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Autore: PattaTina    25/09/2015    0 recensioni
Come formiche che vanno a pregare che la pioggia non sommerga nuovamente il loro formicaio.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TU PEUX CONTINUER DE RÉVER.
Non so se fosse colpa delle sedici ore di aereo ma il corridoio sembrava allungarsi ad ogni mio passo, sembrava voler inghiottire le mie gambe particolarmente pesanti e farmi soltanto immaginare la luce alla fine del tunnel. Sì, proprio quella luce da molti citata che ti solleva sulle sue ali bianche e ti culla fino a che non ti addormenti.
Era così che noi, da bambini, chiamavamo l'entrata del grande palazzo in piazza, da dove ogni mattina usciva un caldo odore di cioccolata e dolciumi, paste frolle e zucchero a velo. Ma il corridoio di nebbia tra quel bel palazzo e la nostra scuola ci impediva giorno dopo giorno di raggiungerlo, le mille braccia dei genitori ci strappavano ai nostri desideri più golosi per trascinarci insieme al freddo alle nostre case.
Non tornavo a Saint Denis da diciotto anni, ma tra me e quella maledetta cittadina dell'est della Francia era una gara a chi sarebbe cambiata più in fretta.
Una foglia inizia a danzarmi davanti all'inchino di una betulla ghiacciata e si ferma piroettando sulla punta di un mio stivale, lasciandomi spettatrice dei provini delle altre foglie che con una folata di vento si erano staccate dal larice accanto al bel palazzo.
"Trent'anni per niente, Margot. Il palazzo è stato chiuso, non potrai entrarci nemmeno adesso" mi dico.
Proseguendo per circa due isolati lungo il viale dei ricordi oltrepasso un ponticello in cemento armato che prima non c'era, sospiro, i campi di casa mia. Il grande mulino. Seguendo il vecchio sentiero di sassi arrivo all'uscio della porta, dove cinque o sei signori si stavano stringendo la mano con sguardi rapiti. Mi sembrava di averli già visti tutti, ma se uno mi avesse parlato anche solo un poco di sè avrei scoperto che di loro non ricordavo quasi nulla.
"Ciao mamma".
Come era cambiata. I suoi lunghi capelli biondo cenere erano ora di un grigio spento, raccolti con Dio solo sa quanta lacca in uno chignon anni Cinquanta. Un abito largo che lasciava alle fotografie la testimonianza del corpo giovane ed attraente che mio padre aveva portato a ballare per la prima volta cinquant' anni fa. Le borse non più sottobraccio a raccogliere le stoffe colorate per cucirmi gli abiti della domenica, bensì sotto agli occhi, scure e ben più pesanti. Il volto segnato dalla vecchiaia. È sempre stata una donna di ferro, mia madre, e i solchi che altri avrebbero attribuito al lutto non erano che il segno degli anni che erano passati. Un calendario naturale che, prima o poi, compare sulla pelle di noi tutti.  
Nulla viene dimenticato al redentore.
Sebbene mio padre facesse il cacciatore, una professione non proprio in linea con la religione, io sono cresciuta in una famiglia estremamente credente, dove prima di addormentarmi invece che di boschi incantati e fate mi si raccontava di bestie e numeri, lotte tra il bene e il male. Ebbi seri problemi con la matematica a scuola, questo sì lo ricordo, perché ogni volta che veniva introdotto un argomento e la maestra chiedeva se qualcuno ne sapesse qualcosa io alzavo tutta fiera la manina e… Beh, era raro che dalla mia bocca uscisse una parola che si avvicinasse all'argomento della lezione. La parabola era un racconto, e non una figura della geometria, i numeri non si potevano moltiplicare... Il pesce e il pane invece sì. Più calavano i miei più in fretta diminuiva anche la voglia di stare sveglia la notte a sentire i racconti dei miei genitori. Così iniziai a comprare dei libri con i soldi rubati dal vassoio in terracotta sopra alla credenza e a soffocare la cultura della mia famiglia sovrapponendovi tutto quello che riuscivo a leggere.
Divoravo i libri, divoravo i soldi, divoravo persino il tempo.
Ricordo della sberla sulla guancia che presi da mio padre la prima domenica che non andai con loro alla Santa messa perché dovevo finire un compito di italiano. Erano passati circa sedici anni da quando ero venuta alla luce, e frequentavo il secondo anno del ginnasio. Dei sei anni precedenti ricordo solo Il viaggio nella terra dei lillipuziani, quello alla scoperta di un mondo sommerso e un paio di altre avventure.  
Ora l'espressione sul volto di mia madre assomigliava molto a quella che la distruggeva al mio diciottesimo compleanno, quando avevo deciso di cambiare città per studiare e per diventare poi la giornalista che sono adesso. Era il mio sogno e, visto che nel mio piccolo ero anche io una donna di ferro, non avevo esitato ad inseguirlo. Volevo abbandonare quel paese, quel freddo sulla pelle e quel gelo nel cuore che caratterizzava il mio cognome. Volevo scoprire un mondo di fatti ed avvenimenti e smetterla di vivere  inseguita da parabole e moltiplicazioni.
