
capelli corvini, il viso bianco e affilato, il sorriso sardonico e superiore; l’unica
cosa diversa era la sua fronte, ora scoperta e priva del simbolo della Foglia,
e gli abiti di foggia diversa.
“Oro…chimaru,”
boccheggiò, con una strana voce cupa.
Rimase silenzioso, e il genio fece
altrettanto. Si fronteggiarono muti, senza fare un gesto, per alcuni
interminabili secondi.
“Benvenuto nella mia umile
dimora.”
Il suono sarcastico della voce di
Orochimaru lo riscosse, facendogli serrare i pugni.
“Tu!” ruggì
furibondo, indicandolo con foga. “Tu, come…? Orochimaru! Che
cos’hai fatto? Come hai potuto?” sbraitò, fremendo di
collera, rammarico e infinita indignazione.
Orochimaru rise. Una risata sottile e
schietta, infinitamente superiore.
“Jiraiya…sei sempre lo
stesso. Pontifichi ancora sull’etica e la morale, vedo,”
commentò noncurante, con leggero sprezzo. La sua voce si era fatta
musicale, suadente più di quanto fosse stata un tempo, eppure
c’era una nota distorta e stridente nella melodia delle sue parole,
qualcosa che per un secondo gli fece accapponare la pelle.
“Che cosa sei diventato,”
mormorò, senza che nemmeno fosse davvero una domanda.
“Per ora niente di speciale, ma
presto sarò un dio,” replicò il genio con tracotanza,
calmo. “E tu, patetico shinobi di Konoha? Pensavi di venire qui ad
impartirmi una lezione di vita e redimermi, dal basso della tua insignificante
piccolezza? Dai troppa importanza a te stesso, Jiraiya.”
Rise nuovamente. Un suono perverso e
artificioso, che a Jiraiya parve inumano.
“Quanti uomini indifesi hai
ucciso, Orochimaru?” chiese con gravità, aggrottando amaramente la
fronte. La piccola fiammella che si era conservata intatta dentro di lui,
nonostante tutto, cominciò definitivamente a spegnersi, e gli bruciava
la carne col dolore di un incendio sterminato.
L’altro sorrise, noncurante.
“Non ancora abbastanza.”
Jiraiya strinse i denti con forza,
trattenendo un’esclamazione rabbiosa o un lamento. Storse il viso in una
smorfia di riprovazione, scuotendo leggermente la testa.
“Perché?”
continuò desolato. “Perché, Orochimaru? Io me lo
ricordo…tu una volta eri buono,” osservò con
semplicità, dignitoso.
Il genio scoppiò nuovamente a
ridere, apparentemente esilarato.
“Accidenti, Jiraiya,”
sibilò, scompisciandosi dietro la coltre dei capelli, “sei ancora
più ridicolo di quanto ricordassi. Perché?” aggiunse,
beffardo. “Per la ragione più banale del mondo, amico mio. Per diventare superiore a
chiunque altro ed avere tutto ai miei piedi.”
Jiraiya soffiò fuori
l’aria con compatimento, cupo.
“Usando degli esseri umani come
cavie per diventare immortale? Questa è pazzia,” scandì
sicuro.
Orochimaru mosse elegante una mano,
con fare condiscendente.
“La genialità viene
spesso scambiata per follia. Non me ne farò un cruccio,”
ribatté, quasi faceto a dispetto dell’apparenza angosciante.
Jiraiya fece un passo in avanti
d’istinto, esasperato. Le risposte che aveva cercato tanto a lungo erano
lì davanti a lui, alla portata della sua mano, ed a quanto pareva erano
quelle che aveva temuto, quelle che dopotutto conosceva dall’inizio.
“Qual è il tuo vero
obiettivo, Orochimaru?” ringhiò.
L’altro piego leggermente la
testa di lato, divertito.
“Ne ho molti, uno più
magnificente dell’altro. Per quanto ti riguarda, voglio Konoha. Voglio
stringerla nel palmo della mia mano e sbriciolarla fino all’ultimo
mattone e all’ultimo uomo, per aver rifiutato come Hokage il più
grande genio del mondo.”
Scandì le parole con tutta
calma, accattivante, guardandolo dritto negli occhi senza la minima esitazione.
Jiraiya non riuscì a
distogliere lo sguardo, mentre il suo respiro s’interrompeva e
l’ossigeno gli restava incastrato nella trachea con uno strappo
lacerante, senza andare né su né giù. Si lasciò
scivolare dentro come spade quelle parole una ad una, con gli occhi fissi in
quelli di colui che a lungo aveva considerato un fratello e che lo osservava
con fredda soddisfazione, evidentemente appagato dal dolore che gli stava
consapevolmente infliggendo.
Quando ritrovò la voce, una
parte luminosa e spensierata di lui si era spenta per non rinnovarsi
più.
