Libri > I Miserabili
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Autore: flatwhat    27/09/2015    1 recensioni
“Javert!”.
La figura, in piedi sul parapetto, si voltò appena alla chiamata, quasi non fosse sorpresa al suono di quella voce.
Valjean era sorpreso, invece.
Numerose volte, in tutti quegli anni, Ispettore e prigioniero, cacciatore e preda, erano stati spinti l'uno contro l'altro dal destino, e, eccezion fatta per l'incontro alla barricata di quello che era ormai il giorno prima, la situazione era stata invariata. Valjean in fuga e Javert all'inseguimento.

Javert viene salvato.
(Ma a caro prezzo).
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Cosette, Javert, Jean Valjean, Marius Pontmercy
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Attenzione: Questo capitolo tratta di temi delicati e di suicidio.

E così era arrivato anche quel fatidico momento: Jean Valjean aveva ricevuto il perdono finale. Il perdono di Cosette.

A voler dire tutta la verità, se ci avesse riflettuto su, avrebbe potuto rendersi conto di non aver udito, tra le voci infantili che gli avevano risposto sul monte, quella del piccolo Gervais come egli aveva creduto, e di non aver quindi sentito ricevere il perdono da tutte le persone a cui credeva di aver fatto torto. Ma, in una simile occorrenza, noi stessi ci sentiamo in dovere di “perdonare” Valjean se in questo si è dimostrato disattento: la cosa che più gli aveva provocato terrore, in tutti quegli anni che aveva passato con lei, era stata la prospettiva di non essere più accettato da Cosette come padre, nell’eventualità che fosse venuta a conoscenza del suo oscuro passato. Perciò, ora che anche Cosette lo aveva definito “santo” e aveva parlato bene di lui, si sentì finalmente libero da un peso.

Ma non era ancora tempo di rallegrarsi: la situazione in cui si trovavano sia Cosette che Javert fece preoccupare Valjean per tutta la notte, come abbiamo detto nello scorso capitolo.

Fortunatamente, già dal mattino successivo, le cose avevano iniziato a apparire meno tragiche, almeno sul “fronte” Cosette e Marius.

Valjean aveva seguito la figlia a casa dell’amato e aveva ascoltato la loro conversazione.

Cosette, dopo aver abbracciato il fidanzato, aveva esordito in modo piuttosto sgradevole: “Allora, che ne pensi? Sono una bastarda, figlia di una prostituta e il mio padre adottivo era un uomo ricercato. Vuoi ancora sposarmi?”, ma Marius l’aveva subito tranquillizzata.

“Cosette, se c’è una cosa che ho imparato ieri è che tua madre e il tuo padre adottivo erano entrambi due santi e due martiri, te l’ho già detto. E, indipendentemente da ogni cosa, io vorrei sposarti lo stesso”.
 
Cosette aveva annuito,  e aveva detto a bassa voce: “Sì, erano proprio due martiri”, poi aveva guardato Marius con uno sguardo che avrebbe potuto trafiggere e gli aveva chiesto, sinceramente, se era stata troppo dura con Javert.

Marius le aveva risposto che l’avrebbe sostenuta in qualunque decisione avesse preso.

“Se vorrai allontanare da te Javert, lo accetterò. Sono disposto ad aspettare, per il matrimonio. L’importante è che tu sia felice”.

Cosette aveva abbassato lo sguardo verso i pollici che stava rigirando, persa nelle sue riflessioni, ed era stata la frase che ebbe pronunciato dopo qualche minuto a restituire la speranza a Valjean: “Mio padre era uno che perdonava”.

Valjean lasciò l’abitazione di Gillenormand più tranquillo di prima, felice che almeno sua figlia sembrasse stare meglio.

“Fantine”, disse, dopo aver varcato la soglia. “Vostra figlia parla bene di voi”.

