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Autore: hotaru    11/02/2009    2 recensioni
- Questo mondo è rugiada, davvero è rugiada - disse a voce leggermente bassa, ma perfettamente udibile al di sopra del concerto di cicale che faceva da sottofondo.
Hinata si sentì improvvisamente in colpa per quello che aveva pensato poco prima. Chi era lei per poter anche solo immaginare di recriminare qualcosa a suo padre, bloccato in quel posto asettico e anonimo, o a suo cugino, solo quanto quella casa in mezzo ai rovi e ai rampicanti?
- Eppure, eppure – concluse, l’ultima parola quasi un sussurro.
Ci fu qualche attimo di silenzio, spezzato da uno sbuffo irriverente.
- Bella – fece una voce femminile un po’ aspra – Te la sei inventata sul momento o l’avevi preparata prima?
Quinta classificata al contest "Alternative Universe Special-2° edizione di DarkRose86 e vincitrice del Premio per la Miglior Trattazione dell'Immagine.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Altri, Neji Hyuuga
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Una piccola nota prima di cominciare: questa storia avrebbe una colonna sonora, è nata ascoltando le musiche del film “Il favoloso mondo di Amélie”. Se poteste ascoltarle, sarebbe perfetto.

Altrimenti fa lo stesso.


 

 

Eppure, eppure

Immaginate la storia ambientata qui.

 


Eppure, eppure 2

1° capitolo

 

L’auto, una Cadillac verde d’epoca, si fermò nella spiazzo adiacente alla strada. Forse anni prima c’era stato qualcosa lì attorno- un paese poco lontano, un distributore di benzina- ma l’emigrazione verso la città aveva reso tutto ben più desolato di quanto avrebbero potuto fare una calamità naturale o una guerra.

E la legittima proprietaria aveva ripreso possesso di quella terra, rimpadronendosi di ogni singolo centimetro e fessura. Una vegetazione brulicante di vita, ma ostile e quasi rabbiosa aveva ricoperto nuovamente ciò che gli umani le avevano sottratto decenni prima.

E un esemplare di questa specie se ne stava per l’appunto fermo sul ciglio, al limite di confine tra il civile (se così si può definire una strada perlopiù deserta) e il selvatico.

Dato che nel raggio di chilometri non abitava più nessuno, la levataccia cui era stato costretto quella mattina per trovarsi in quel punto all’ora prestabilita l’aveva messo di pessimo umore. E a farne le spese, poche ore prima, erano stati sia la moglie che il cane.

Ma avrebbe preferito affrontare cento mogli inviperite e mille cani rabbiosi piuttosto che mostrarsi anche solo lievemente contrariato di fronte a quei tre cittadini i quali, più che zotici arricchiti, sembravano discendere da chissà quale alto lignaggio.

Anche se non avesse saputo che erano parenti, l’avrebbe capito al volo. Si somigliavano in modo stupefacente, pur mantenendo una certa diversità tra l’uno e l’altro, sicuramente anche caratteriale. Come variazioni sul tema di un componimento musicale. Andante, Adagio, Moderato. Se avesse potuto disporre di un minimo di conoscenza musicale, li avrebbe senz’altro definiti in quella maniera.

Invece si limitò ad osservarli mentre scendevano lentamente dall’auto.

Fu quasi tentato di distogliere gli occhi quando il giovane che aveva guidato fin lì- unico uomo del gruppo- gli rivolse uno sguardo. Al poveretto parve quasi di venirne trafitto, mentre l’altro gli indirizzò un educato “Buongiorno”, seguito nel saluto dalle due ragazze che erano con lui.

Chissà perché, il primo impulso che ebbe fu quello di inchinarsi, ma fortunatamente il proprio autocontrollo intervenne in tempo a bloccare quest’istinto.

-         Buongiorno – rispose, chiedendosi perché mai stesse sudando come un pollo in forno mentre i tre giovani sembravano perfettamente freschi, come se non sentissero il caldo soffocante di quel tre luglio, oltretutto aggravato dall’umidità emanata dalla vegetazione lì attorno.

