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Autore: Alessia_Way    22/09/2015    0 recensioni
"Come era possibile? Come poteva essere minimamente possibile che lui fosse attratto da quell’uomo? Attratto così tanto da esserne addirittura innamorato… Eppure da tre anni il rito era sempre stato quello, e lo faceva perché il suo carattere capriccioso voleva quel gesto, perché ne era davvero attratto. Ma da quando per il Conte la parola “attrazione” significasse “essere innamorato”? Lui non poteva innamorarsi, non di quell’uomo. Ci stava davvero cadendo, come tutti speravano che succedesse, e di certo non con lui. Eppure era proprio con lui che tutto stava accadendo. E voleva lasciarsi andare a quell’attrazione che stava attraversando il suo corpo e raggiungeva le sue labbra sottili, bramose delle altre. Lo desiderava, desiderava un contatto maggiore del semplice rito alla quale si erano promessi ogni qualvolta che lui riusciva nel suo ordine. E se… Quello che voleva sarebbe diventato un vero e proprio ordine? I suoi ordini facevano solamente muovere l’altro ai propri desideri… Quindi avrebbe potuto piegarlo al suo potere. Ma non sarebbe mai stato lo stesso se solo…" -Estratto
Genere: Angst, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Lindsey Ann Ballato, Mikey Way, Nuovo personaggio | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, Cross-over, Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
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WriterCornerBene bene, credo di avervi fatto aspettare quasi un mese ma tra l'inizio della scuola, i compiti e altro, non ho avuto modo di aggiornare prima di adesso. Ma sono qui, con il capitolo pronto e per voi e non intendo perdermi in chiacchere. Ci tenevo solo a ringraziare coloro che hanno letto il capitolo e hanno aggiunto tra i preferiti/tra le seguite questa storia. Speravo in qualche recensione, giusto per sapere che cosa ne pensate ma... Aspetterò il tempo che serve, anzi vi ringrazio davvero di aver letto. 
Bando alle ciance e buona lettura.
Alla prossima e obviously...
Arigatou.

執事赤 – Akashitsuji – The Red Butler

When I desire to be yours…

15 Marzo 1888

 

Quel pomeriggio, caratterizzato come sempre da nuvole e da pioggia leggera, il Conte Frank era chino sui propri documenti, nel suo cupo studio, da solo, a riflettere e studiare. Ma a riflettere, soprattutto.

In quei ultimi mesi, si era dato molto da fare con il suo obiettivo, tutto sembrava filare liscio come lui stesso aveva sempre sperato. Era riuscito ad incastrare molte più persone di quanto non si aspettasse di poter fare, negli ultimi tre mesi, dopo la morte del signor Bonelli, che aveva lanciato scalpore per tutta Londra e dintorni. Eppure nessuno avrebbe mai scovato il vero colpevole, neanche Scotland Yard. Fortuna che il suo diavolo di Maggiordomo conteneva una lista di alibi perfetti nella sua mente, una lista chiara, senza un minimo dubbio o errore. A lui non era mai permesso sbagliare, soprattutto negli ordini che gli venivano dati dal proprio padrone. Era un perfetto bugiardo, ma solo lui e tutta la magione lo sapevano. Nessun altro all’infuori di quelle mura, dove tutto cominciava e tutto finiva. E il fare silenzioso del Maggiordomo, era assolutamente un vantaggio enorme.

Già, silenzioso… Silenzioso come i sguardi che lanciava, come quei sorrisi maliziosi, quelle carezze sfuggenti sul viso, quei baci. Tutto il suo modo di fare, con il Conte, era dannatamente silenzioso, ma solo all’esterno. Per una volta nella sua vita, desiderava che quei gesti parlassero, realmente, molto di più di quanto lui riuscisse a pensare. Desiderava avere risposte, molte. Per il Conte, tutto ciò che faceva pareva parlare ai suoi occhi, quando invece c’era solo silenzio. Ogni atto parlava ma non abbastanza da risultare soddisfacente, non abbastanza per lui che era arrivato a sognare tutto questo, a sognare certe situazioni, di immaginare certe risposte, le risposte che quasi desiderava ricevere. E non erano semplici risposte.