“Ne sono contenta”, rispose la voce, e in quel momento Valjean poté sentire direttamente la felicità di Fantine esplodergli in petto. “Sapevo che prima o poi avrebbe compreso, ma sono comunque contenta”. A quanto pareva, anche le anime nella Gloria eterna, pur avendo lasciato alle spalle la tristezza e l’angoscia di questo mondo, gioivano dell’approvazione delle persone care.

Valjean decise di ritornare da Javert, che aveva lasciato in una condizione peggiore di quella di Cosette. L’Ispettore, benché sveglio, non aveva infatti lasciato il letto.

Quando riapparve nella sua camera, Valjean lo trovò nello stesso stato in cui l’aveva lasciato. Javert, muto, fissava il soffitto, un’immagine che a Valjean ne fece ritornare in mente un’altra: Javert, ammalato, a letto, nei giorni successivi al sette di giugno, senza alcuna voglia di vivere.

“Questo è l’uomo che hai salvato, Valjean. Un inutile guscio vuoto”, sussurrò, il volto pallido.

Preoccupato, senza poterlo neanche confortare stringendogli una mano, Valjean rimase a osservarlo, e ad ascoltare il suo respiro. In silenzio, pregò per lui.

Forse le sue preghiere furono ascoltate, o forse fu il caso, fatto sta che qualche ora più tardi, qualcuno bussò alla porta della sua camera.

Javert sospirò.

“Blanchard, vi ho già detto che sto bene”.

Ma la voce che gli rispose non era di Blanchard.

“Dal tuo tono, non sembra che tu ne sia tanto convinto, amico mio”.

Questa volta, Javert non si mise neanche a sedere quando il Segretario di Polizia Chabouillet fece il suo ingresso.

“Ah, e comunque”, disse lui. “Il tuo padrone di casa è proprio un santo. È venuto ad avvertirmi, stamattina presto, delle tue condizioni di salute. Avresti almeno potuto mandare una lettera: non ci si assenta dal lavoro così”.

Javert emise un gemito infastidito.

“E per giunta”, continuò Chabouillet. “Mentre venivo qui ho comprato della verdura e un po’ di carne, e lui ha accettato di cucinarli per te. Dovresti sentirti fortunato, ad avere un padrone di casa del genere. Non tutti, a Parigi, hanno la tua fortuna”.

Javert gemette di nuovo.

“Non ho fame”, disse.

“Non sembri molto convinto neanche di questo”.

Finalmente, Javert si mise a sedere.

“È ora che dia le mie dimissioni, una buona volta”.

Chabouillet prese la sedia e, dopo averla avvicinata al letto, si sedette.

“E i tuoi colleghi cosa diranno?”.

“Nessuno sentirà la mia mancanza”.

“Sciocchezze”, disse Chabouillet. “Ho incontrato Andre per caso, prima di venire qui. Gli ho detto che non stavi di nuovo molto bene. Ti manda i suoi saluti e ti augura di guarire presto. Sembra ammirarti parecchio”.

“Uno stolto che ammira un altro stolto”, sbuffò Javert. Poi, esclamò: “Cosa diavolo ammira, di me? Quello che ero prima? La mia cecità? La mia ignoranza?”.

“Suvvia”, lo riprese Chabouillet, inarcando leggermente le sopracciglia. “Non c’è bisogno che parli così di lui. È un bravo ragazzo, volenteroso, e sembra sinceramente affezionato a te. E non c’è neanche bisogno che parli così di te stesso: sei un esperto del tuo mestiere e un uomo instancabile”.

Javert posò lo sguardo sul suo mentore, studiandolo per alcuni secondi. Si sdraiò di nuovo, con un gran sospiro, e tornò ad osservare il soffitto. Sembrava improvvisamente fattosi più vecchio di una decina d’anni.

“Non sono nient’altro che uno stolto che non serve più a niente”.

Valjean esaminò il viso di Chabouillet. Lo vide arricciare impercettibilmente il naso e notò un piccolo bagliore di preoccupazione negli occhi. Anche quando la faccia di quell’uomo restava apparentemente seria – forse per non turbare ulteriormente Javert – erano segnali come questi che provavano il suo coinvolgimento.

