04. Automatismi
La crisi ha inizio verso mezzogiorno.
Mi lamento per il mal di stomaco e la mamma mi dice che dovrei mangiare, anche solo due cucchiaiate di zuppa. Ma io non ho appetito. O non voglio averne.
Papà entra in camera e sbuffa spazientito perché è stanco di questi attacchi e perché secondo lui sono io stessa a causarli. Magari ha pure ragione, ma la risposta la conosce solo il mio subconscio, che in questo momento è impegnato a inviarmi la rassicurante immagine di un letto d’ospedale e un ago da flebo infilato sottopelle.
È un processo strano, ma si ripete sempre allo stesso modo, con le stesse identiche sensazioni. Ossigeno che pompa troppo velocemente nei polmoni, le mani che si irrigidiscono, le labbra che scolorano fino a tingersi di uno spaventoso blu cianotico, la vista che si appanna, le gambe che formicolano, l’incoscienza.
I dottori hanno spiegato che questi attacchi appartengono a una forma di panico amplificata che finisce per interessare le zone cerebrali trascinandomi in una sorta di coma apparente. Ho fatto anche una capatina nel reperto psichiatrico più vicino, dove la mamma ha avuto uno shock ed è svenuta. Comprensibile, con tutta la povera gente rinchiusa là dentro.
Non ho memoria di quello che accadde ma stando al resoconto della mamma (una volta che si fu ripresa) la dottoressa che mi ha visitato mi ha trattata al pari dei suoi pazienti.
Mi ha persino prescritto un’assortita lista di psicofarmaci. Roba leggera, a suo dire, capace di stendere una mandria di cavalli, secondo il bugiardino.
Mi arriva una zaffata del profumo all’iris della mamma.
— Tesoro, mi senti?
Sì, vorrei annuire, sì ti sento. Invece mugugno suoni accavallati che lei interpreta come un'accorata richiesta d'aiuto.
Parla con papà, vuole chiamare un'ambulanza, ma lui ribatte che è fuori discussione.
— È sbagliato, Rose. Non possiamo assecondarla sempre.
Mia madre è in lacrime. — Fosse per te la lasceresti morire in questo letto!
Basta, grido dentro me. Basta, vi supplico.
— Non la stiamo aiutando, così — persiste papà.
— E come dovremmo aiutarla, sentiamo. Ah, no, lo so già. Vuoi che le dia una di quelle orribili medicine che le ha segnato la psichiatra, non è così?
— Non ho detto questo.
— Allora cosa?
Gemo più forte che posso, le labbra saldamente incollate tra loro che mi è impossibile aprirle, ma mamma e papà non sembrano darmi retta. Sono diventati sordi. Ho bisogno di loro due insieme. Ho bisogno di ricevere il loro amore. Non me ne faccio niente dell’odio che si rimbalzano addosso.
— Finitela! — grida qualcun altro all’improvviso.
Le urla si spengono, risucchiate dal silenzio. Sento i battiti del mio cuore rimbombare sui muri. Fanno rumore.
Una vibrazione calda sulla mia fronte, come una carezza.
— Clare, sono io. — È la stessa voce che ha interrotto papà e mamma. Dolce e consolatrice. — Andrà tutto bene adesso, sta’ tranquilla.