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Autore: lovinfaber    20/09/2015    4 recensioni
[-Creepypasta-]
[-Creepypasta-][-Creepypasta-][-Creepypasta-]Lui: un assassino seriale, sfuggito alla giustizia per diciasette anni. Lei: una giovane costretta a fare del suo corpo una merce. Entrambi reietti (seppure per diversi motivi), sopravvivono in quello stesso mondo che li ha partoriti per poi rinnegarli. In un susseguirsi di incontri casuali, di omicidi, di personaggi che lasciano un segno nelle loro vite, i due si ritroveranno faccia a faccia con i loro demoni.
Avvertenze: contenuti maturi per scene violente e linguaggio forte.
La scelta dei personaggi e della trama è motivata dall'idea di proporre una riflessione (seppure molto parziale) su tematiche come la prostituzione e l'alcooldipendenza.
Eventuali critiche costruttive sono bene accette. Non si accettano commenti offensivi.
I personaggi, i luoghi, le storie e i nomi sono di pura fantasia (ad eccezione di Jeff, di cui non possiedo i diritti). Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale.
Genere: Horror, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jeff the Killer
Note: Lime, OOC, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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~~Ore 8.43

Il dipartimento di polizia di Oldfield era fremente come non mai in quei giorni di paura senza nome. Le linee telefoniche erano talvolta occupate da telefonate di possibili avvistamenti di gente sospetta, omicidi presunti e altre situazioni di delirio collettivo. Era curioso vedere come quella cittadina così omertosa e indifferente a tutti i crimini che si erano propagati in quegli anni, fosse divenuta improvvisamente attenta, in alcuni casi persino ligia al dovere, reverente verso la legge che aveva da sempre aborrito. Le ragazze dei quartieri “bene” persero l’abitudine di rincasare tardi la sera, specialmente se non in compagnia di amiche o fidanzati; i bambini dei sobborghi trascorrevano meno tempo nei campi di basket lontani da casa, preferendo ad essi i cortili e i pianerottoli del vicinato, dai quali sgaiattolavano via prima che calasse il sole, complice l’attenta sorveglianza degli adulti che si organizzavano per far fronte all’eventuale assenza di protezione da parte della polizia. Solo la criminalità non sembrava temere quella strana ondata di assassinii, salvo considerarla un gestibile fastidio per l’aumentata presenza di controlli nelle zone dove si svolgevano i vari traffici.
I poliziotti, dal canto loro, mai ben visti per gli episodi di corruzione e inefficienza dimostrata negli anni, cercavano di ingraziarsi la fiducia delle persone, manifestando, per quanto fosse loro possibile, la loro vicinanza ai cittadini, nonostante i pochi mezzi a disposizione. Gli addetti ai centralini ascoltavano le telefonate con attenzione, e se possibile inviavano una volante alle zone dove vi erano indicati possibili sospettati, il più delle volte sconosciuti dalle brutte facce o innocui  delinquentelli, mentre gli altri poliziotti della centrale erano intenti a lavorare alle indagini già in corso o a sbattere in gattabuia qualche spacciatore colto in fallo.
Damien Mckenzie attendeva assonnato un espresso dalla macchina erogatrice del caffè. Il suo turno era iniziato da circa un’ora, e non sapeva a quale santo votarsi per far sparire la stanchezza. Da due notti non riusciva a prendere sonno: una strana morsa allo stomaco gli attanagliava le viscere, e per Damien non era mai un buon segno. Il “beep” della macchinetta lo destò da quel misto di torpore e ansia, e lo ricondusse agli impegni che lo attendevano alla centrale, al suo lavoro da ispettore.
Si diresse verso la sua postazione, incrociando nel mentre l’ennesimo stronzetto che veniva condotto in cella. Le motivazioni erano sempre le stesse per le fecce di Oldfield: furto, rapina, accattonaggio, spaccio di droga, detenzione illegale d’ armi, estorsione o sfruttamento della prostituzione. Il più delle volte  il malfattore veniva rilasciato anche prima che gli convalidassero il fermo, spesso per insufficienza di prove, o per le cauzioni che i gangster elargivano insieme ad altri “regali” per secondini e magistrati. Conosceva il tizio che avevano appena fermato e che insultava le madri dei poliziotti che lo conducevano in cella:  Jack Atkinson, spacciatore nonché tossicodipendente, arrestato più volte anche per violenza domestica.
“Un sant’uomo” pensò sarcasticamente Damien, sapendo che Atkinson sarebbe rimasto in cella giusto il tempo di una sigaretta.
I poliziotti onesti come lui non erano pochi, ma il clima nel quale si viveva, le minacce e l’assenza di istituzioni, il più delle volte inefficienti o corrotte, resero il loro lavoro pressoché inutile, quasi di rappresentanza.
Le macchinazioni del crimine erano numerose, ma quella più terribile era nell’instillare la convinzione che non ci fosse più nulla da fare, se non ammorbarsi nell’attesa di un trasferimento o della pensione.
 Un tempo, Damien era convinto che esistessero due categorie di persone: quelle brave, sulle quali si poteva contare, e i disonesti, dai quali non ci si poteva aspettare nulla di buono. Non aveva mai creduto alla redenzione, ma i suoi ventotto anni di servizio in quella cittadina (di cui sedici da sceriffo) gli avvelenarono ancora di più l’anima.
Capii che in nessuno si poteva riporre speranza: non nei magistrati, troppo esigenti e burocrati; non negli  spacciatori, ladri o papponi che in passato tentò inutilmente di redimere; non nella gente per bene, pronta a scagliarsi contro i rappresentanti della legge, accusandoli di fare male il proprio lavoro, a infervorarsi per una multa, per poi zittire di fronte alle minacce di un malvivente. Sapeva di non poter riporre nemmeno fiducia nella brava gente dei quartieri poveri di Oldfield: troppo abituata a zittire, coprire le fecce umane che appestavano le strade, a camminare a testa bassa, vivere nella paura.
 Forse non poteva riporre speranza nemmeno in se stesso, per la sua mancanza di coraggio, che lo bloccava ogni volta che qualche ordine “dall’alto” gli vietava di continuare un’indagine che rischiava di infastidire qualcuno di “importante”, e per quella dannata speranza, divenutagli ormai estranea.
L’unica persona in grado di riaccendere quel lumicino che timido si stagliava nell’oscurità era il suo migliore amico, perennemente rintanato in compagnia della sua saggezza, di una bottiglia, di una foto e di trofei…
Si voltò di lato, guardando annoiato una giovane recluta venirgli velocemente incontro: Arianne Rogers, 24 anni, troppo innocente per i suoi gusti di poliziotto smaliziato e vissuto, ma adeguatamente precisa e affidabile.
« Sceriffo, abbiamo ricevuto una chiamata urgente. Un uomo è stato ritrovato senza vita nella sua abitazione. Due pattuglie sono già sul posto.»
« Forse è il caso che ci rechiamo anche noi a dare un'occhiata.»
« Devo tuttavia avvisarla che…» la ragazza fu stranamente incespicante, come se qualcosa la trattenesse dal completare la frase.
« Cosa? » chiese Mckenzie con impaziente sufficienza.
«La chiamata è partita dalla casa che si trova sulla terza statale, poco distante dall’incrocio che conduce al Sandie’s Bar.» rispose Arianne.
La morsa invase le viscere di Damien in tutta la sua crudeltà: «Oh mio Dio…Bob!».


