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Autore: Sam27    24/09/2015    3 recensioni
Dal testo:
-Pronto?-
-Sorellina?!-
-Fratellone?!-
–Cambierai mai?-
-Dovrei?-
-Sei già arrivata a casa di mamma?-
-Sì-
-Come si sta?-
-Come ad Azkaban, solo che qui i Dissennatori sorridono-
-Attenta a non farti baciare allora-
-
-Mi piaci- sussurra -Da sempre-
-Sei ubriaco, stai delirando-
-Non te l'hanno mai detto che gli ubriachi non mentono mai?-
-Anche tu mi piaci-
-Perchè me lo dici?-
-Forse perchè sono ubriaca anche io-
-
-Sto leggendo-
-Guardami quando ti parlo!- esclama Rebecca alzando la voce.
Io alzo lo sguardo su di lei, supplicandola con gli occhi di andarsene.
-Perchè ti comporti così?- mi chiede -E' perchè sono lesbica? Lo so che vorresti avere una madre normale ma io e Monica ci amiamo e...-
-E' perchè hai tradito papà!- urlo -Ed io ti odio, Rebecca-
Lo schiaffo arriva e lo accolgo quasi con sollievo.
Alla luce degli ultimi avvenimenti Nora può considerarsi una fangirl piuttosto sfigata.
-
In un'epoca in cui la friendzone va quasi di moda ho provato a parlare della vera amicizia.
In un'epoca in cui leggere è passato di moda ho provato a spiegare com'è la vita per chi vive per i libri.
Sequel della storia: "Potremmo volare". Può essere letta singolarmente.
Genere: Comico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Potremmo Volare'
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5.Sai che Torino è fatta a quadrati?
“È una questione di punti di vista:
come gli aquiloni,
che pensano che la terra sia attaccata al filo.”
Enzo Iacchetti
 
La prima cosa che noto del capoluogo del Piemonte  sono i quartieri di una precisione quasi geometrica, tutti uguali tra loro. "Sai che Torino è fatta a quadrati?" mi ha detto Ludovica non appena siamo arrivati "È stata costruita dai romani ed ha due vie principali: il Cardo ed il Decumano che formano una croce, tutte le altre sono costruite parallele ad esse. Così è più facile orientarsi" Mi sono da subito scoperta in disaccordo con lei, abbiamo svoltato così tante volte da darmi il voltastomaco, inoltre tutto questo gran baccano mi fa girare la testa: clacson impazziti, moto che sfrecciano per la città, donne che urlano, uomini in giacca e cravatta che corrono per andare a lavoro, bambini che giocano a palla sui marciapiedi, persone malvestite che chiedono l'elemosina, cani abbandonati e teppistelli che si aggirano con il cappuccio calato sul volto. Non appena ho aperto la portiera ho rischiato di venire travolta da una bici e, subito dopo, un signore di mezz’età mi ha urlato contro in piemontese chissà che cosa. Nonostante questo primo impatto burrascoso ho scoperto che la città ha anche un certo fascino.
Ivan non ha voluto perdere tempo ed abbiamo subito visitato il museo di Pietro Micca mentre ora stiamo facendo la fila al McDonald. Sono qui da neanche cinque ore e sono riuscita a discutere con una ragazza maleducata con più piercing che cervello che sosteneva le avessimo rubato il posto in fila.
Saranno tutti così questi torinesi?
Prendo un maxi-burger con carne di maiale, insalata, pomodoro, rucola e fontina, una confezione grande di patatine ed una bottiglietta d'acqua per mantenere una dieta salutare. Sto scherzando: da bere ho ordinato una coca-cola.
Prendiamo posto in alcuni tavolini ed iniziamo a mangiare nel locale sovraffollato. C’è così tanto rumore che non abbiamo neppure bisogno di parlare per sentirci a nostro agio, mangiamo in fretta, desiderosi di uscire da qui, sto sudando dentro alla camicia a quadri e noto che Alessandro ha il mio stesso problema. A proposito di Sandro: mi ha salutata con un freddo “ciao” e non mi ha più rivolto la parola, non che fossi particolarmente sociale alle cinque del mattino ma mi sarebbe piaciuto se ci avesse almeno provato; vorrei tanto farlo conoscere a tutti quelli che dicono che sono le donne ad essere strane.
Usciti finalmente all’aria aperta Ludovica trascina Ivan verso un negozio di vestiti qui vicino e ci diamo appuntamento tra un’ora, prima di andarsene mio fratello ammicca in modo tale da farmi capire che sa che dobbiamo risolvere qualcosa. Ho mai detto che lo amo?
Iniziamo a camminare senza una meta precisa sotto i portici ed io cerco di pensare, ad ogni passo, ad un inizio di discorso differente; dopo poche centinaia di metri in cui non ho ancora trovato il coraggio di iniziare a parlare, un ragazzo alto, dai vestiti larghi ed una felpa leggera si avvicina e ci sorride.
