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Autore: Robin Nightingale    21/09/2015    3 recensioni
Piccola raccolta di ricordi.
Kanon di Gemini ricorda vari momenti della sua vita: dall'infanzia, all'adolescenza, alla sua vita al Santuario e, soprattutto, ciò che di più prezioso possiede.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gemini Kanon, Gemini Saga
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dopo l’incidente con mia madre sono scappato via.
Mi sono chiuso nella mia stanza, con ancora la paura addosso e l’immagine dei suoi occhi che mi guardavano con odio.
Temevo che mi seguisse per finire quello che aveva appena iniziato, ma tu eri con lei e potevo ritenermi al sicuro.
Mi sono lasciato cadere ai piedi della libreria, ormai sollevato, e lì sono rimasto per un bel quarto d’ora.
Ero rannicchiato su me stesso, con le ginocchia in gola, mentre guardavo un punto indefinito del pavimento. La gola mi faceva male, aveva stretto così forte che temevo di dover convivere per sempre con quel dolore.
Subito dopo sono scoppiato a piangere, senza che potessi impedirlo. Asciugavo le lacrime e sopprimevo i singhiozzi, ma non riuscivo più a trattenermi.
Me lo sono meritato, pensavo, mentre affondavo il viso tra le braccia e mi lasciavo andare ad un pianto liberatorio.
Mai come in quel momento ho desiderato sprofondare, o sparire dalla faccia della Terra; non sarebbe stata un’idea così cattiva, nessuno mi amava all’interno della nostra famiglia e se io me ne fossi andato, forse, li avrei resi felici.
Avrei sentito la tua mancanza, ma sapevo che saresti andato avanti comunque. Non avevi bisogno di me, avevi già tutto: l’amore di una madre, di un padre, di una nonna; in più, eri il figlio perfetto, ubbidiente, rispettoso…desiderato.
Non erano in programma due gemelli, l’ho sentito con le mie orecchie, ma non ti ho mai detto quanto mi avesse ferito udire quelle parole.
Ho fatto finta di nulla, cercando di rimuovere quelle parole cariche di disprezzo, ma più i giorni passavano, più mi era chiaro il perché io non ricevessi mai una carezza, un bacio, o parole di elogio.
Solo sguardi freddi, mai un complimento, mai un gesto carino. Solo indifferenza per un bambino non voluto e oscurato dalla luce del proprio gemello.
Quel giorno, sei entrato in camera come una furia; hai sbattuto la porta con rabbia, mentre io mi giravo dalla parte opposta, per evitare che tu vedessi i miei occhi gonfi.
Eri l’ultima persona che volevo vedere in quel momento, anche se in realtà, non volevo vedere proprio nessuno. Volevo rimanere solo con il mio dolore, che nessuno avrebbe mai compreso, persino tu.

<< Quante volte ti ho detto che non ti devi avvicinare a lei?! Quante volte te l’ho detto?! Solo io posso avvicinarmi, non lo capisci? >>

Hai cominciato ad urlare, accusandomi di aver disubbidito sia a te che ai nostri familiari. Non ti sei avvicinato a me come mi aspettavo, non mi hai preso sottobraccio nel tentativo di consolarmi e questo mi aveva ferito.
Io capivo, capivo eccome, ma tu?
Ti sei mai chiesto come mi sono sentito in quel momento? No.
Mia madre sarebbe dovuta essere la persona che più mi amava al mondo, la persona su cui avrei potuto sempre contare e che mi avrebbe sempre protetto, e invece ha tentato di uccidermi.
Non era colpa sua, ma ero comunque terrorizzato e non riuscivo a crederci: mi tremavano ancora le gambe a pensarci.
Credevi davvero che la tua ramanzina da fratello maggiore preoccupato ed apprensivo, in quel momento, mi servisse?
Continuavi a rimproverarmi facendomi sentire uno stupido, mentre io rimanevo in silenzio, lasciando che le tue parole mi scivolassero addosso.
 Avevo solo bisogno di conforto, di un abbraccio magari, ma eri troppo preso dal tuo ruolo di figlio perfetto per domandarmi cosa mi stesse passando per la testa, il tuo status di fratello maggiore era fin troppo offeso per accorgersene.

Come stai?”

Sarebbe stato sufficiente.
Avrei apprezzato molto di più il tuo silenzio; volevo che ti sedessi accanto a me senza parlare, e magari ti avrei anche mostrato le mie lacrime.
Proprio per questo continuavi a strattonarmi nel tentativo di farmi reagire, non amavi parlare con una massa di capelli senza espressione, testardo com’eri, il mio silenzio non ti era sufficiente come risposta, così mi hai afferrato il braccio, mi hai tirato con forza e i nostri sguardi si incrociarono.
Nel vedere i miei occhi, ormai lucidi e gonfi, ti sei ammutolito e solo in quel momento, probabilmente, hai capito di aver sbagliato.
Hai abbassato lo sguardo mortificato, mordendoti le labbra; io ero ancora accovacciato a terra, ma non avevo alcuna voglia di scusarti.