Mia madre mi guarda fissa negli occhi e poi mi abbraccia senza dire una parola, lasciando scivolare un po' di malinconia lungo la guancia fino al colletto del mio cappotto nero. L'odore della lacca mi trapassa le narici e mi fa starnutire così mi scuso portando una mano alla bocca e torno a guardarla, anche io senza dire nulla. Poi lei si schiarisce la gola, con un colpetto sotto al mento, e abbassa lo sguardo tirando fuori una busta bianca dalla tasca "Era di tuo padre. La ha lasciata per te.." La sua mano stava tremando così nel prendere la busta la stringo delicatamente riscaldandola con la mia giovinezza e sorrido. "Grazie mille." La intasco rimanendo a guardare la sua mano ancora ferma a mezz'aria. Sento l'ineffrenabile bisogno di starnutire una seconda volta e così mi piego in avanti portando entrambe le mani alla faccia. In casa, nonostante le tante persone, c'era molto freddo. Il pastore del paese, che per quanto mi riguardava sarebbe potuto essere anche nuovo, mi da un colpetto sulla spalla e poi si rivolge a mia madre "Stanno chiudendo la bara. Procediamo con il funerale?" Non volevo vedere quel cacciatore di mio padre preda della morte, così rispondo da parte di mia madre "Si.", accompagnandolo con un cenno della testa. Quattro uomini in abito scuro sollevano la bara in legno chiaro e la portano in cortile, caricandola su un automobile che sembrava essere estremamente fuori dal contesto di semplicità della mia casa. Il corteo la segue con i propri mezzi, auto sbiadite e senza cerchioni.
Come formiche che vanno a pregare che la pioggia non sommerga nuovamente il loro formicaio.
In dieci minuti ci si ferma sulla vetta, il punto più alto della montagna raggiungibile in auto. Il funerale comincia in orario, con tutti i presenti seduti su delle seggiole in legno accatastate senza una precisa geometria lungo un piccolo pezzo di terreno di poca pendenza. I fiori che erano stati appoggiati a decorare la bara e il classico altare in pietra che veniva usato per celebrare i riti funebri erano gli stessi che mi accarezzavano i collant ad ogni tentativo di accavallare le gambe per sentire meno il freddo.
Davvero un'ottima idea quella di mettersi un vestito ad un funerale in montagna, Margot.
Infilo le mani nelle tasche del cappotto per cercare un po' di calore, mentre lascio che le parole del pastore facciano commuovere i presenti. La mia mano destra sfrega qualcosa di freddo e ruvido, era la busta che mia madre mi aveva consegnato da parte di mio padre. Lanciando una rapida occhiata mi rendo conto che tra le venticinque persone venute a salutarlo per un'ultima volta, una metà stava guardando verso la bara e l'altra stava cercando, come me, di riscaldarsi senza dare troppo nell'occhio. Per una comunità come quella di Saint Denis l'unico calore comprensibile era dato dalla preghiera e pregando, di certo, non si poteva che stare in pace con se stessi. Siccome la mia sedia era un po' spostata verso sinistra non avrei di certo attirato alcuna attenzione se avessi tirato fuori dalla tasca la busta, e così me la rigiro tra le dita fino a che non decido di aprirla. Con un'unghia scivolo lentamente lungo la striscetta trasparente fino a penetrarla e con una lieve pressione ne stacco la parte superiore. La busta si apre con estrema facilità, come se fosse stata sigillata ormai da anni. Rovescio il contenuto sulle mie ginocchia e stropiccio gli occhi lucidi per mettere meglio a fuoco l'immagine di quello che ne era uscito, un bussolotto in rame, uno dei vecchi proiettili di mio padre usato per la caccia di animali di grossa taglia. Inizia a scaldarsi solo quando il volto di mio padre viene ben definito nella mia immaginazione. Lo strofino tra le mani mentre lo guardo scomparire dietro alle mie lacrime. Una di queste vi cade sopra, portandomi ad asciugarle una seconda volta e a vedere che la parte posteriore del proiettile era stata disinserita, così lo scuoto leggermente e ne esce un rotolino di carta. Era il denaro che circolava quando ero bambina, una piccola somma con la quale ora potrei permettermi solo un fermaglio per i capelli, i soldi esatti che servivano allora per comprare uno di quei libri di avventura che mi piaceva tanto leggere. Arrotolato in mezzo alle banconote c'era una piccola pagina grigiastra. Esito e, respirando a pieni polmoni l'aria di montagna, l'aria di casa, leggo i piccoli caratteri rovinati. Diceva "Tu peux  continuer de réver.", diceva di continuare a sognare.  