-Ciao, scusate se vi disturbo- inizia gentilmente guardandomi negli occhi.
Io, prontamente, abbasso lo sguardo, indecisa su dove voglia andare a parare.
- Sono Enrico, piacere, voi come vi chiamate?
Ci presentiamo brevemente mentre uno strano presentimento si fa largo dentro di me.
-Faccio parte di un gruppo di orfani di Torino, siamo degli artisti di strada e cerchiamo come possiamo di andare avanti. Ora lo so che anche voi avete i vostri problemi ma vorrei darvi queste penne, sono molto comode, se tiri questa levetta si srotola un calendario che potete anche usare per i bigliettini. Non avete qualche spicciolo? Mi basta poco, anche solo un euro.
Parla con disinvoltura e franchezza, la stessa semplicità di chi l’ha già fatto un milione di volte. Io e Alessandro ci scambiamo uno sguardo perplesso poi lui tira fuori il portafoglio.
Il volto di Enrico sembra illuminarsi.
-Grazie mille! Davvero, noi non siamo dei cattivi ragazzi, cerchiamo solo di vivere con quel poco che ci hanno dato e con la beneficenza. Dopotutto siamo artisti di strada, grazie davvero!
Se ne va, allontanandosi con cinque euro in più in tasca e lasciandomi una penna blu tra le mani insieme ad una vaga sensazione di disagio.
-Siete proprio stupidi. Non ci credo che avete abboccato.
Mi giro, interdetta, e mi trovo davanti la gentilezza in persona, cioè niente popò di meno che la ragazza piena di piercing di poco fa.
-Come, scusa?- gli fa eco Alessandro.
-I soldi li usano per comprarsi la droga, lo conosco Enrico, non è un santo.
L’avevo detto io che non c’era da fidarsi, Torino è decisamente una città infame.
-Voi, piuttosto, cosa ci fate qui? Andavate da qualche parte? Vorrei che mi fai compagnia- dice stuzzicandosi il piercing che ha sul labbro.
La prima cosa che mi viene in mente è: “Che mi fai? Che mi fai?! Ma questa da dove è uscita?”. Poi vedo Alessandro deglutire e mi sento decisamente presa in causa.
-Innanzitutto non sono affari tuoi- dico sorridendo più o meno in modo amabile –Punto secondo lui è mio-
-Tuo?- mi fanno eco lei e Alessandro all’unisono.
-Esatto, il mio ragazzo, quindi vedi di girare a largo.
Lei mi guarda attentamente poi fa schioccare la lingua contro il palato e si rivolge nuovamente ad Alessandro: -Sono Federica Garde, cercami su Facebook quando ti stanchi di questa qui.
Prima che se ne vada vengo colta da un lampo di genio e frugo nello zaino che ho sulle spalle, finalmente trovo l’oggetto tanto ambito e le corro dietro, porgendoglielo con un mezzo sorriso: -I congiuntivi sono a pagina quarantanove-. Torno da Alessandro sentendo il suo sguardo stupito vagare dalla mia schiena al libro tascabile di grammatica italiana che le ho appena consegnato.
-Ne porto sempre uno con me per i casi di emergenza- dico con finta noncuranza in risposta alla sua occhiata stranita.
-Il tuo ragazzo, eh?- mi chiede facendo una smorfia e infilando le mani nelle tasche.
-Oh, beh..- dico io facendo un gesto vago con la mano e dondolandomi sui talloni.
-Sei la persona più pazza che io abbia mai conosciuto- dice guardandomi negli occhi e ridendo –Ma forse è anche per questo che mi piaci-
Io rido a mia volta mentre continuiamo a scherzare, felici di aver fatto pace. Più tardi raggiungiamo i due piccioncini: è passato, ormai, il tempo in cui vedevo Ludovica come una rivale ed ero gelosa di lei ma, di tanto in tanto, quando vedo gli sguardi che si lanciano sento lo stomaco chiudersi in una rapida e dolorosa morsa.
Nel pomeriggio decidiamo di fare un salto al museo del cinema, mi sembra tutto fantastico e continuo ad afferrare la manica della felpa di Alessandro per trascinarlo a vedere qualche strano macchinario. Mi rabbuio davanti alla mia immagine allargata in una scatola ottica e rimango affascinata davanti alle ombre cinesi, Ludovica si ferma almeno dieci minuti davanti ad ogni attrazione per cercare di spiegarcene la funzionalità ed è proprio in questi momenti che vorrei che il suo amore per l’arte e per i musei non fosse così profondo. Finalmente raggiungiamo l’ascensore panoramico che sale fin sulla Mole Antonelliana e fremo, impaziente. Ci mettiamo in coda mentre non faccio altro che saltellare sul posto, cercando di scacciare le vertigini che già mi afferrano lo stomaco. Per mia incredibile fortuna veniamo divisi da Ludovica ed Ivan che saliranno con il gruppo successivo, non appena iniziamo a salire scaccio le vertigini e cerco di godermi il presente senza vomitare.