“Quand’è
così,” affermò risoluto, “devo ucciderti,
Orochimaru.”
L’altro distese di nuovo le
labbra in un sorriso velenoso.
“Credo piuttosto,”
replicò senza emozione, “che sarai tu a morire, oggi.”
Orochimaru era sempre stato un
avversario letale, temibile oltre ogni paragone. Lo era già adolescente,
quando senza particolare sforzo compiva imprese quasi inabbordabili per i
più potenti ed esperti shinobi della Foglia, lo era all’epoca dei
loro vent’anni come combattenti, quando seminava il panico tra le fila
degli avversari con la sola imposizione della sua impressionante volontà
distruttiva, che trasformava il suo viso in una maschera crudele.
Jiraiya si rese conto, a quel
pensiero, che avrebbe dovuto capire già molto tempo prima. Lo seppe con
certezza nel momento in cui il suo antico compagno di squadra si mosse, con una
rapidità tale che lui non lo vide nemmeno. Schivò il suo colpo
per puro istinto, spostandosi a destra quel tanto che bastava a far scattare la
mano del genio a qualche millimetro dal suo corpo, evitando il suo braccio
allungato innaturalmente. Repentinamente gli afferrò il polso e lo
strattonò con tutta la forza portentosa sviluppata tra i rospi,
lanciandolo contro la parete di roccia. Il muro si frantumò con un boato
che fece tremare l’intera galleria, scatenando una nuova ondata di
polvere soffocante. Pochi metri più avanti il soffitto crollò. Jiraiya
diede un colpo di tosse aguzzando la vista per cercare la sagoma di Orochimaru,
ma un colpo dalla violenza spaventosa gli si abbatté sulla schiena
spezzandogli il fiato. Si sentì sbattere in avanti come un fantoccio e
poi le squame viscide dei serpenti gli avvolsero gli avambracci. Emise un
ringhio frustrato e strattonò i polsi, mentre Orochimaru lo aggirava
asciugandosi un rivolo di sangue dalle labbra.
“Sei sempre una delusione,
Jiraiya,” commentò malevolo. “Finiamola qui.”
Jiraiya aveva lasciato che i serpenti
sembrassero soffocarlo, trattenendo il respiro nei polmoni abbastanza a lungo
da sviare l’attenzione, e se li stracciò via di dosso balzando
sull’avversario con un urlo. Orochimaru scivolò di lato
ondeggiando – Tsunade diceva sempre che quando combatteva sembrava
ballasse – e sorrise truce. Approfittando del suo sbilanciamento
saettò verso di lui e Jiraiya si sentì paralizzare dalla tecnica
del Congelamento. Un trucchetto da ANBU da due soldi
in cui non avrebbe dovuto cadere, ma avrebbe rimediato all’istante.
Ma poi vide la spada, rilucente
nell’oscurità e scagliata contro di lui da una mano di Orochimaru,
poi da un’altra e da una terza. Urlò di dolore lancinante mentre
le lame gli squarciavano la carne, con uno spasmo di sofferenza che coinvolse
tutto il suo corpo. Con un ultimo sprazzo di lucidità si portò la
mano alla bocca e diede il morso più forte che gli riuscì.
L’allucinazione si dissolse,
lasciandolo ansimante e senza forze, ma illeso se non per la mano azzannata.
“Mi
stai…sottovalutando…Orochimaru,” boccheggiò,
reggendosi a quel che restava del muro.
Il genio sogghignò, incurante.
“Devo dire che mi sorprende che
tu sia riuscito a liberarti dalla Morte Visionaria,” ammise, ironico.
Non fece in tempo a far altro: Jiraiya
gli fu addosso e lo colpì con la velocità della sua mutazione
anfibia, scaraventandolo a terra molti metri più indietro. Consapevole che
ogni secondo era prezioso balzò di nuovo su di lui, rifilandogli un
calcio tale da stordirlo subito prima di accucciarsi a terra.
“Mille aculei!”
esclamò, facendo sì che i suoi capelli diventassero lame letali
scagliate in quantità verso Orochimaru. il primo mancò di un
soffio la sua testa, spostata piegando il collo ad almeno cento gradi, poi
l’intero corpo del genio si fece sinuoso e si contorse come quello di un serpente, evitando
tutti gli aculei. Soltanto l’ultimo gli trafisse la sommità della
spalla, mentre Orochimaru si avvolgeva su di sé ritrovandosi in piedi.
Il diversivo era stato comunque
sufficiente a permettere a Jiraiya di guadagnare il tempo necessario per il suo
colpo finale: sapeva che più lo scontro si fosse prolungato, maggiori
sarebbero state le possibilità di fallimento.
Aveva già la sfera in rapido
movimento tra le mani quando Orochimaru gli si scagliò di nuovo contro.