TU PEUX CONTINUER DE RÉVER.

Non so se fosse colpa delle sedici ore di aereo ma il corridoio sembrava allungarsi ad ogni mio passo, sembrava voler inghiottire le mie gambe particolarmente pesanti e farmi soltanto immaginare la luce alla fine del tunnel.Sì, proprio quella luce da molti citata che ti solleva sulle sue ali bianche e ti culla fino a che non ti addormenti.Era così che noi, da bambini, chiamavamo l'entrata del grande palazzo in piazza, da dove ogni mattina usciva un caldo odore di cioccolata e dolciumi, paste frolle e zucchero a velo. Ma il corridoio di nebbia tra quel bel palazzo e la nostra scuola ci impediva giorno dopo giorno di raggiungerlo, le mille braccia dei genitori ci strappavano ai nostri desideri più golosi per trascinarci insieme al freddo alle nostre case.Non tornavo a Saint Denis da diciotto anni, ma tra me e quella maledetta cittadina dell'est della Francia era una gara a chi sarebbe cambiata più in fretta.Una foglia inizia a danzarmi davanti all'inchino di una betulla ghiacciata e si ferma piroettando sulla punta di un mio stivale, lasciandomi spettatrice dei provini delle altre foglie che con una folata di vento si erano staccate dal larice accanto al bel palazzo."Trent'anni per niente, Margot. Il palazzo è stato chiuso, non potrai entrarci nemmeno adesso" mi dico.Proseguendo per circa due isolati lungo il viale dei ricordi oltrepasso un ponticello in cemento armato che prima non c'era, sospiro, i campi di casa mia. Il grande mulino. Seguendo il vecchio sentiero di sassi arrivo all'uscio della porta, dove cinque o sei signori si stavano stringendo la mano con sguardi rapiti. Mi sembrava di averli già visti tutti, ma se uno mi avesse parlato anche solo un poco di sè avrei scoperto che di loro non ricordavo quasi nulla."Ciao mamma".Come era cambiata. I suoi lunghi capelli biondo cenere erano ora di un grigio spento, raccolti con Dio solo sa quanta lacca in uno chignon anni Cinquanta. Un abito largo che lasciava alle fotografie la testimonianza del corpo giovane ed attraente che mio padre aveva portato a ballare per la prima volta cinquant' anni fa. Le borse non più sottobraccio a raccogliere le stoffe colorate per cucirmi gli abiti della domenica, bensì sotto agli occhi, scure e ben più pesanti. Il volto segnato dalla vecchiaia. È sempre stata una donna di ferro, mia madre, e i solchi che altri avrebbero attribuito al lutto non erano che il segno degli anni che erano passati. Un calendario naturale che, prima o poi, compare sulla pelle di noi tutti.  Nulla viene dimenticato al redentore.Sebbene mio padre facesse il cacciatore, una professione non proprio in linea con la religione, io sono cresciuta in una famiglia estremamente credente, dove prima di addormentarmi invece che di boschi incantati e fate mi si raccontava di bestie e numeri, lotte tra il bene e il male. Ebbi seri problemi con la matematica a scuola, questo sì lo ricordo, perché ogni volta che veniva introdotto un argomento e la maestra chiedeva se qualcuno ne sapesse qualcosa io alzavo tutta fiera la manina e… Beh, era raro che dalla mia bocca uscisse una parola che si avvicinasse all'argomento della lezione.