No, non lo erano. Voleva di più, molto più di quanto non ricevesse già, perché insomma… Ciò che riceveva era esclusivamente riservato a lui. E a nessuno era permesso ogni singolo atto all’infuori del suo padrone. E ciò gli piaceva, gli piaceva così tanto avere il potere su quell’uomo così misterioso quanto intrigante e eccitante. E si, agli occhi del Conte Frank, il suo Maggiordomo era la creatura più eccitante su cui avessero mai prestato attenzione, con i suoi capelli lunghi, i suoi occhi ardenti, il suo sorriso malizioso, il suo corpo alto e snello, perfetto. Lui era perfetto, non esisteva centimetro di quell’uomo che fosse stato messo a caso, tutto combaciava, tutto stava insieme così bene da creare una sorta di armonia perfetta anche nei movimenti, così lenti, morbidi, a volte sfuggenti, a volte ipnotici. E quel sorriso, quel sorriso, che rivolgeva sempre e solo al suo padrone, dove scopriva una piccola parte dei denti, piccoli e perfettamente bianchi, tirando un angolo delle labbra di lato, come se stesse sorridendo ad una preda meravigliosa, succulenta, e ne stesse pregustando il sapore. E quei occhi, quei occhi che lo accompagnavano, come se lo stessero catturando in un rapido secondo, ma abbastanza lungo da togliergli il fiato e fargli girare la testa, da fargli venire la bocca secca e a volte doveva deglutire così tante volte per riportare la salivazione in uno stato normale.

Era così che si sentiva il Conte sotto il controllo del suo Maggiordomo. Nonostante fosse quest’ultimo a ricevere degli ordini, era il primo a dettarne. Ordini silenziosi, proprio come lui.
Frank, in momenti come quelli, era persino capace di eccitarsi, chiuso nel suo ufficio, assorto nei pensieri che si dirigevano a quell’uomo, che lo faceva arrossire terribilmente e lo portava a sentire le mani doloranti, e non solo.

Si sforzò così tanto di mantenere le mani su quel tavolo, a stringere la sua penna, sporcando però di inchiostro il foglio sul quale stava scrivendo e perdendo il controllo. Si ritrovò a poggiarsi sullo schienale della sua poltrona rigida e a serrare gli occhi, respirando profondamente per mantenere il fiato normale, ma era già corto. E non si era neanche accorto che una mano era andata a stringere il cavallo dei suoi pantaloni, già doloroso per via di quei pensieri malsani su quell’uomo.

Frank, calmati. Non pensarlo”, cercò di ripetersi mentalmente, ma la sua mano aveva scelto una strada diversa, ovvero quella di sbottonare il primo bottone dei pantaloni lunghi che il ragazzo portava quel pomeriggio per raggiungere i propri boxer e lasciarsi andare ad un lieve massaggio, che non riuscì a saziarlo per niente. Ma l’eccitazione stava diventando insopportabile, non riusciva a rimanere inerme a quei brividi, e si lasciò andare, lasciò che la mente andasse alla ricerca di motivi, alla ricerca del motivo per cui si era ridotto in quello stato… E lasciò che la mano stringesse più forte la presa.

-Il calore delle sue mani nude e fredde sulle mie braccia, coperte dal tessuto leggero della camicia bianca, il suo respiro freddo come il ghiaccio che si abbatteva sulla mia pelle…-

E quella mano sbottonò anche il secondo bottone dei pantaloni scuri, seguito dalla zip più lunga di quanto si aspettasse.

-Ed eccolo quello sguardo, che era capace di farmi vibrare. E lo feci, lui se ne accorse e sorrise, tese quelle labbra che tante volte avevo baciato e che sognavo di conoscere più a fondo, di averle a contatto con le mie, con me…-

Agguantò l’elastico dei boxer bianchi e lo abbassò, quel tanto da scoprire la sua erezione, pulsante e dolorante, anche se non del tutto eretta, ma abbastanza da farlo soffrire e da richiedere un’immediata attenzione.