Ore 9.01

Lo sceriffo Damien Mckenzie scese di corsa dall’autovettura, sbattendone lo sportello. Pregò che la sua morsa si fosse sbagliata, che la scientifica si fosse sbagliata, mentre raccoglieva tracce a destra e a manca a furia di spray, tamponi e luci infrarosse. Pregò che il destino stesso si fosse sbagliato, e che avrebbe corretto il suo errore. Ma la realtà esige di essere accettata, senza compromessi o mezze misure. Il cadavere di Bob era stato già trasportato all’obitorio del Saint Joseph Moscati’s Hospital, lì avrebbero condotto l’autopsia. Damien oltrepassò i nastri gialli tempestati di “do not cross”, ed entrò nella casa del suo migliore amico, dove vi aveva condiviso momenti straordinari, e saperla ora intrisa di morte e di cadavere in putrefazione lo addolorò oltre ogni misura.
Per un tempo che sembrò eterno, Mckenzie restò muto, intrappolato in un indefinito e silenzioso  turbinio di ricordi che riguardavano lui e Bob. Osservò nel vuoto di quella casa dove vi aveva condiviso gioie, amarezze, discorsi di ogni tipo.
Non percepì nulla delle voci, degli ordini impartiti, dei flash che fissarono le immagini di quella tragedia, del brulichio di persone che intorno a lui si scambiarono informazioni: per lui, il mondo esterno era un subbuglio di rumori di fondo rispetto al caotico andirivieni dei suoi pensieri.
Diverse ore dopo, durante le quali restò zitto e fermo nella sola compagnia del suo shock, fu gradualmente richiamato alla realtà dalla flebile voce dell’agente Rogers, che lo invitò a seguirlo nella sala dove era stato trovato il corpo senza vita di Bob.
« Cristo!» esclamò Damien nel vedere schizzi di sangue che imbrattavano il pavimento, le poltrone e parte della cristalliera, quest’ultima rinvenuta con le ante spalancate e decine di cocci di vetro per terra, oltre a un odore nauseabondo misto a puzza di alcol.
Arianne Rogers, ignorando l’esclamazione del suo superiore, si accinse ad eseguire un primo rapporto:
« La telefonata è giunta alla centrale alle 8.30, Francis Snyder, gestore del Sandie’s Bar, è stato il primo a scoprire il corpo. E’ alla centrale in questo momento, Keaton e Adams stanno verbalizzando le sue dichiarazioni. Il corpo di Robert Dewey è stato rinvenuto a terra supino, e a poca distanza dal suo braccio destro è stato trovato il suo fucile, un semiautomatico Remington 1100, che la scientifica sta analizzando in questo momento. Per quanto riguarda la credenza della cristalliera, trovata spalancata e con i bicchieri a terra…»
«… E’ lì che Bob aveva il suo fucile.» interruppe Damien con un filo di voce. « Chi ha usato l’arma sapeva che era lì, e ha spalancato la credenza a gran velocità, non curandosi di scaraventare bicchieri e bottiglie a terra mentre l’afferrava e la tirava fuori.».
« Sono state trovate delle impronte di scarpa non appartenenti alla nostra vittima, pertanto pensiamo che Dewey non fosse solo la sera in cui è morto.».
« Continuate a cercare tracce, indizi, tutto quello che ci occorre per venire a capo di questa tragedia» ordinò mentre osservava i due bicchieri di Rhum poggiati sul tavolino adiacente alle due poltrone.
No, Bob non era solo. Damien lo sapeva, lo sentiva nell’aria. E nelle sue viscere.