-Non credi che dovremmo parlare?- mi sussurra Alessandro all’orecchio per non farsi sentire dal resto del gruppo.
-Non mi sembra il momento più adatto- ribatto io quasi sicura di aver assunto uno strano colorito verdognolo.
In meno di un minuto raggiungiamo la cima della Mole e rimango a bocca aperta: Torino è strabiliante da quassù, l’aria gelida mi sferza il viso e devo stringermi nel cappotto per non rabbrividire, il cielo è di un grigio imperfetto e quasi innaturale, le montagne bianche, all’orizzonte, sono sommerse dalla neve, case alte e basse popolano i svariati quartieri. Da qui non si notano i graffiti e la spazzatura, Torino sembra perfetta da quest’altezza.
Ci pensa Alessandro a distogliermi dai miei pensieri ed a farmi richiudere la bocca, sollevando di peso la mia mascella.
-Ti entreranno le mosche- mi prende in giro –Non puoi arrenderti così-
-Hai idea di quanto mi abbiano tormentata?- gli chiedo girandomi verso di lui –Anni ed anni di lente prese in giro, tutto il giorno, tutti i giorni. Mai niente di troppo pesante, certo, ma piccole cose che sommate facevano sì che la mia autostima rasentasse il suicidio. Eppure tutto è finito, non so perché, ma tutto è terminato, okay? Non voglio che le cose tornino com’erano prima-
Con mio estremo disappunto riprendiamo a scendere mentre Alessandro rimane interdetto per appena qualche attimo.
-Nora quella dell’altro giorno non è stata una semplice presa in giro! Ti hanno fatto uno scherzo di pessimo gusto e ti hanno mancato di rispetto.
-E quindi? Cosa vuoi che faccia? Una protesta?- gli domando scuotendo la testa.
Scendiamo e salutiamo Ivan e Ludovica con la mano, facendo loro cenno che li aspetteremo appena qui fuori.
-Potresti dirlo ai professori, molto semplicemente.
-Perché non lo vuoi capire? Non voglio tornare ad essere lo zimbello di tutti!
-Non lo sarai, ci sono io adesso.
-Tu non ci sei sempre- rispondo secca, prima di riuscire a fermare le mie stesse parole, animata dalla discussione.
-Ah no?- mi domanda lui, confuso e ferito.
-No- rispondo soddisfatta e sempre più alterata –Ieri sera, per esempio, ho avuto un attacco di panico ed avrei potuto morire se non fosse stato per il bacio di Filippo!-
-Il bacio di chi?- mi fa eco lui sgranando gli occhi.
Ops…
-Ti dico che avrei potuto morire e ti preoccupi del bacio?
-Hai baciato Filippo dopo quello che ti ha fatto?
-Non hai sentito la parte del: “stavo per morire”? E comunque non ho le prove che c’entrasse anche lui.
-Ma ti ascolti quando parli?
-Non ho intenzione di fare nulla, Sandro, mettiti l’anima in pace.
Lui mi lancia un’occhiataccia, solleva l’indice verso di me e fa per dire qualcosa, infine distoglie lo sguardo e tira un calcio ad un sasso. Rimaniamo in silenzio fino all’arrivo di Ivan e Ludovica, quest’ultima inizia subito a riempirci di nozioni sul Museo Egizio, la nostra prossima tappa.
 
Mi lascio cadere pesantemente sul letto mentre sento Alessandro arrampicarsi in quello sopra al mio, Ivan e Ludovica si sono appena scambiati il bacino della buonanotte nel letto matrimoniale mentre io ed Alessandro ci siamo rivolti appena un cenno, sistemandoci nel letto a castello. Sono sfinita, felice ed acculturata ma esausta. Tento invano di dormire, girandomi e rigirandomi tra le coperte, ci riuscirei se il letto non fosse così scomodo, duro e non avesse quest’odore così fastidioso; infine mi alzo in punta di piedi, afferro una felpa qualunque dall’attaccapanni ed esco in balcone. Faccio appena in tempo a pensare che avrei dovuto mettere almeno le pantofole quando Ivan mi raggiunge.
-Ciao- dico distrattamente, appoggiandomi alla ringhiera.
-Ciao- mi risponde lui osservando il cielo sopra di noi.
E’ nuvoloso e non riesco a scorgere neanche una stella, sarà sempre così il tempo in questa città?
-Quando ti decidi a chiedere scusa ad Ale?
-Io, cosa?- gli faccio eco sorpresa e convinta di aver capito male.