-In un lampo mi aveva già tolto la camicia, e ne fui felice perché la mia pelle entrò in contatto con l’aria della stanza, che risultò più calda di quanto pensassi, eppure le sue mani dicevano il contrario. Presero a carezzarmi le braccia, le spalle e il collo, avvolgendolo con una tale gentilezza da farmi chiudere gli occhi e respirare più a fondo…-

Si era completamente abbandonato alla poltrona rivestita in tessuto rosso, tenendo la mano ben salda sul proprio membro, che iniziava ad essere stimolato, con movimenti molto lenti del polso, mentre nel frattempo le labbra di Frank si schiusero per lasciarsi scappare dei ansimi bassi, man mano sempre più vittima di quei pensieri e di quel piacere che  puntava a raggiungere.

-Le sue labbra sfiorarono le mie, tremai al contatto per quanto lo desideravo, infatti mi sporsi quel poco per raggiungerle e invece che trovare il nulla, le catturai lentamente con le mie, dando vita ad un bacio profondo, passionale, senza alcuna fretta. Dio, quanto l’avevo desiderato…-

Si morse le labbra, come per cercare di sostituire quella sensazione di avere davvero quelle labbra a contatto con le proprie, ma la frustrazione di non averle davvero si mostrò sotto forma di mugolio roco che attraversò le labbra arrossate del ragazzo, che continuava a non mantenere il controllo sulla propria mano; la lasciò libera di carezzare tutta la lunghezza, quasi impaziente.

-Durante quel bacio non mi permise di toccarlo, voleva che fosse lui a farlo e me lo fece capire quando strinse i miei polsi per qualche secondo prima di riprendere quella tortura: lungo la schiena, le spalle, il petto, i miei capezzoli, l’addome. Appena arrivò ai fianchi mi costrinse ad avvicinarmi di più a lui e lì sentì che anche i suoi pantaloni perfettamente neri tiravano quanto i miei. Mi prudevano le mani, desideravo spogliarlo, toccarlo, poter saziare il suo bisogno, ardente quanto il mio…-

Nella sua mente, non era neanche arrivato a toccarlo nella sua intimità ma la mano capì di dover iniziare un’andatura più sostenuta, e il respiro andò a spezzarsi quasi del tutto, lasciando spazio ad ansimi più sonori e la schiena iniziò ad inarcarsi, giusto  quel po’ per spingere il bacino sulla poltrona e permettere alla mano di muoversi più facilmente.
-Mi spinsi più al suo corpo quando le sue mani, dai miei fianchi, scesero sul mio sedere per stringerlo fra le dita con decisione e per spingermi ancora di più contro il suo bacino. Mi feci scappare un sonoro ansimo di sorpresa contro le sue labbra e lo sentii persino ridacchiare. Arrossii visibilmente, anzi andai a fuoco, come i suoi occhi che in quel momento erano chiusi e come i suoi baci che aveva iniziato a lasciare lungo la mia mandibola e giù per il collo pallido. E lentamente andai a fuoco anch’io, e diamine non aveva neanche iniziato a toccarmi…-

Poteva realmente rischiare di perdere la testa in quel momento, mentre la sua mano si muoveva in modo più veloce e più deciso, e sentiva come l’eccitazione man mano cresceva e lo invadeva, lo faceva persino sudare e vibrare sulla poltrona. Tutto quello che stava provando era illegale, ma era così dannatamente piacevole che non voleva arrendersi così presto. Non ancora.

-Lo chiamai, pronunciai il suo nome con un tono di voce che non mi si addiceva per niente. Non era autoritario, capriccioso o esasperato. No. Era quasi provocatorio, voglioso, disperato. Volevo di più, molto di più, ma lui era così lento che la testa mi faceva male per quanto girava. Lo sentii ridacchiare nuovamente sulla mia pelle e rabbrividii al suo respiro contro il mio collo. Desideravo toccarlo più quanto avessi mai pensato di volere. Ne avevo bisogno, avevo bisogno di lui, di tutto…-

Quel bisogno lo fece gemere, letteralmente, e si maledisse quasi per averlo fatto così forte. Strinse più forte la propria erezione e dovette reggersi al bracciolo della poltrona, serrando ancora di più gli occhi e dovette ricorrere a non sa quale forza per potersi contenere dal lanciare un gemito più forte.