“È successo qualcosa?”, si arrischiò a domandare.

 Javert accettò di raccontargli tutto quanto era successo il giorno prima, senza escludere neanche il suo ritorno al fiume. Dopo un’iniziale resistenza, le parole erano fuoriuscite come una cascata dalla bocca di Javert, e possiamo dire che, proprio come un getto d’acqua, colpirono in pieno viso il Segretario, che, alla conclusione del racconto, si ritrovò spiazzato non in modo dissimile da un bagnante che fosse stato travolto da due onde in rapida successione.

Ma, alla fine, Valjean ebbe l’impressione che Javert avesse avuto davvero bisogno di sfogarsi a quel modo. Quell’uomo severo tanto con gli altri che con se stesso, che fino a qualche minuto prima era stato così pronto a condannarsi fissava ora Chabouillet con un’aria umile che Valjean avrebbe potuto definire “desiderosa di perdono”, almeno da parte del proprio anziano superiore. Gli si strinse il cuore.

“Javert, anche se non lo sai, avrai sempre il mio perdono”, disse.

Chabouillet si massaggiò le tempie.

“Ti aspettavi che Cosette ti detestasse?”.

Javert gemette un’altra volta, portando anche lui una mano alla fronte. Si stropicciò gli occhi.

“Sì”, ammise, con voce esausta. “Ma non che mi cacciasse. Speravo che il suo rancore le permettesse comunque di usarmi”.

“Usarti?”.

“Per il matrimonio”, spiegò Javert. “Pensavo che avrebbe ugualmente accettato di servirsi di me. E invece--”.

“Javert”, lo interruppe Chabouillet. “È questo che ti ha fermato, ieri sera?”.

Intendeva “dal tuffarti di nuovo”. Javert lo comprese e parve stranamente sorpreso dalla domanda, o forse dalla risposta che aveva pensato di dare.

“No”, cominciò. “Non solo”, si corresse poi. Si morse le labbra, in difficoltà. Valjean, sulle spine, trattenne il fiato.

“Ho pensato a lei, è vero. E anche a Valjean”.

Chiuse gli occhi, mentre Chabouillet si rilassava contro lo schienale della sedia.

“Forse non avevo veramente intenzione di tuffarmi dall’inizio. No, non voglio morire”, concluse Javert, con un sospiro.

Udendo quelle parole, Valjean – forse un’azione terribile in un momento del genere – sorrise.

Chabouillet approfittò di quel momento per alzarsi e sgranchirsi le gambe. Valjean lo osservò andare alla finestra aperta e osservare la città di fuori: una pioggerella leggera ma costante aveva preso a cadere da una decina di minuti, e il fresco – che Valjean poteva ancora avvertire, ma senza che facesse alcun effetto su di lui – e l’acqua erano entrati dentro la stanza. Chabouillet chiuse la finestra e rimase a guardare la pioggia che batteva sul vetro. Se, nei giorni scorsi, c’era stato, in alcuni momenti, abbastanza caldo da potersi illudere di essere in estate, l’autunno si stava ormai infiltrando a Parigi.

Chabouillet guardava la pioggia e, preso da un brivido, si strofinava le braccia.

Valjean si avvicinò a Javert, che si era messo di nuovo a sedere. I capelli scompigliati gli ricadevano da entrambi i lati del volto ma la pupilla del suo occhio era visibile ed era rivolta verso Valjean. Purché Valjean potesse quasi sentire su di sé la concentrazione di quello sguardo, sapeva che in realtà la pupilla di Javert era puntata anch’essa sulla finestra. Come Chabouillet, Javert osservava la pioggia, l’emozione dietro il suo sguardo indecifrabile.

Che il freddo della pioggia gli ricordasse il fiume, si chiese Valjean. Ma accantonò subito quel pensiero. Sentiva una strana tranquillità, nel fondo della sua anima, come se, nonostante lo stato attuale di Javert, il fiume si stesse allontanando da lui quanto la pioggia dietro la finestra, per quanto avrebbe potuto continuare a sentirne il freddo a lungo.