Il suo serpente gli azzannò la caviglia ma Jiraiya non vi badò,
gettando tutto il proprio peso in avanti per accompagnare il movimento del
braccio. La sua sola speranza era scattare fuori dal buco nel soffitto prima
che il colpo esplodesse.
“Rasengan!”
urlò, rilasciando il jutsu.
Orochimaru sgranò appena gli
occhi per la sorpresa, poi il suo torace si gonfiò ed espulse dalla
bocca il tifone della Distruzione Totale. Non fecero in tempo nemmeno a
muoversi: il rasengan di Jiraiya si scontrò
contro il devastante muro d’aria emesso dall’altro, e il mondo
intero – o così gli parve – esplose.
“Ci vedremo tra qualche mese, comunque. Cerca di non soffrire troppo
in mia assenza.”
Jiraiya sorrise sbruffone, aspettandosi un commento sarcastico e pungente e
uno sbuffo annoiato, ma non ottenne nessuno dei due: Orochimaru rimase
semplicemente assorto ed immobile, come da qualche tempo accadeva spesso.
Sembrava sempre immerso in sue personali meditazioni e trascorreva la maggior
parte del suo tempo da solo, febbrilmente preso da misteriose attività
sulla cui natura nemmeno Sarutobi sembrava avere idee
precise.
“Sì, va bene,” rispose freddamente il genio, e Jiraiya
seppe che non l’aveva nemmeno ascoltato.
“Fa’ almeno finta di considerarmi, non ci vedremo per
mesi!” protestò vivamente, oltraggiato.
“Non è che mi dispiaccia, Jiraiya,” replicò
Orochimaru caustico, degnandolo finalmente di un sorrisetto al vetriolo.
“Se dovessi morire in questa missione, ti pentirai amaramente di
avermi salutato con queste parole spiacevoli,” borbottò Jiraiya,
aggrottando il volto con finto risentimento.
“Ne dubito altamente,” osservò Orochimaru con distacco.
“Razza di stronzo!” ribatté Jiraiya, sgambettando
indignato sul posto. “Certo che sì invece, brutta specie
di…” inveì, rifilandogli uno schiaffone sulla testa.
Orochimaru spalancò curiosamente gli occhi, rimbalzando di lato, poi la
sua mano si strinse alla gola di Jiraiya e lo sbatté al muro.
“Non ci riprovare, impiastro,” sibilò truce.
Jiraiya tossicchiò annaspando, sorpreso per quella reazione
particolarmente violenta. Di solito Orochimaru fingeva a malapena di accorgersi
della sua esistenza.
“Ma vai a…” ansimò, tentò di colpirlo
scherzosamente con un calcio. Le dita del genio serrarono la presa sulla sua
gola, strappandogli un gorgoglio strozzato. Trovò gli occhi di
Orochimaru e li scoprì freddi, non animati da nessun divertimento.
“Ma sei pazzo?” esalò irritato, cominciando a trovare il
giochetto eccessivo.
Orochimaru lo mollò di scatto, facendolo barcollare malamente nel
tornare al suolo.
“Mi volevi ammazzare?” ragliò Jiraiya inviperito.
“L’idea mi ha sfiorato, lo ammetto,” replicò
l’altro, sostenuto. Jiraiya riconobbe il suo atteggiamento consueto e
ridacchiò comunque, sebbene un po’ offeso.
“Ma piantala. Non mi uccideresti mai,” lo stuzzicò, con
una smorfia irriverente.
Orochimaru lo guardò canzonatorio, con aperto scetticismo.
“Perché mai?”
“Sono il tuo migliore amico,” fece lui vittorioso.
Orochimaru si strinse nelle spalle con indifferenza, già voltandogli
le spalle.
“Resti comunque un idiota,” concluse assorto, già
iniziando ad allontanarsi e di nuovo preso dai fatti suoi.
Jiraiya rimase immobile per qualche lungo istante, esterrefatto.
Normalmente Orochimaru avrebbe dovuto negare. Di solito faceva così,
ogni volta che lui parlava di amicizia, sottolineando che dell’affetto di
un simile disastro non se ne faceva assolutamente nulla; invece stavolta non ci
aveva nemmeno fatto caso, accogliendo quell’affermazione con familiare
noncuranza.
Jiraiya soffocò una risata entusiasta, con improvviso brio, poi
agitò un braccio nella sua direzione.
“Potresti almeno augurarmi buon viaggio!” berciò con
rimprovero.
“Buon viaggio, scocciatore,” sospirò Orochimaru con
fastidio, voltando di un soffio il viso verso di lui.
Jiraiya sogghignò soddisfatto, annuì e sollevò il
braccio mostrando con le dita il segno di vittoria.
“Certo! A presto…musone!”