La parabola era un racconto, e non una figura della geometria, i numeri non si potevano moltiplicare... Il pesce e il pane invece sì. Più calavano i miei più in fretta diminuiva anche la voglia di stare sveglia la notte a sentire i racconti dei miei genitori.

Così iniziai a comprare dei libri con i soldi rubati dal vassoio in terracotta sopra alla credenza e a soffocare la cultura della mia famiglia sovrapponendovi tutto quello che riuscivo a leggere.

Divoravo i libri, divoravo i soldi, divoravo persino il tempo. Ricordo della sberla sulla guancia che presi da mio padre la prima domenica che non andai con loro alla Santa messa perché dovevo finire un compito di italiano. Erano passati circa sedici anni da quando ero venuta alla luce, e frequentavo il secondo anno del ginnasio.

Dei sei anni precedenti ricordo solo Il viaggio nella terra dei lillipuziani, quello alla scoperta di un mondo sommerso e un paio di altre avventure.  Ora l'espressione sul volto di mia madre assomigliava molto a quella che la distruggeva al mio diciottesimo compleanno, quando avevo deciso di cambiare città per studiare e per diventare poi la giornalista che sono adesso.

Era il mio sogno e, visto che nel mio piccolo ero anche io una donna di ferro, non avevo esitato ad inseguirlo. Volevo abbandonare quel paese, quel freddo sulla pelle e quel gelo nel cuore che caratterizzava il mio cognome.

Volevo scoprire un mondo di fatti ed avvenimenti e smetterla di vivere  inseguita da parabole e moltiplicazioni.

Mia madre mi guarda fissa negli occhi e poi mi abbraccia senza dire una parola, lasciando scivolare un po' di malinconia lungo la guancia fino al colletto del mio cappotto nero. L'odore della lacca mi trapassa le narici e mi fa starnutire così mi scuso portando una mano alla bocca e torno a guardarla, anche io senza dire nulla. Poi lei si schiarisce la gola, con un colpetto sotto al mento, e abbassa lo sguardo tirando fuori una busta bianca dalla tasca "Era di tuo padre. La ha lasciata per te.." La sua mano stava tremando così nel prendere la busta la stringo delicatamente riscaldandola con la mia giovinezza e sorrido. "Grazie mille." La intasco rimanendo a guardare la sua mano ancora ferma a mezz'aria. Sento l'ineffrenabile bisogno di starnutire una seconda volta e così mi piego in avanti portando entrambe le mani alla faccia. In casa, nonostante le tante persone, c'era molto freddo. Il pastore del paese, che per quanto mi riguardava sarebbe potuto essere anche nuovo, mi da un colpetto sulla spalla e poi si rivolge a mia madre "Stanno chiudendo la bara. Procediamo con il funerale?" Non volevo vedere quel cacciatore di mio padre preda della morte, così rispondo da parte di mia madre "Si.", accompagnandolo con un cenno della testa.