Erano state le parole udite dallo stesso Ispettore, quella strana ammissione di non voler morire, a fargli pensare che, forse, in Javert rimaneva ancora la determinazione che lo aveva fatto rialzare dalla malattia. Javert era un uomo tenace, dopotutto. Valjean sperò che, con il tempo, questa determinazione si trasformasse in sincera voglia di vivere.

“Posso entrare?”, chiese, tutto a un tratto, la voce di Blanchard da dietro la porta. Quando Javert gli ebbe detto “Entrate”, spalancò la porta e fece il suo ingresso nella stanza reggendo un piatto con una porzione di carne tagliata a pezzi e verdure.

“Ecco il vostro pranzo”, disse.

Prima che Chabouillet potesse allontanarsi dalla finestra, fu lo stesso Javert ad alzarsi, ancora in camicia da notte e a prendere il piatto dalle mani di Blanchard.

“Vogliate scusarmi per come sono conciato”, disse. Si sedette al bordo del letto e prese la forchetta.

Prima di cominciare a mangiare, guardò il suo padrone di casa e il suo vecchio mentore e mormorò un “Vi ringrazio” che suonò così sentito da fare arrossire il povero Banchard fino alla punta dei pochi capelli che gli rimanevano.

“Ah, già. Dimenticavo”, balbettò il pover’uomo, imbarazzato, mentre si tastava le tasche del panciotto. Infine, cavò fuori dalla tasca dei pantaloni una lettera. “Mi è stata recapitata questa, prima. È da parte di Mademoiselle Cosette”.

Javert alzò immediatamente la testa dal piatto, con un’esclamazione di sorpresa.

“Cosette!”.

“Datela a me, Blanchard”, disse Chaboillet, fermando con un gesto della mano Javert, che era già sul momento di abbandonare il pasto e alzarsi. “Potete andare”.

Blanchard, congedato, fece un mezzo inchino al Segretario di Polizia e un cenno a Javert. Quando fu uscito, prima di chiudere la porta, si affacciò un’ultima volta dallo spiraglio.

“È rimasto un po’ di cibo, ve lo preparo per cena”.

Chiuse la porta e i due uomini furono lasciati soli nella stanza. Chabouillet aprì la lettera.

“Posso?”, chiese. Javert annuì, la sua concentrazione tutta risucchiata da quel foglio che Chabouillet teneva in mano. “Mangia, però”.

Quando, Javert, obbediente, ebbe ripreso a mangiare, Chabouillet si schiarì la gola e cominciò a leggere: “Monsieur Javert, vi scrivo per scusarmi del mio comportamento di ieri”.

A Javert per poco non andò di traverso il cibo. Tossì violentemente, e riuscì a posare il piatto sul comodino. Chabouillet aspettò che finisse di tossire.

“Vado avanti? È molto corta”.

Javert, con le lacrime agli occhi per il colpo di tosse, riuscì a pronunciare un roco “Sì”, e Chabouillet concluse: “E vi chiedo di poter venire da voi, stasera stessa per potere parlare direttamente con voi da amici. Fatemi sapere”.

Alzò poi gli occhi su Javert.

“Che te ne pare? Accetterai di farla venire qui?”.

“No”, disse Javert.

Chabouillet e Valjean sussultarono.

“Perché?”, chiese il Segretario di Polizia.

“Perché sarò io ad andare da lei”, rispose Javert.

*

“Non volevo disturbarvi”, disse Cosette, quando Javert fu fatto accomodare.

“Nemmeno io”, disse lui. “Non intendevo scomodarvi e ho preferito uscire di casa io stesso”.

Cosette gli fece cenno di sedersi sulla poltroncina di fronte alla sua, ma Javert rimase in piedi.

“Scusatemi, sono stato a letto tutto il giorno. Preferisco stare in piedi”, disse, guardando il muro alla sua sinistra.