-         Ho portato le chiavi – continuò, porgendo un mazzo un po’ arrugginito, ed evitando con cura di fissare gli occhi in quelli di ghiaccio dell’uomo di fronte a lui. Stranamente, all’improvviso sentiva quasi freddo.

-         Grazie – si sentì rispondere.

-         Non che servano a molto – commentò poi, tentando di intavolare un minimo di conversazione per non sentirsi più così a disagio – Oramai porte e finestre sono lì solo per arredamento, ve ne accorgerete…

-         Immagino quindi che la trattazione possa considerarsi conclusa – lo interruppe la voce fredda e calma del suo interlocutore, fissandolo senza battere ciglio.

-         Oh… sì, sì certo! – si affrettò a rispondere il poveretto – Eccome! Questo rudere è tutto vostro!

-         Bene… arrivederci – e con tali parole di affettata cortesia l’uomo capì di essere stato appena congedato.

Rimase immobile ancora due secondi, tanto per essere sicuro che l’altro non avesse più nulla da dirgli, ma vedendo che veniva volutamente ignorato non sembrò trovare altra soluzione che andarsene sul serio.

-         Beh, allora… arrivederci! – tentò un’ultima volta, ostentando una simpatia che non provava affatto.

L’unica che dei tre che si voltò a salutarlo fu quella ragazza dai lineamenti così dolci e i capelli corvini, che gli sorrise lievemente e accennò un piccolo inchino.

L’uomo le fece un cenno, riconoscente, e si incamminò verso la sua piccola “stufa a vapore”, come la chiamava lui.

“Certo, che stronzi” pensò mentre metteva faticosamente in moto “A parte la ragazza più grande, gli altri due mi hanno trattato come scarto di letame. Quello sbarbatello coi suoi modi da gran signore sembrava voler vedermi strisciare, mentre l’altra vipera- sarà poco più di una ragazzina appena uscita dal liceo- non mi ha quasi degnato di uno sguardo. Hanno sangue giapponese, si vede a colpo d’occhio. Non sono altro che una stirpe di stronzi, ecco cosa. Se la sono meritata quella bomba, dopo il tiro che ci hanno giocato nel ’41, altrochè”.

Con questi pensieri infami, si avviò per la propria strada, imprecando e bestemmiando perché una volta a casa avrebbe dovuto fare i conti con la moglie e il cane, e forse non avrebbe avuto tempo nemmeno per un bicchierino al bar.

 

-         Potevi anche fare a meno di essere educata con quell’avanzo di fogna, secondo me – esordì la “vipera”, i cui lineamenti marcati rendevano il viso leggermente più aspro rispetto a quello della sorella. Appesa ad una spalla, una borsa dalla lunga cinghia.

-         Non dovresti definire così una persona che nemmeno conosci, Hanabi. Che cosa ti ha fatto? È stato gentilissimo con noi, e l’hai a malapena salutato – rispose l’altra.

-         È stato fin troppo per uno come quello. Si salutano gli esseri umani, non le larve viscide di grasso.

-         Da dove ti vengono fuori certi appellativi? – chiese la ragazza dai lunghi capelli neri con un sospiro.

-         Non hai visto come strisciava? Un altro po’ e pensavo si sarebbe messo a leccare i piedi a Neji! – ribatté Hanabi, sogghignando perfida.

La sorella maggiore rinunciò a dirle ancora qualcosa e decise di dedicare le proprie energie a seguire il ragazzo, che aveva cominciato ad inoltrarsi nella vegetazione intricata, l’aria piena del frinire di migliaia di cicale.

Malgrado le ortiche e i rami spinosi che si nascondevano praticamente dietro ogni foglia e filo d’erba, riuscirono ad arrivare incolumi. Alla casa.