<< Mostrami la mano >>

Hai detto infine, con tono un po’ più rilassato.
Non capendo il motivo della tua richiesta, osservai le mie mani e solo in quel momento mi ricordai di essere caduto sopra i cocci di una bottiglia di whisky. La mia mano continuava a sanguinare, mi ero persino sporcato il viso con il mio stesso sangue, ma che importanza poteva avere?
Ho cercato di nasconderla, mostrando indifferenza, ma non me ne hai dato il tempo. Mi hai afferrato la mano, cercando di capire quanto fossero gravi o profondi i tagli, io però ero fin troppo arrabbiato per lasciarti avvicinare. Cercavo di allontanarti con forza, fin quando non ho perso la pazienza e ti ho spinto via.
Sei caduto e hai sbattuto la testa sui piedi del letto; ti sei messo a sedere sul pavimento, portando entrambe le mani sul capo, mentre ti agitavi dolorante.
Come ti ha fatto sentire il mio rifiuto? Non bene, ne sono certo. Avrei voluto chiederti come ci si sentiva ad essere come me, ma sono rimasto in silenzio.
Ero arrabbiato, ma non volevo farti del male; subito dopo, infatti, mi sono sentito in colpa e mi sono avvicinato.
Mi guardavi furioso e in un primo momento, non mi hai neanche permesso di toccarti; poi, sbollita la rabbia da entrambe le parti, ci siamo riavvicinati in silenzio.
Prima che potessi anche solo dire qualcosa, sei uscito dalla stanza senza dire nulla, pensavo non volessi parlarmi, motivo per cui non ti ho fermato. Sei rientrato due minuti dopo, con in mano un paio di bende .
Mi hai disinfettato le ferite e fasciato la mano come meglio potevi, senza mai guardarmi negli occhi e questo mi feriva ancor di più.

<< Smettila di piangere, non è colpa tua >>

La tua voce era fredda e avevo l’impressione che volessi andartene al più presto via da me, così ti accontentati: senza permetterti di finire la medicazione, mi alzai da terra, allontanandomi in modo brusco.
Non avevo voglia di litigare con te, non ne avevo bisogno, ma, probabilmente, non capivi nemmeno questo.

<< Fermo! >>

La tua voce mi fece sobbalzare, ma non perché non mi aspettassi il tuo richiamo, anzi. Fu il tono a farmi storcere il naso: era così rauco e profondo, nulla a che vedere con la tua voce ancora infantile.
Sembrava quella di un adulto, ma quando mi girai vi eri solo tu, ancora inginocchiato per terra.
Di sicuro, ero ancora sotto shock e la mia mente cominciava a farmi brutti scherzi, ma sapevo di non essermi sbagliato.
Ad un certo punto, mentre mi davi ancora le spalle, hai cominciato ad ansimare, portandoti entrambe le mani sulle orecchie. Scuotevi la testa a destra e a sinistra disperato, come se fossi in preda ad un forte dolore.
Qualcosa non andava, così mi avvicinai preoccupato.

<< Kanon.. >>

La tua voce era tornata quella di sempre, ma così flebile, che facevo fatica a sentirla. Ho cercato di toccarti la spalla e avvicinarmi, ma mi hai respinto, cercando persino di allontanarti.

<< Vattene, ti prego >>

La tua richiesta suonava come una disperata preghiera, ma nonostante tutto non mi sono mosso. Come potevo lasciarti in quelle condizioni, senza neanche sapere cosa ti stesse succedendo?
Non potevo.
Mi sono avvicinato di nuovo e ti ho obbligato a guardarmi negli occhi; sudavi freddo e il tuo respiro diventava sempre più irregolare; mi hai testo la mano spaventato e io l’ho stretta prontamente, poi il tuo occhio sinistro ha cominciato a tremare in preda ad un tic nervoso e mi si gelò il sangue.
Erano gli stessi tic di nostra madre, li avevo ancora impressi nella mente, ed istintivamente ritirai la mano, lasciandomi vincere dalla paura.

<< Non abbandonarmi >>

Mi pregavi tra le lacrime; io non sapevo cosa fare, terrorizzato com’ero.
Ho provato ad allontanarmi da te, ma fu soltanto un altro grave errore.