Se l’imbarazzo fosse stato visibile, Valjean avrebbe potuto vederlo tutto attorno a loro. Un’altra persona avrebbe distolto lo sguardo, imbarazzata a sua volta, proprio come ora Cosette e Javert, e persino Toussaint, guardavano qualunque cosa tranne i volti degli altri. Ma Valjean non riusciva a non aggrapparsi a quella speranza che sentiva dentro di sé, e rimase a guardare.

“Toussaint”, disse poi Cosette, sforzandosi di suonare decisa. “Potreste lasciarci soli?”.

Toussaint adocchiò Javert con aria incerta, ma fece come le era stato chiesto, e non si limitò a lasciare il piccolo salotto.

“Andrò a fare due chiacchiere con la portinaia”, disse, e uscì di casa.

Quando la serva ebbe chiuso finalmente la porta, Javert si scusò per il disturbo recato.

“Nessun disturbo”, disse Cosette.

Javert alzò le spalle.

“Non volevo farvi uscire con la pioggia”.

“Nemmeno io”, disse di rimando Cosette, timidamente. Aggiunse poi, mentre si rigirava le mani nervosamente: “Siete stato male oggi?”.

Javert rispose con tono assolutamente incolore.

“Non peggio di altre volte”.

Passarono alcuni secondi di silenzio.

La decisione di Javert di rimanere in piedi e in prossimità della porta, mentre Cosette era seduta, rendeva la scena, al contrario delle volte precedenti nelle quali si erano incontrati, stranamente sfavorevole per Cosette. Era come se la giovane donna si sentisse ulteriormente in colpa e in preda al nervosismo proprio perché l’Ispettore si stava rifiutando di scendere al suo livello sedendosi e fosse in qualunque momento pronto ad abbandonare la conversazione andandosene.

Ma, secondo Valjean, quello era sempre stato il meccanismo di difesa di Javert, e non era nient’altro che questo anche in quel momento. La solita cocciutaggine nel rimanere con il pastrano addosso, addirittura umido per la pioggia, probabilmente si traduceva nel desiderio di avere una “armatura” che lo proteggesse, uno schermo che non lasciasse trasparire la sua vulnerabilità.

Valjean ricordava i giorni di Montreuil, quando, secondo le chiacchiere della gente, i suoi abiti nascondevano la sua fisionomia a tal punto da farlo sembrare non una persona, ma quasi un individuo fatto di nebbia, pronto ad apparirti alle spalle al primo sentore di illegalità e scomparire nel nulla subito dopo.

Se Cosette lo avesse studiato più a fondo, avrebbe potuto percepire la sua difficoltà ma chiaramente adesso si sentiva giudicata da lui. Quando gli parlò, non si sforzò neanche di mantenere la voce ferma.

“Mi dispiace per… quello che ho detto ieri”.

“No”, disse Javert, la testa china. “Mi sono meritato ogni parola”.

Cosette non era convinta.

“Ma vi ho chiamato orribile e vi ho mancato di rispetto, quando volevate…”.

“Capisco perché lo abbiate fatto”, la interruppe Javert.

Ma Cosette lo guardò con serietà.

“Questo non giustifica la cattiveria delle mie parole”. Ritornò a fissarsi le mani.

“Dove siete andato, ieri sera?”.

“Al fiume”, rispose Javert.

Cosette fu sconvolta da un tremito. Conficcò le unghie nella gonna, piegò la schiena e gemette: “Monsieur Javert”, rivolgendo nuovamente i suoi grandi occhi tristi verso l’Ispettore.

“Io non voglio il vostro sangue”.

Valjean si accorse che le mani di Javert avevano cominciate a tremare, prima che le infilasse nelle tasche del cappotto bagnato.

“Lo so”, disse lui. La sua voce esitava appena.  “Ma vi giuro questo. Non l’avrei fatto per farvi un favore”.

Cosette si rilassò un po’. Si appoggiò allo schienale della poltrona e lasciò andare la stoffa della gonna.

“Per quello che conta, sono… contenta che non lo abbiate fatto”

Javert alzò finalmente la testa, andando a incontrare lo sguardo della fanciulla.