 

 

-         Avete fatto colazione? – una voce acuta riuscì a raggiungerli  mentre si trovavano ancora sul patio davanti casa, giusto prima che finissero con un salto sull’erba profumata di fine maggio.

-         Sì, zia! – rispose uno dei due, voltandosi perché il grido si udisse meglio.

-         E le tazze sono nel lavandino? – questa volta la voce si fece più minacciosa, perdendo ogni nota di premura.

Due teste nere e scapigliate si voltarono l’una verso l’altra, due paia d’occhi uguali fissi per un istante gli uni negli altri.

Prima di cominciare a correre a perdifiato verso un campo di ortiche che in quel momento sembrava molto più sicuro dell’interno della casa.

 

 

Neji era uno di poche parole, ma in quel momento non sarebbero nemmeno servite: si vedeva benissimo quel che pensava del rudere che si trovavano davanti.

-         Tsk – fece la voce di Hanabi – Peggio di quel che pensassimo, mi sembra.

Stavolta nemmeno Hinata intervenne a smorzare il suo cinismo. Forse in modo un po’ lapidario, ma Hanabi aveva centrato il problema.

Un tempo doveva essere stata senza dubbio una bella casa, una di quelle che piacevano a lei: intima, luminosa, con quel patio che sembrava essere fatto apposta per sedersi fuori a chiacchierare nelle sere d’estate… sembrava l’ideale, ma avevano sbagliato qualcosa sulla lunghezza d’onda. La casa avrebbe dovuto essere costruita dopo o lei essere nata prima, per riuscire ad incontrarsi nel momento giusto. Peccato.

-         Sentite, io mi sono già rotta – riprese la solita voce – Vado a fare un giro qui intorno.

-         Guarda che non c’è niente, qui intorno – le rispose meccanicamente Neji senza distogliere gli occhi dall’edificio.

-         Perché, qui c’è qualcosa? – commentò lei, sarcastica – E comunque, voi che vorreste fare? Entrarci?

La sorella maggiore e il cugino si voltarono a guardarla, con uno sguardo evidentemente eloquente, perché Hanabi fece una smorfia e alzò le mani in segno di resa.

-         Fate come volete – disse – Ma se crolla finché siete dentro, io non voglio saperne niente. E al vecchio non so chi ci penserà. Saluti.

Detto questo girò sui tacchi e si diresse verso la parte più intricata di quella sottospecie di selva dantesca. Il che provava come, malgrado tutto, avesse ancora parecchio della ragazzina scapigliata che era stata.

Neji e Hinata tacquero. Poi si scambiarono un’occhiata e si diressero verso l’edificio. O quello che ne rimaneva.

 

 

L’infermiera entrò verso le nove del mattino, aprendo le tende e lasciando entrare il sole di quella splendida giornata. Un sole forte e luminoso, ma non abbastanza da riscaldare le pareti bianche. 

Aveva avuto una nottata pessima, grazie a Dio il suo turno era quasi finito. Ma se pensava alla torma di marmocchi urlanti che la aspettava a casa…

Era nervosa e stanca, avrebbe voluto terminare in fretta il suo giro e poi ciao. Tuttavia, mentre si voltava verso il letto, non poté fare a meno di bloccarsi per un istante.

Quell’uomo era malato, anche se non poi così vecchio. Se ne rimaneva bloccato a letto per buona parte del giorno, uscendo davvero di rado, ma disturbava anche molto meno rispetto agli altri pazienti.

Era innocuo, ma riusciva comunque a metterla in soggezione. “Chissà che razza di timore infondeva quando era in forze”, aveva pensato tante volte.

Quella mattina, quando si era voltata, l’aveva trovato con gli occhi già aperti, rivolti verso la finestra. La donna aveva sentito dire che le luci dirette fanno più male a chi ha gli occhi chiari, eppure lui sembrava non battere ciglio.

Le iridi dello stesso colore dei raggi eburnei che filtravano, si mise a spostare lentamente lo sguardo dal sole estivo, che brillava in tutto il suo splendore, al calendario poggiato sul comodino. Cercando di ricordare qualcosa. Come faceva sempre, anche se raramente con successo.