Quattro uomini in abito scuro sollevano la bara in legno chiaro e la portano in cortile, caricandola su un automobile che sembrava essere estremamente fuori dal contesto di semplicità della mia casa. Il corteo la segue con i propri mezzi, auto sbiadite e senza cerchioni.

Come formiche che vanno a pregare che la pioggia non sommerga nuovamente il loro formicaio.

In dieci minuti ci si ferma sulla vetta, il punto più alto della montagna raggiungibile in auto. Il funerale comincia in orario, con tutti i presenti seduti su delle seggiole in legno accatastate senza una precisa geometria lungo un piccolo pezzo di terreno di poca pendenza. I fiori che erano stati appoggiati a decorare la bara e il classico altare in pietra che veniva usato per celebrare i riti funebri erano gli stessi che mi accarezzavano i collant ad ogni tentativo di accavallare le gambe per sentire meno il freddo.

Davvero un'ottima idea quella di mettersi un vestito ad un funerale in montagna, Margot.

Infilo le mani nelle tasche del cappotto per cercare un po' di calore, mentre lascio che le parole del pastore facciano commuovere i presenti. La mia mano destra sfrega qualcosa di freddo e ruvido, era la busta che mia madre mi aveva consegnato da parte di mio padre. Lanciando una rapida occhiata mi rendo conto che tra le venticinque persone venute a salutarlo per un'ultima volta, una metà stava guardando verso la bara e l'altra stava cercando, come me, di riscaldarsi senza dare troppo nell'occhio.

Per una comunità come quella di Saint Denis l'unico calore comprensibile era dato dalla preghiera e pregando, di certo, non si poteva che stare in pace con se stessi. Siccome la mia sedia era un po' spostata verso sinistra non avrei di certo attirato alcuna attenzione se avessi tirato fuori dalla tasca la busta, e così me la rigiro tra le dita fino a che non decido di aprirla. Con un'unghia scivolo lentamente lungo la striscetta trasparente fino a penetrarla e con una lieve pressione ne stacco la parte superiore. La busta si apre con estrema facilità, come se fosse stata sigillata ormai da anni. Rovescio il contenuto sulle mie ginocchia e stropiccio gli occhi lucidi per mettere meglio a fuoco l'immagine di quello che ne era uscito, un bussolotto in rame, uno dei vecchi proiettili di mio padre usato per la caccia di animali di grossa taglia. Inizia a scaldarsi solo quando il volto di mio padre viene ben definito nella mia immaginazione.

Lo strofino tra le mani mentre lo guardo scomparire dietro alle mie lacrime. Una di queste vi cade sopra, portandomi ad asciugarle una seconda volta e a vedere che la parte posteriore del proiettile era stata disinserita, così lo scuoto leggermente e ne esce un rotolino di carta. Era il denaro che circolava quando ero bambina, una piccola somma con la quale ora potrei permettermi solo un fermaglio per i capelli, i soldi esatti che servivano allora per comprare uno di quei libri di avventura che mi piaceva tanto leggere. Arrotolato in mezzo alle banconote c'era una piccola pagina grigiastra.

Esito e, respirando a pieni polmoni l'aria di montagna, l'aria di casa, leggo i piccoli caratteri rovinati.

Diceva "Tu peux  continuer de réver.", diceva di continuare a sognare.  

 

 

   
 
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