“Avevo paura”, disse. “Di deludervi di nuovo. Di deludere vostro padre”.

“Deludermi?”, dissero Cosette e Valjean nello stesso momento.

Javert sospirò.

“Sì”, ammise. “Se morissi non sarei di alcuna utilità”

Il suo sguardo, puntato su Cosette, divenne rigido, così come il suo corpo. Un portamento che ricordava quello di un soldato. Con la testa alta e il petto in fuori, parlò a Cosette con tono improvvisamente severo.

“Mademoiselle Cosette, se non intendete perdonarmi, non fatelo. Ma vi prego almeno di servirvi di me per potervi sposare. La vita mi è diventata dolorosa, sì, ma il pensiero di morire è ancora più spaventoso. Ho paura di morire, già”.

Cosette poté solo ascoltare questa declamazione in completo silenzio, e lo stesso fece Valjean.

“Ho paura di morire, in quanto ho il terrore di sapermi perfettamente inutile. Non posso sopportare il pensiero di non aver combinato niente di buono dopo che vostro padre mi ha salvato in cambio della sua stessa vita. Vi chiedo solo questa pietà: di lasciare che vi aiuti finché non sarete sposata. Allora sarò in pace”.

Solo in quel momento, Jean Valjean capì di essere stato uno sciocco.

Aveva creduto che la determinazione a “estinguere il debito” di Javert avrebbe potuto avere effetti positivi su di lui e fargli tornare la gioia di vivere. Ma era stata una speranza semplicistica.

In così tanto tempo, questa determinazione era stata in realtà solo sintomo di paura e senso di inadeguatezza, e anche la sua ammissione “Non voglio morire” non aveva avuto alcun sentimento positivo dietro.

Javert era consumato dalla paura e lo era sempre stato.

“Javert”, Valjean sussurrò quel nome con malinconia. “Sono stato un idiota”.

Ma non avrebbe mai ritenuto “inutile” Javert, come non avrebbe mai definito a quel modo nessuna vita umana. Era triste per la situazione in cui Javert si trovava, ma non rimpiangeva neanche in quel momento di averlo salvato, anzi, avrebbe voluto dirgli quanto gli era grato per come si era prodigato per Cosette e quanto avesse significato per lui.

Per fortuna, fu Cosette a parlare per lui.

“Mio padre non vi ha salvato perché si aspettava qualcosa in cambio”.

Javert non rispose, e abbassò gli occhi umilmente. Ma Cosette non cedette.

“Potreste sedervi?”.

Javert rimase in piedi.

“Ho il cappotto bagnato dalla pioggia”.

Invece di chiedergli di togliersi il cappotto e spogliarlo anche di quella difesa, Cosette preferì alzarsi. Raggiunse l’Ispettore e gli porse i palmi delle mani, un invito a poggiare su di essi i suoi.

Javert tirò fuori le mani dalle tasche e afferrò quelle di Cosette con una delicatezza che avrebbe potuto sembrare estranea in un paio di mani come le sue.

“Mio padre vi avrebbe perdonato”, gli disse Cosette, teneramente. Suonava proprio come una bambina che si stesse rivolgendo a un vecchio zio. “Io non sono mio padre, ma ho visto come vi siete impegnato e vi ho visto piangere. Sarei stupida a non riconoscere il vostro pentimento. Quindi, se anche voi volete riconoscere il mio… Possiamo ricominciare daccapo?”.

Valjean, avendo raggiunto i due, poté vedere che gli occhi di Javert erano lucidi, quando li rivolse infine verso Cosette.

“Vi giuro che non avrete più alcun motivo di essere delusa di me”, disse, con voce spezzata.

“E io vi giuro”, disse Cosette. “Che non avrete più bisogno di preoccuparvi di questo”.

Gli strinse le mani.

*

I giorni ricominciarono a scorrere, come avevano fatto prima della notte della confessione.

Ma questa volta la situazione era diversa: Javert e Cosette non avevano più bisogno di nascondersi nulla a vicenda.