Quell’uomo le ispirava rispetto per tanti motivi, ma se le avessero chiesto di elencarli, non avrebbe saputo addurre altro che considerazioni apparentemente sciocche e infantili.

Probabilmente avrebbe iniziato dagli occhi. Le ricordavano moltissimo lo specchio d’acqua dietro la casa in cui abitava da bambina: d’inverno ghiacciava, e pattinarci sopra era sempre stato uno spasso. Finché una volta il ghiaccio non si era spaccato con un rumore sordo e lei ci era finita dentro, rischiando di…

Il solo ricordo le mozzava ancora il respiro. Non l’acqua. Non la profondità. Quel freddo. Quel freddo che l’aveva colpita come una lama acuminata, come se mille spade affilate l’avessero trafitta in un solo istante.

Avrebbe dovuto dire qualcosa al paziente, anche solo “buongiorno”.

Ma una forza terribilmente simile all’istinto di sopravvivenza la fece precipitare fuori, correre lungo il corridoio fino alla prima porta aperta, disperatamente in cerca di…

 

Finalmente all’aperto, immersa in quel calore confortante, si sorprese ansimante, mentre quasi annaspava in cerca d’aria. Cercò di calmarsi, e a poco a poco vi riuscì. Anche se il cuore continuava a martellare impazzito, unico organo che freneticamente cercava di pompare più sangue possibile per riuscire a darle un po’ di calore.

 

 

Non ci avevano messo molto a salire i pochi gradini in pietra dalle cui fessure usciva ogni specie di erba selvatica. Un’occhiata ai pali in legno che sostenevano la veranda- marci e storti, ma ancora in grado di reggere- ed erano entrati.

Come si poteva prevedere, era rimasto gran poco. Le finestre rotte avevano lasciato entrare ogni sorta di animali e intemperie, e il risultato era sotto i loro occhi.

Ma, nascosto nel forte odore di muschio ed escrementi lasciati da bestie varie, se ne annidava un altro, appena percettibile ma perfettamente riconoscibile. Un odore che ricordava loro come quella casa fosse stata comunque abitata per anni.

In fondo pure gli esseri umani sono degli animali, e lasciano le loro tracce.

La prima stanza in cui entrarono fu la cucina, riconoscibile come tale da un vecchio tavolo marcio e un forno sgangherato. Dal rubinetto arrugginito non usciva più acqua da secoli, tuttavia nell’acquaio stavano ancora alcuni piatti rotti e ammuffiti, un tempo forse pronti per essere lavati.

Tutto questo non era sfuggito allo sguardo indagatore di Neji, che scrutava ogni cosa con perizia scientifica.     

Hinata se ne stava in silenzio, aspettando che fosse lui a parlare per primo.

-         Peggio di quel che pensassi – esordì lui alla fine, come si fosse trattato dell’esame di un agente immobiliare ad una casa palesemente impossibile da vendere.

Ma la cugina era abituata al suo linguaggio enigmatico, e seppe interpretare quell’atteggiamento freddo da sfinge. Tuttavia non disse nulla, dedicando tutta la sua attenzione al corridoio.

-         Continuiamo? – propose, voltandosi verso di lui.

Neji annuì, seguendola in quello che doveva essere stato il soggiorno. Il tessuto del vecchio divano era strappato in più punti, lasciando fuoriuscire fior di molle. Ai suoi piedi, una schifezza piena di sozzura animale, un tempo forse un tappeto di cui al momento non si riusciva ad intuire nemmeno il colore.

Il volto di Neji oscillava tra il disgustato e l’arrabbiato, mentre Hinata si avvicinò ad un angolo della stanza in cui si trovava un mobiletto con un paio di scaffali, i quali ospitavano ancora alcuni libri. Sorprendentemente, quasi intatti.