-Si nota lontano un miglio che avete litigato.
-E perché dovrei chiedergli scusa io?
-Spesso non si chiede scusa perché si pensa di avere torto ma perché si tiene più a quel rapporto che all’orgoglio.
-E tu come lo sai?
Lui ride, come se avessi fatto la battuta più divertente del mondo.
-E’ una cosa che ho imparato dal matrimonio, non hai vita lunga se non chiedi scusa alla tua dolce metà.
Io sbuffo e mi stringo ancor più nella felpa. Osservo il cielo a mia volta mentre un odore familiare mi pervade le narici, solo ora mi accorgo di aver indossato la maglia di Alessandro. Sa di buono. Un profumo da uomo mischiato al semplice odore della sua pelle.
-E comunque sono quasi certo che tu sia nel torto- aggiunge poco prima di rientrare.
Non faccio in tempo a ribattere perché è già sparito nella stanza dell’hotel che abbiamo prenotato, sospiro rassegnata e mi dirigo al mio letto troppo duro e che profuma di stantio: domani mi aspetta una giornata troppo lunga per poter fare la schizzinosa.
Tredici ore più tardi mi decido finalmente a chiedere scusa ad Alessandro.
Questa mattina siamo stati allo Juventus Stadium, per far felice il mio migliore amico. Ho visitato il mio primo vero stadio ed ho fatto una foto dietro l’altra, esaurendo la memoria della macchina fotografica. Quando abbiamo intravisto il pullman della Juve ho pensato seriamente di far loro un gestaccio per vedere come avrebbero reagito ma mi sono trattenuta per non peggiorare ulteriormente la situazione tra me ed Alessandro. Sono persino entrata nel negozio di souvenir con lui ma ho avuto l’accuratezza di toccare ogni cosa con i guanti, siamo amici ma non rinnegherei mai la mia squadra per la sua.
Ora abbiamo appena finito di mangiare in un ristorante cinese molto ben arredato, Ludovica si è alzata per andare ad incipriarsi il naso e Ivan sta saldando il conto. Io mi tormento le mani, mordendomi la lingua e farneticando parole indefinite.
-Perché hai la mia felpa?- mi domanda Alessandro, squadrandomi.
Mi coglie alla sprovvista e rischio di cadere dalla sedia, mi lancio una breve occhiata e mi accorgo che ha ragione.
-E’ comoda- dico scrollando le spalle.
-Puoi tenerla se ti va- dice sempre senza guardarmi.
-Scusa.
Non so come mi sia uscito, probabilmente è il frutto di una lunga lotta interna tra il pancreas ed i reni, o qualcosa del genere. Il mio problema non è tanto l’orgoglio quanto la stramaledetta voglia di avere sempre ragione.
Lui si lascia andare ad un lungo sospiro.
-Perché non vuoi capire che io lo dico per te?- mi domanda scuotendo la testa –Non puoi almeno pensarci?-
Mi guarda con quei suoi enormi occhi castani e proprio non ce la faccio a dirgli di no. Annuisco brevemente e ringrazio Zeus che Ivan e Ludovica arrivino in questo momento con tempismo perfetto, sciogliendomi dall’imbarazzo.
Come ultima tappa eravamo indecisi tra una gita sul Po, una passeggiata al Parco del Valentino e una corsa tra supermercati e outlet per i regali di Natale. Inutile dire che ha vinto Ludovica, facendo gli occhi dolci a Ivan, così ora siamo in fila nell’ennesimo negozio, io lancio un’occhiata supplicante a mio fratello e lui mi regala uno sguardo sfinito, finalmente riusciamo a pagare tra cassiere maleducate e gente frettolosa, io mi allontano furtivamente da loro sommersa da mille ed uno borse, ben attenta che non mi notino. Corro nel negozio di accessori per la casa e prendo uno zerbino dal disegno simpatico e divertente, poi mi dirigo verso il negozio di musica. Con mia grande sorpresa e fortuna trovo un ragazzo dall’aria cupa e le braccia tatuate che proclama a gran voce la vendita dei biglietti per il concerto di Hilary Duff. Devo vendermi un rene per riuscire a comprarli perciò spero proprio che Alessandro li apprezzi, inoltre il ragazzo sembrava un pusher con il cappuccio calato sugli occhi e l’aria malsana. Vengo percorsa da un brivido e preferisco non pensarci mentre raggiungo nuovamente gli altri.
Sembrano così annoiati ed esausti da non essersi nemmeno accorti della mia breve assenza.
Quando finalmente saliamo in macchina è più tardi del previsto, mi addormento non appena tocco i sedili e la mia testa ricade lentamente sulla spalla di Alessandro.
Il mio ultimo pensiero va a Torino ed alle sue molteplici facce.

 
  
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