Valjean li osservava, quando Javert si offriva di accompagnare Cosette al parco come lui aveva fatto quando era ancora in vita, o quando era Cosette che lo andava a trovare e passava il tempo insieme a lui durante le serate più tristi.

Li osservava, contemplava se stesso in quel nuovo quadretto e si diceva che, se fosse stato ancora vivo, avrebbero formato una curiosa famiglia.

Lentamente, si accorse anche che l’umore di Javert aveva cominciato a migliorare. Il processo era stato lungo e con alti e bassi ma i giorni diventarono mesi e Javert andava aveva ricominciato ad andare a lavoro quasi con la confidenza di prima, e gli episodi di crisi si erano fatti meno frequenti. Aiutava i futuri sposi con i preparativi ed era stato accettato a tutti gli effetti dalla famiglia di Gillenormand.

Arrivò infine, a Febbraio, il giorno del matrimonio.

Valjean non era riuscito a non essere nervoso almeno un po’ e così aveva parlato con un’anima durante l’attesa: l’anima della ragazza morta alla barricata.

“Sono felice per loro”, aveva detto Eponine, suonando realmente contenta per Marius e Cosette. Valjean ricordava il racconto di Marius, e Eponine stessa gli aveva ammesso di essere stata effettivamente gelosa di Cosette. Aveva anche confessato di aver voluto Marius morto, per poterlo avere per sé.

Ma ora, quei terribili sentimenti non la torturavano più. Dopo aver potuto sentire su di sé il vero Amore, non aveva più pensato a quello che aveva provato personalmente come nient’altro che un’ossessione, un sogno per una vita migliore.

“In ogni caso, sono grata che entrambi mi abbiano perdonato”, disse infine, congedandosi nel momento in cui la sposa faceva il suo ingresso in chiesa, accompagnata da Javert.

Nel momento in cui i due amanti furono dichiarati marito e moglie, Valjean volse il suo sguardo verso Javert, accanto a lui, e lo vide sorridere.

Javert sorrideva, e quello, da quel che Valjean ricordava, era il primo sorriso sincero che aveva potuto vedere sul suo volto.

Fu una strana visione: l’unico sorriso che Valjean era stato abituato a vedere comparire sulle labbra di Javert era il ringhio mostruoso della bestia che acciuffa la sua preda. Quel nuovo sorriso era così diverso, ma forse non meno bizzarro. Le gengive scoprivano ancora i denti, ma attorno al naso non si erano formate linee minacciose. Anche gli occhi furono raggiunti dal sorriso, ma invece di lampi di disprezzo, in essi vi era una luce di autentica gioia.

Quel sorriso arrivò al cuore di Jean Valjean.

Mentre la coppia di sposi coronava il proprio sogno d’amore, quel vecchio spirito si accorse di essersi innamorato a sua volta.

*

Non aveva preso parte alla festa.

Non che facesse differenza, per lui, prendervi parte o meno, ma aveva il sentore che si sarebbe sentito un pesce fuor d’acqua anche se fosse stato vivo.

In ogni caso, si sentiva agitato e non sarebbe riuscito a rimanere in un posto solo per tutta la sera. Quindi, andò in giro per la città, senza fare caso alle persone e ai fantasmi per le strade. Forse vide Gavroche, forse no, non avrebbe potuto dirlo con certezza.

Verso notte fonda, le sue peregrinazioni lo portarono ai giardini del Lussemburgo, completamente deserti.

Decise di fermarsi e si sedette sulla panchina che era stato solito occupare quando era ancora in vita. Esaminò se stesso. Cosa gli stava accadendo? Si scoprì esultante. Sentiva dentro di sé una gioia mai provata prima.

Cosette era finalmente sposata e le aspettava un futuro sicuro e molto più felice di quello che avrebbe potuto avere con il vecchio padre, o da sola. Solo questo bastava a renderlo raggiante. In aggiunta, quando ripensava a Javert e al suo sorriso, si sentiva estasiato da quel ricordo così vivido e splendido nella sua mente.
 