-         Guarda qui – disse, attirando l’attenzione del cugino. Tirò fuori uno dei volumi e lo sfogliò piano, sul viso un’espressione vagamente divertita. Poi glielo passò.

-         La Bibbia? – fece lui, leggermente scettico – A quanto pare, mai stata aperta.

-         Già – rispose lei. Poi passò l’indice sulla copertina degli altri libri, togliendo sufficiente sudiciume da riuscire a leggerne il titolo.

-         “Un Canto di Natale”… - lesse adagio.

-         Dickens? Qui? – fece lui di rimando.

Lei seguitò a leggere, senza commentare.

-         “Cent’anni di solitudine”, “Fiesta”, “L’ultimo dei Mohicani” (*)… - e seguitò con un elenco di capolavori letterari impensabili da trovare proprio lì, non ancora intaccati da tarme o altro. Un piccolo tesoro nascosto, che agli animali non era ovviamente interessato.

Arrivata ad una copertina forse un tempo verde smeraldo- ora solamente di un verde opaco indefinito- si fermò qualche istante, per poi estrarre delicatamente il volume.

Lo mise fra le mani di Neji, e poi si alzò.

Il ragazzo, non appena scorse il titolo, non riuscì a dire nulla. Sembrava non poter credere ai propri occhi, come se ci fosse qualcosa che sorprendentemente non era al suo posto, allo stesso modo di un pesce spada sull’Himalaya.

-         Forse potresti tenere questo – disse piano la cugina – Sembra quasi più nuovo della tua copia.

Effettivamente Hinata aveva ragione. Il volume di “Foglie d’erba” (**) che gli aveva regalato lei per il suo quindicesimo compleanno aveva ormai la copertina sdrucita e le pagine consumate dalla troppa lettura. Era stata la prima volta in cui lo aveva visto infervorarsi per qualcosa, mettere il fuoco e l’anima in un’attività che non fosse distaccarsi completamente dal mondo.

Lei che non riusciva mai a decidere quale fosse il regalo più adatto per una persona, quella volta ci aveva azzeccato in pieno.

D’altronde, suo cugino aveva dimostrato di essere forse l’unico quindicenne a sfogarsi non sulle riviste porno ma leggendo versi quali Io canto il corpo elettrico/ le schiere di quelli che amo mi abbracciano, ed io li abbraccio/ non mi lasceranno libero finché non sarò andato con loro, non avrò dato loro una risposta/ e non li avrò caricati dell’anima, completamente.

-         Mmm… - fece lui di rimando, apparentemente incerto. Ma Hinata sapeva di averlo convinto.

Infatti il ragazzo riappoggiò il libro sullo scaffale e disse:

-         Lo prenderò su dopo.

Uscirono dal soggiorno (o quello che ne rimaneva) e si riavventurarono in corridoio, fermandosi di fronte ad una stanza un po’ più ampia.

Si arrestarono sulla soglia e guardarono.

 

 

-         Ma che avete combinato? – chiese inorridita la zia alle maschere di sangue che si era ritrovata sulla porta.

Fortunatamente l’apparenza era ben più grave della situazione effettiva: una bruschinata forse un po’ troppo energica, e fu subito chiaro che i danni erano abbastanza limitati. Un labbro spaccato, sangue dal naso e un morso su un orecchio uno; un occhio nero, un taglio sul sopracciglio e un graffio profondo sul braccio l’altro. Oltre alle ginocchia sbucciate di entrambi.

Tutto sommato, nel complesso costituivano un’interessante gradazione di colori: dal bianco degli occhi al rosso del sangue, dal viola degli ematomi al nero dei capelli.

-         Allora? – li apostrofò l’anziana donna, che in quelle occasioni sfoderava un’energia davvero singolare.

Nessuna risposta.

-         Chi vi ha conciato così? – continuò.

Nulla.

-         Vi avverto che rischiate il digiuno finché non sputerete il rospo! – li minacciò.

Imperturbabili.