<< Ti ho detto di fermarti! >>

La voce dura e rauca che avevo sentito era la tua; eri tu che parlavi con quel tono minaccioso e mi guardavi in altrettanto modo.
Da quel momento la tua voce si alternava: da buona, dolce e leggera, passava ad un tono forte, deciso e maligno. Persino i tuoi pensieri si alternavano, prima mi chiedevi disperatamente di scappare, poi mi minacciavi di non muovere un passo.
Tu eri come lei, ma non era possibile, non volevo crederci. Tu eri l’unica persona al mondo a volermi bene, non potevi essere come tutti gli altri.
Terrorizzato, mi allontanavo da te, balbettando e inciampando sui miei stessi giocattoli. Ho cercato di scappar via, ma ancor prima che potessi aprire la porta, mi hai strattonato via, buttandomi per terra.
I tuoi tic aumentavano e i tuoi occhi stavano assumendo una strana sfumatura rossa; ti sei messo cavalcioni su di me, bloccandomi il respiro con entrambe le mani.
In quel momento, cominciai a piangere, ma tu non avevi che uno sguardo assassino dipinto in volto, fin troppo crudele per provare compassione per il tuo stesso gemello.

<< Non puoi abbandonarmi, ti avevo avvertito >>

Sibilavi tra i denti, stringendo ancor di più; poi, non so perché, hai allentato la presa, scuotendo la testa sia da una parte che dall'altra.

<< Lascialo andare, lui non ti ha fatto nulla! >>

Stavi lottando contro te stesso: ogni volta che scuotevi il capo cambiavi personalità, così decisi di approfittarne e non appena la tua parte buona riemerse, ti ho spinto via, facendoti sbattere la testa nuovamente.
Sarei dovuto scappare, ma non potevo lasciarti in quello stato e pur di farti tornare normale, avrei fatto qualsiasi cosa, ti avrei persino picchiato.
Fortunatamente, dopo il colpo in testa, la tua parte malvagia sembrava essersi sopita; respiravi normalmente, i tuoi occhi avevano ripreso il loro colore naturale…eri solo un po’ spaesato.
Ti guardavi attorno massaggiandoti la testa, poi ti sei girato perplesso verso di me.
<< Perché mi hai spinto? Voglio solo aiutarti, ma che ti succede? >>
La tua domanda mi lasciò di stucco.
Apparentemente, sembrava non ricordassi nulla di quanto appena accaduto e questo mi lasciò basito.
Non sapevo cosa dire, se era giusto dirti che avevi appena tentato di uccidermi anche tu.
Sono rimasto in silenzio a guardarti, mentre ti riprendevi lentamente dalla botta; ancora non riuscivo a credere che anche tu potessi fare una cosa del genere.
Ripensandoci, però, tu eri come lei e questo, forse, ti rendeva non colpevole. Qualunque fosse la verità, e qualunque cosa ti fosse successo, io sarei rimasto ugualmente al tuo fianco.
Al solo pensiero di rivederti soffrire, ho ricominciato a piangere e senza alcuna vergogna.

<< Non piangere, non è colpa tua >>

Lo avevi già detto, ma questa volta con un sorriso fiducioso.
Ti ho abbracciato, gettandoti letteralmente le braccia al collo, lasciandoti senza parole.

<< Andrà tutto bene >>

Ti ho sussurrato nell'orecchio.
I ruoli si erano invertiti ed era buffo a pensarci: tra noi due quello emarginato, solo e disprezzato ero io; ero io quello che aveva bisogno di essere costantemente difeso e protetto, ma mi sbagliavo: tu avevi molto più bisogno di aiuto di quanto ne avessi io.


Note
Finalmente sono tornata miei cari lettori.
Scusate il leggero ritardo, ma tra il capitolo che non mi convinceva fino in fondo e il computer che a i capricci, non sono riuscita a postare prima. Inatti, mi scuso già da ora se il capitolo presenterà qualche errore, ma è stato scritto e trasportato in ben tre computer diversi e ho dovuto fare piuttosto in fretta.
Come già detto in precedenza, i capitoli con il numero stanno ad indicare la ripresa di un tema, o un vero e proprio seguito di un capitolo precedente, come in questo caso.
Prima di scrivere questa raccolta ho cercato varie informazioni e, tra le miei ricerche, i sintomi che presenta Saga non sono gli stessi della schizofreniza, come penso si evinca anche da questo capitolo. All'inizio ero indecisa tra il disturbo bipolare e il disturbo dissociativo della personalità; quest'ultimo è ciò che più rappresenta la malattia di Saga, come mi è anche stato suggerito da AryAry, che gentilmente recensisce.
Tra l'altro, mi serei potuta evitare ricerche su ricerche, perché mi bastava andare sulla pagina Wikipedia del nostro caro gemello, dove vi è scritto persino in prima pagina che soffre di disturbo dissociativo della personalità, ma non importa: imparare cose nuove, non è cosa brutta.
So che il titolo può essere fuorviante, ma non sta ad indicare la sua malattia.
Dopo queste, sempre più lunghe, note, spero di non essermi dimenticata nulla e che, come sempre, il capitolo vi piaccia.
Un bacio a tutti.
  
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