Come diamine si era ridotto. Non poteva essere caduto in un peccato simile ancora una volta, verso… il proprio Maggiordomo. Non si stava masturbando pensando a quell’uomo. Non era ricaduto in uno di quei sogni che spesso la notte gli capitava di vivere. Non poteva essere. Eppure era così vicino all’apice, che credette di esplodere ancor prima di rendersene conto. Ne era certo  quello che stava tentando di raggiungere quando…

Toc. Toc. Toc.

Imprecò così brutalmente che dovette mordersi la lingua. Chi poteva essere in quel momento? Non sapevano che stava lavorando e che non voleva essere disturbato fino alle cinque per l’ora del thè, o per questioni estremamente importanti? E soprattutto… Che ora erano?

“Sì?”, pronunciò Frank, mentre si ripuliva la mano e il membro dal liquido che aveva rilasciato il suo corpo, continuando a maledire chiunque l’avesse disturbato in un momento del genere. Velocemente si chiuse i pantaloni e si sforzò di riprendere a parlare in modo del tutto normale.

“Bocchan? Le ho portato il thè!”.

Eccolo. Con il suo tempismo perfetto e in orario. Diamine, era passata un ora da quando aveva iniziato a lasciarsi andare ad un gesto così intimo e segreto? Non avrebbe neanche dovuto pensare a quell’uomo, magari non si sarebbe trovato in quella situazione imbarazzante e soprattutto non sarebbe arrivato a rivedere nuovamente e così velocemente il suo Maggiordomo. Se solo avesse saputo cosa era andato incontro…

Troppo imbarazzato dalla situazione nel quale si era cacciato, respirò a fondo, senza degnare di una risposta il suo Maggiordomo, che nel frattempo attendeva confuso dietro la porta della stanza. Il suo padrone continuava a non rispondere, così si sistemò la giacca e si decise ad aprire la porta, trovandolo seduto sulla poltrona dietro una grossa scrivania in mogano, con rivestimenti in rosso sangue, che osservava curioso e sorpreso la porta.

“Tutto bene, signorino?”. Ed eccolo ancora una volta, con il suo impeccabile tempismo. Frank, dal canto suo, cercò di non arrossire mentre con un fazzoletto tirato fuori dal taschino sul petto della giacca scura, si ripuliva le mani sporche dei suoi stessi umori. Un’altra cosa che era meglio tenere lontana dal sapere dell’uomo che si trovava davanti a sé.
“Si, Geràrd, ero solo molto concentrato a scrivere”, ma si rese conto che il foglio che si trovava davanti a lui, adagiato su altri fogli sulla scrivania, era quasi vuoto, con qualche macchia di inchiostro che era sfuggita di troppo dalla sua penna. Velocemente, lo accartocciò con una mano e rivolse uno sguardo torvo, come se il Maggiordomo avesse una colpa che lui stesso non sapeva di avere. “E mi hai distratto”, lo rimproverò quindi, cercando di non avvampare per il lieve doppio senso che affiorava dalla sua frase. Imprecò così fra sé, gettando la pergamena nell’apposito cestino accanto la sua scrivania e sospirò mentre ritornava a pulirsi le mani. Nel frattempo, l’uomo dai capelli scarlatti si ritrovò con un sorrisetto sulle labbra, come se avesse colto il fatto, e si preoccupò però di servire il thè con cura maniacale, ripetendo il rituale che eseguiva tutte le volte per filtrare il liquido scuro e puro, per renderlo chiaro e senza alcuna imperfezione. Tutto questo e altro per il proprio padrone.

“Bocchan, vi ho portato il quotidiano”, suonò quasi come un avvertimento, e Frank lasciò perdere il fazzoletto bianco di tessuto che aveva fra le mani per puntare immediatamente lo sguardo sul quotidiano ripiegato su un vassoio d’argento vicino al thè che il suo Maggiordomo gli stava servendo. Lasciò perdere per un attimo l tazza pregiata di liquido fumante quando i suoi occhi scorsero la foto in bianco e nero stampata in prima pagina. Sangue.

Il ritorno di Jeff The Killer.