Si voltò e, con la solita irruenza decisa, si mise in marcia verso l’esterno
del perimetro cittadino, sorridendo del sole estivo. Se avesse saputo, forse si
sarebbe voltato indietro.
Sessantasei giorni dopo Orochimaru lasciò Konoha per non fare
ritorno, se non dopo più di un quarto di secolo.
Quando gli riuscì di
socchiudere gli occhi, con tutto il suo corpo che urlava di dolore, vide solo
la terra stravolta dallo scoppio titanico e la pietra frantumata ovunque.
Ansimò trattenendo un gemito e sollevò la testa con un infinito sforzo
di volontà, rimirando con occhi annebbiati la devastazione intorno a
sé.
L’effetto del rasengan contro il jutsu di
Orochimaru aveva dato vita a una catastrofe, ma dell’eremita dei serpenti
non c’era più traccia. Tuttavia, se c’era una cosa che in quel
momento Jiraiya sapeva per certo era che Orochimaru non era morto, e che lui
non l’aveva battuto, quel giorno come ogni volta prima.
E forse, considerò stringendo
le labbra perché non tremassero, nonostante tutto non voleva batterlo.
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Dunque, che dire.
Questa storia probabilmente è
OOC, è sballata col canon e non ha senso. Ma
trovo estremamente difficile parlare dell’epoca dei sennin,
che davvero è un po’ oscura. Ho cercato di interpretare le cose,
ma penso di avere delle spiegazioni da fornire.
Partendo dalla cronologia: i fatti narrati sono ambientati tra i venti e i
venticinque anni dei sennin (i flashback risalgono a
periodi precedenti). In realtà sono articolati in due
soli anni, ma non saprei essere più precisa di così.
Ho immaginato che all’inizio,
quando c’è il punto di vista di Tsunade, la storia di Dan non sia
ancora accaduta. Jiraiya in questa versione della storia non era a Konoha al
momento della scoperta dell’attività criminale di Orochimaru, ma
torna appositamente – non si sa da dove, lo ammetto.
Per quanto riguarda lui, Orochimaru, lascia il villaggio e si
mette a costruire la sua prima base. So che è entrato
nell’Akatsuki e che era in duo con Sasori, ma
ho immaginato che sia successo tempo dopo, quando si era stabilizzato:
Orochimaru è prima di tutto un individualista e ho immaginato che la prima
cosa che abbia ritenuto importante fare sia stata sistemarsi e ingranare il suo
“progetto immortalità”. Questo Orochimaru può già
attuare certe azioni tipicamente serpentesche, come arcuarsi e snodarsi –
di certo è già l’evocatore di Manda – ma ovviamente
non ha ancora nulla del futuro “semi-immortale”.
A proposito di Jiraiya, invece, alcune altre cose. In primis, Jiraiya ha ovviamente
già fatto l’allenamento coi rospi. Indi, mi rendo conto che questo
erosennin giovane è mostruosamente simile a
Naruto, ma è così che li vedo. Penso che il Jiraiya adulto e
più riflessivo, se vogliamo realista, sia come Naruto potrebbe
diventare, perdendo quella spensieratezza allegra che lo contraddistingue, se
si dovesse trovare a confrontarsi relativamente a Sasuke con lo stesso
fallimento di Jiraiya con Orochimaru. Credo che Jiraiya sia stato infinitamente
segnato dalle scelte del compagno di squadra e da quello che hanno comportato.
Penso che però sia anche un
po’ diverso da Naruto, e mi auguro che ciò traspaia. Altrimenti ho
sbagliato tutto e me ne scuso, soprattutto con te, Fra’, che ami tanto il
personaggio. Mea culpa, mea maxima culpa.
Per quanto riguarda i jutsu: sono
mortificata, questo combattimento tra Jiraiya e Orochimaru è una delle
cose più difficili che ho scritto. Le informazioni in merito sono
frammentarie, i miei ricordi nebulosi, l’immaginazione mi si inceppava
nel tentativo di rendere la scena realistica, ho mischiato nomi in lingue
diverse e so che l’effetto d’insieme risente di tutte queste
imprecisioni. Per giunta rendere giustizia a uno scontro tra due simili titani
mi è sembrata un’impresa in cui sentirmi perdente in partenza.
Mi sto sicuramente dimenticando altre
precisazioni, ma le aggiungerò man mano nel corso dei giorni,
perché tanto le cose me le ricordo a spezzoni.
Per concludere, Fra’, che dire; sicuramente tu vedi in modo completamente
diverso il giovane Jiraiya e gli altri due sennin e
sei un po’ deluso, ma spero comunque che leggere non sia stato troppo
spiacevole. Io ho fatto del mio meglio, sinceramente. Buon compleanno!
(Ah…se stavolta non mi lasci un commento, ti spezzo le rotule.)(^__^)
Grazie a tutti per aver letto e, se
vorrete averne la bontà, per aver commentato.