-         Avete cominciato voi? Mi auguro non abbiate fatto bassezze come battervi in due contro uno o cose simili! – esclamò.

Uno dei due sembrò sul punto di aprire bocca per difendere il proprio onore leso, ma l’altro lo bloccò con un’occhiata.

Quasi impercettibile, ma la donna la colse.

-         Hiashi, lascia parlare tuo fratello – lo ammonì, guardandolo storto in maniera ben più evidente, per poi rivolgersi all’altro ragazzino – Forza, parla.

Ancora silenzio, ma il fatto che continuasse a mordersi le labbra, benché doloranti, e a stringere gli occhi significava che non avrebbe resistito ancora per molto.

-         Hanno cominciato loro – sussurrò, in un soffio leggerissimo.

-         Loro chi? – seguitò la donna, non mollando l’ interrogatorio.

-         Loro tutti. Tutti gli altri – stavolta il soffio aveva una leggera sfumatura ringhiosa.

-         E che cosa vi hanno fatto?

-         Fatto niente. Ma hanno detto.

-         Quindi avete cominciato voi – concluse la vecchia -  Chi alza le mani per primo è automaticamente il colpevole, in qualunque caso.

-         MA CHE CAZZO, VECCHIA! – esplose l’altro ragazzino, rimasto zitto e silenzioso come una bomba a orologeria mentre il fratello parlava – LO SAI CHE COSA CI DICONO? CHE SIAMO DEI BASTARDI GIAPPONESI, CHE COMUNQUE NOSTRA MADRE FACEVA PARTE DELLA FECCIA DI QUESTA SOCIETA’, MA NOI SIAMO PIU’ LETAME DI LEI PERCHÈ CI HA MOLLATO QUI, COME DUE ORFANI!

-         E tutto perché LUI aveva questo cognome schifoso, che guarda caso è l’unica cosa che ci ha dato! E perché qui sono tutti degli stronzi deficienti! – rincarò il fratello, incoraggiato dal fegato dell’altro.

Due sberle fioccarono dall’alto, andando a colpire precise e sonore, ben più roventi di tutti i colpi incassati quel giorno.  

Un’occhiata furiosa dagli occhi bianchi come saette, e ben presto in quella stanza non ci fu più nessuno.

Gli unici rumori che si udirono nei minuti successivi furono la corsa furiosa di due dodicenni sconvolti da un peso più grande di loro e il pianto di una donna china sul tavolo della cucina, impotente con quei gemelli che le erano capitati tra capo e collo anni prima, mollati lì da una nipote drogata e messa incinta da un giapponese ignoto, finito in quei luoghi dimenticati da Dio dopo la guerra e il tradimento nei confronti della madrepatria.

Di lui, solo un nome. Un nome che suonava come un marchio: Hyuuga .

 

 

(*) “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcìa Màrquez, “Fiesta” di Ernest Hemingway, “L’ultimo dei Mohicani” di James Fenimore Cooper

(**) “Foglie d’erba” di Walt Whitman, da cui sono tratti anche i versi riportati poche righe dopo

Concluso il primo capitolo.

Questa storia si è classificata quinta al contest “Alternative Universe Special- 2°  edizione” indetto da DarkRose86, che ringrazio nuovamente per la straordinaria efficienza e i commenti così precisi e sinceri. Sono felicissima di aver vinto il Premio per la Trattazione dell’Immagine… anche se a dire il vero ci avevo fatto un pensierino, dato che la protagonista di questa storia è praticamente la casa, non tanto i personaggi.

So che è una storia piuttosto strana, e mi rendo conto che probabilmente potrà apprezzarla un numero limitato di persone, però vi devo dire che la amo moltissimo, per tutte le emozioni che mi ha regalato scrivendola. Sul serio, non mi era mai accaduto prima.

Se qualcuno dovesse apprezzare (o anche no, non si sa mai), un piccolo commento sarebbe ben accolto… grazie!

E complimenti a tutte le altre partecipanti!

 

   
 
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