II.
le due volte
in cui lo
odiò
Kore non riesce a confessarlo.
Non
a sua madre, che tanto ha fatto per tenerla al sicuro dai maschi e
dalle loro voglie; non ad Artemide, non ad Atena, che hanno ripudiato
Afrodite e le sue arti, e considerano ogni manifestazione
dell’amore un insulto alla loro castità tanto gelosamente
custodita.
E'
facile ripetersi, sdraiata nel kliné, una mano sul ventre la cui
rotondità si fa sempre più ardua da nascondere sotto la
veste, che deve dar prova di coraggio, di spirito di iniziativa.
Facile, quando le pelli coprono le conseguenze di quanto sul momento,
ora perduto e così sbagliato, è parso inevitabile come il
cadere della pioggia, il roboare dei fulmini.
Eppure,
quando l'occasione è quella giusta, e le ancelle tacciono, e
Demetra la stringe al petto generoso coprendola di amorose carezze, le
frasi che le escono dalla gola, solo abbozzi strozzati, sono sempre
quelle sbagliate.
Quando
Artemide si presenta col suo seguito di vergini, invitandola a tornare
a correre nell’ebrezza della caccia, o Atena la invita a visitare
il palazzo che i suoi supplici hanno eretto per lei di recente nella
città col suo stesso nome [1], Kore non ha da offrire che
dinieghi e scuse affrettate.
Ad
ogni giro sulla volta celeste del carro di Helios, il fardello nel
ventre si fa più grande e pesante e quello nel cuore la
schiaccia come un macigno. Siede, una mano sulla curva appena
accennata, fissando le onde del mare che lambiscono la soffice spiaggia
sabbiosa.
L’unica
a cui potrebbe affidare il peso di quel segreto dalle ore contate non
c’è, inghiottita da chi raramente sputa fuori, delle
vittime, persino la buccia. Erebo è un mistero, per Kore come
per la maggior parte degli Olimpi, ma v’è poco da dubitare
che Leucippe[1], la sua cara Leuce, vi
rimarrà: l’oceano di terra si è chiuso sopra
di lei come le fauci di una bestia affamata.
La
desolazione nella voce di sua madre, quando le ha raccontato del
rapimento, riecheggia in Kore come l’eco in un antro vuoto.
Non ha mai incontrato quel fratello di Demetra, quello zio che ha scelto di farsi seppellire tra le ricchezze nel ventre della terra, e ben pochi pensieri gli ha dedicato nel corso della sua esistenza; ora che ha condotto Leuce ben oltre la portata della sua mano, però, l’indifferenza ha preso a trasformarsi in un odio quieto, sopito, ma pronto a morderla.
La
pancia è grossa come certi frutti dolci dalla scorza dura, verde
cupo, quando la notizia giunge volando sulla scia dei sandali di
Hermes. È sola, in quei giorni, lontana da sorelle e compagne.
Tanto sola che persino la voce le è diventata superflua; ogni
pensiero sembra vivere e morire con la creatura nel ventre, così
grande, così scomoda nello spazio angusto.
Celata agli occhi del mondo, è facile chiudere anche le orecchie; ma quando Ecate porta l’annuncio funesto avvolto nella sporta coi doni di sua madre, lo sgomento coglie Kore come la colgono le doglie.
Leuce è un pioppo bianco sulle rive di un fiume infernale; Leuce non è più.
E mentre, accucciata, si contorce per aprirsi e diventare la porta sulla vita per il figlio che porta in grembo, a denti stretti, le dita seppellite nella pelle tenera dell’avambraccio di Ecate, Kore lascia che le spire dell’odio l’avvolgano senza rimpianti, e senza rimpianti tra le lacrime e il sudore invoca l’Invisibile, maledicendo il suo nome.
NOTE:
[1]: Ho immaginato un palazzo di Atena che sorga nel sito dell'odierno Partenone (a sua volta eretto dopo la distruzione del tempio di Atena Poliàs nel 480 a.C).
[2]: Altro nome di Leuce.