 


Ore 12,00

Kate temette che non sarebbero bastate tonnellate di fazzoletti per placare il pianto irrefrenabile di Martha, che a tratti lo interruppe per sedersi al tavolo della cucina, ove restò in silenzio, con la testa fra le mani. Non c'era stato bisogno di apprendere la notizia in radio o in TV: la morte di Bob era sulla bocca di tutto quel maledetto quartiere.  Le quattro prostitute furono tutte turbate da quella tragedia, si sentirono sempre meno al sicuro, come se qualcosa di ignoto e minaccioso avesse iniziato a far terra bruciata intorno a loro, per poi distruggerle per ultime. Nonostante il profondo spavento che imbrigliò i loro animi, nessuna seppe spiegare la spropositata reazione di Martha: il suo non sembrava un pianto dettato dalla paura, ma dal dolore, sembrava infatti una vedova in lutto.
« Su, Martha, calmati... Vedrai che non ci succederà niente...» sussurrò Kate carezzandole una spalla, incredula alle sue stesse parole.
La ragazza in lacrime sembrò non udire quelle parole. Piangeva in silenzio, sommessamente. Quando, dopo alcuni secondi, articolò una frase, le sue compagne aguzzarono le orecchie.
« Che stai dicendo? » domandò Laura, chinandosi anch'ella verso di lei.
Martha alzò finalmente lo sguardo verso le sue interlocutrici, e ripeté le sue parole: « Gli ricordavo sua figlia...».
« Di chi stai parlando?» rincalzò Andrea.
«...Bob.».
Kate fece fatica a celare la sua perplessità: « Ora che ricordo...era un tuo cliente abituale.»
Un mesto sorriso si affacciò sulle labbra di Martha: « Non mi ha mai toccata.»
In quelle quattro umili pareti di quella cucina fece capolino un eco di stupore.
« E' così » continuò la ragazza, rispondendo all'incredulità delle altre « Mi ha sempre cercata chiedendomi solo di fargli compagnia. Null'altro. Mi invitava a casa sua, mi offriva della cioccolata calda. Trascorrevo il tempo che lui mi pagava seduta a un tavolo o su una poltrona, a parlare! Chiedeva di me, di come mi fossi ritrovata in mezzo alla strada,  mi dava consigli, mi parlava di sua moglie Rachel, deceduta anni fa. Una volta mi disse che avrebbe voluto...»
Scoppiò nuovamente in lacrime, mentre le ragazze si guardarono tra loro, comprendendo finalmente il dolore della loro compagna, colme di una bonaria invidia verso colei che aveva avuto la fortuna di incontrare qualcuno che fosse in grado di vederla come una donna, ma al contempo angosciate perché tale fortuna le era stata strappata da un destino intento ad accanirsi solo sui miserabili.
La vita delle puttane è un emporio sempre aperto, dove ad essere in bella mostra sono sorrisini, risatine frivole, parole oscene e nudità. Per una di loro, scoprire che al mondo vi sono persone non interessate alle mercanzie in esposizione, ma ai retrobottega dell'anima, è paragonabile alla scoperta dell'America o a un nutrimento giunto dopo giorni di digiuno. Si strinsero attorno a Martha, dicendole tacitamente che avrebbero potuto contare l'una sull'altra, incondizionatamente. Alla donna in lacrime, tale gesto sembrò bastare per farla sentire al sicuro. In quella squallida baracca sembrò tornare uno sprazzo di serenità, nonostante l'inferno che imperava fuori e dentro quelle mura. Solo una di loro sembrò intimamente turbata dall'immagine di un cappuccio bianco, sotto il quale si apriva un largo, insanguinato sorriso.

~~Piccolo off topic:
Questo capitolo è dedicato alla mia piccola fan (e amica) Anna The Creepygirl. E' un regalo per il suo compleanno, anche se dato con “leggero” ritardo (ha compiuto gli anni un mese fa...perdona la mia lentezza, Ary!). Il personaggio di Arianne Rogers è ispirato a lei. Non mancheranno altri personaggi che entreranno a far parte della mia fanfiction (Even, tieniti pronta anche tu!). Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, un abbraccio a tutti!
   
 
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