Il solo titolo fece congelare il Conte sulla sedia, scordandosi di tutto il malfatto commesso precedentemente e dell’imbarazzo che tentava di prendere il sopravvento. Ed eccolo quel lato del Conte a pochi conosciuto ma abbastanza terrificante e serio da risultare incredibile. Ed oltre ad essere terrificante, risultava un tantino eccitante il modo in cui quel corpo, quell’essere si apprestava a diventare improvvisamente serio nel suo compito. Il Maggiordomo notò quel cambiamento e si trattenne dal liberare sul sorriso che lo avrebbe smascherato, e in tutta verità, quello non era il momento di lasciarsi andare a tali debolezze.

“A quanto pare, quel bastardo è tornato a seminare il panico a Londra, portando con se più morti e sangue di un semplice assassino assetato di sangue”, mormorò il Conte, rileggendo fra le righe del quotidiano ciò che i giornalisti avevano raccolto in un semplice foglio. Ma sapeva che c’era di più, e che avrebbe dovuto, ovviamente, controllare lui stesso con i propri occhi. Un serial killer che continuava a creare disastri in una città che aveva solo bisogno di un periodo più lungo di tranquillità. Già da tempo Jeff The Killer, così comunemente chiamato, aveva minacciato Londra, con una serie minima di omicidi di prostitute, limitandosi ad ucciderle con i più banali metodi. Ma dopo diversi mesi, a quanto sembrava, gli omicidi erano aumentati, ed erano stati applicati metodi più precisi che neanche i giornalisti avevano avuto il coraggio di mettere su carta. E se neanche Scotland Yard gliel’avrebbe detto, sarebbe andato personalmente a controllare, e nessuno l’avrebbe fermato, nemmeno il suo più fidato accompagnatore.

“Preparati per domani, Geràrd. Credo che adesso sia troppo tardi per andare a Londra e controllare ciò che Scotland Yard ha scoperto. Sia chiaro, la carrozza domani mattina”, ordinò successivamente il Conte, prendendo finalmente un sorso del proprio thè dalla propria tazzina mentre il suo Maggiordomo si esibiva in un mezzo inchino, che lo portava a poggiare la mano destra sul petto, in altezza del cuore.

“Yes, my lord”, concluse l’uomo scarlatto, con un sorriso affabile e compiaciuto mentre il suo padrone sorrideva, deciso sempre di più nel suo obbiettivo, che pregustava già la sua vittoria, sotto una maschera di un semplice ragazzino.

 



 
La sera, dopo cena, il Conte si rinchiuse nel suo studio, per riflettere su come avrebbe agito il giorno successivo, come avrebbe potuto andare alla ricerca del bastardo che stava uccidendo la sua amata città. E doveva necessariamente essere fermato il più presto possibile.

Studiò quindi con cura i posti da visitare, dove l’ultima volta il serial killer aveva mosso ancora terrore, e dove ovviamente si sarebbe trovata Scotland Yard, certo che avrebbe rivisto molto presto l’ispettore con il proprio direttore sul luogo del delitto. Rammentò fra sé che lui non era un grande amante del sangue –fatta eccezione del colore- e che quindi sarebbe dovuto stare attento a controllare le proprie emozioni per non mostrarsi debole agli occhi di nessuno. Solo il suo Maggiordomo sapeva di tale debolezza, che lo portava spesso a prese in giro piuttosto irritanti. Lo stuzzicava parecchio su quel fronte, ma lui ammetteva sempre di odiare l’idea di vedere tanto sangue in un solo posto. Solo il colore gli piaceva –ovviamente-, ma la presenza di sangue vero lo disgustava e non poco.

Passò svariate ore chiuso nel suo studio e chino sulla propria scrivania, quando nuovamente, prima dell’ora di andare a dormire, il Maggiordomo entrò con il suo famoso thè, l’ultimo della giornata, ottimo per conciliare il sonno, che sicuramente sarebbe stato agitato per il suo padrone, per via degli impegni e dell’incarico che lo aspettava il mattino dopo.
“Bocchan, vi ho portato il thè, come volevate”, si annunciò dall’uscio, con voce morbida e calma, entrando lentamente dentro l’ampia stanza con il proprio piccolo carrello dove poggiava la teiera di porcellana pregiata, assieme alla tazza, con rispettivo piatto e cucchiaino da thè.

“Grazie, Geràrd”, poche volte lo ringraziava in quelle situazioni, ma era tanto stanco persino di badare a quelle poche formalità. Il rapporto fra i due permetteva di poter abbandonare la formalità, che reggevano durante il giorno, a quell’ora tarda, dove tutto appariva tranquillo e sereno. Ma l’animo del Conte sembrava agitato, per via di ciò che lo aspettava. Era più che certo di riuscire a scovare il più grande assassino, e ciò lo rendeva quasi nervoso. Ma fortunatamente con lui, c’era il suo amato Maggiordomo, capace di tranquillizzarlo come nessuno era capace di fare. In cuor suo, ringraziò così tante volte il suo servitore da giurare di poter lasciarsi scappare ancora tali ringraziamenti ad alta voce. Si trattenne quindi, prendendo un sorso del proprio thè perfettamente filtrato, abbandonando sulla scrivania il proprio lavoro, concordando con i pensieri dell’altro presente nella stanza che per quel giorno era anche abbastanza.

“Non crede che sia ora di riposare? Avete lavorato troppo”, i pensieri non tardarono a mostrarsi, e il Conte annuì, gustandosi quel dolce thè che lo calmò in pochi attimi, come era abituato a fare nel corpo giovane del ragazzo.

“Avevo giusto finito gli ultimi particolari, adesso vado”, concluse poco dopo, finendo il liquido nella propria tazza prima di alzarsi dalla poltrona per potersi stiracchiare di poco, sentendo il proprio corpo intorpidito e la stanchezza farsi più viva che mai.

Fece per allontanarsi dal proprio Maggiordomo per superarlo così da raggiungere la porta della stanza quando si sentì trattenere dal polso e successivamente dalle spalle, da mani fredde nonostante i numerosi strati di tessuto che lo avvolgevano. Poco dopo, quelle stesse mani gli sfilarono la giacca e alla mente del Conte ritornarono i ricordi del pomeriggio, di quel pomeriggio carico di peccato e vergogna. Cercò di destabilizzarsi quando appunto il Maggiordomo si era premurato di sfilargli la giacca pesante che lui stesso avrebbe lavato.
“Domani mattina vi farò trovare tutto pulito, non si preoccupi”, si scusò quasi, e il Conte dovette guardarlo negli occhi, non riuscendo però a non perdersi in quel piccolo sorriso accompagnato da uno sguardo carico di scuse.

In quel momento gli parve più bello del solito. Un demone della bellezza, illuminato dalla luce fioca che proveniva dalla luna all’esterno e filtrava dalla finestra per illuminare quanto poteva la stanza buia –il Conte lavorava esclusivamente con una lampada sulla scrivania che in quel momento, sul corpo dell’uomo non aveva alcun potere.

“So che lo farai”, concluse velocemente, per non rimanere a fissarlo per troppo tempo prima che lui potesse dar via ad una serie di solite battutine. Ricambiò il sorriso, con uno stanco, avvicinandosi però al corpo dell’altro per averlo più vicino. Venne compreso il suo gesto e si lasciò abbracciare quasi teneramente, ma non distolse lo sguardo dai suoi occhi e dal resto del suo viso che aveva davvero a pochi centimetri dal proprio. Non gli importò di nulla in quel momento, non aveva in testa che un pensiero fisso: quello di baciarlo. E lo fece, non ricevette un rifiuto, ma quel gesto venne ricambiato con un altro altrettanto delicato. Un saluto, un ringraziamento, ecco cosa suggellava.

E senza dire altro, il Conte gli carezzò piano il petto, prima di sciogliere l’abbraccio e di allontanarsi da quel corpo, che aveva fin troppo torturato la sua mente quel giorno.
E ancora una volta sorrise, ma stavolta aveva dimenticato ogni cosa, ogni imbarazzo, rabbia, ansia per l’indomani, e si lasciò avvolgere dalla dolcezza che quel tocco continuava ad infondergli nella mente, fino a farlo addormentare, abbandonandolo nell’ignara difficoltà che lo attendeva.


 


 



Secrets that I have held in my heart
Are harder to hide than I thought
Maybe I just wanna be yours
I wanna be yours, I wanna be yours

   
 
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