Valjean amava Javert, ora ne era certo. E, cosa assai stravagante, non riusciva a sentirsi in colpa per questo.

“Dovrei sentirmi in colpa?”, disse ad alta voce, rivolgendosi alle anime ascese come faceva sempre per chiedere un consiglio. Nessuno gli rispose.

“È sbagliato, per uno come me, farsi trascinare da questi sentimenti?”, continuò. Le anime in gloria potevano amare di un amore puro e universale, e questo era così specifico e di natura inequivocabilmente romantica. Un amore da uomini vivi, ma lui non era vivo.

Nessuno rispose.

“Enjolras e Grantaire si amano di amore romantico”, disse, stavolta più a se stesso che alle anime. “Ma Javert è ancora vivo e non può ricevere questo sentimento. Faccio bene a indirizzarlo verso di lui?”.

Nessuno rispose.

Pensò di nuovo a Enjolras e Grantaire. Enjolras gli aveva parlato della sua convinzione nella forza dell’amore: “ Certo, come tutti i sentimenti umani, può venire distorto ed esagerato, ma finché rimane puro, è la vera forza del genere umano”.

Cosa rendeva il suo amore meno puro di quello provato dalle anime nella Gloria?

Ricordò cosa gli aveva detto Eponine: che il suo amore per Marius era stato un’ossessione. Quello le aveva fatto desiderare la morte dell’amato. Quello era un amore distorto.

“Io voglio solo il bene di Javert. È un amore impuro, il mio?”.

Nessuno rispose.

Per ultimo, pensò alla prima volta in cui aveva riscoperto l’amore, dopo la prigionia.

Era stato quando aveva preso con sé Cosette. Quel sentimento lo aveva elevato come persona e gli aveva reso più bella la vita.

Cosa c’era di diverso tra quell’amore e quello per Javert?

Nessuno rispose.

In realtà, si disse, è per forza diverso nella sua natura. Ma, nei sentimenti che gli suscitava, non era poi così diverso. Si sentiva in uno stato di ebbrezza e di ottimismo, e questo non gli dispiaceva affatto!

“Sono stato perdonato da tutti, per le mie cattive azioni! Persino da Cosette”, esclamò, improvvisamente. “Per cose che percepivo come mie malefatte. Ma allora--”.

Si alzò in piedi. Lo si sarebbe detto pronto a fare un annuncio importante.

“È tempo che io perdoni me stesso. Amo Javert e non trovo assolutamente alcun motivo per condannarmi!”, disse, ed esplose in una fragorosa risata.

Tutto a un tratto, un’altra risata, nel profondo della sua anima, si unì a lui.

“Bravo! Ben detto!”, gridò il vescovo Myriel, e continuò a ridere.

*

Qualche tempo dopo il matrimonio, Cosette aveva chiesto a Javert se era capace di scassinare una serratura. Javert, servo della legge che si era comunque istruito nelle oscure arti del crimine per meglio riconoscerlo, impersonarlo come spia e contrastarlo, le aveva detto “Sì, se mi date del tempo, dovrei riuscire a scassinare una serratura del genere”, quando Cosette gli aveva presentato la piccola inseparabile valigetta di Valjean.

Valjean non temeva più nulla. Non c’era niente di terribile, in quella valigia.

Javert, una volta scassinata la serratura, l’aveva presentata a Cosette.

“Cosa sono questi vestiti?”, aveva mormorato Toussaint, quando Cosette aveva tirato fuori i vecchi abitini neri che Valjean le aveva comprato quando era piccina e che lei aveva riconosciuto.

Gli occhi di Cosette si erano velati di lacrime.

“Li aveva nascosti per tutto questo tempo? Era proprio uno sciocco… uno sciocco…”.

La persona più vicina a lei era stata Javert, quindi non era stato così sorprendente che avesse abbracciato lui, invece di Toussaint, prima di scoppiare a piangere.

Più singolare era stato che Javert aveva ricambiato l’abbraccio.

Cosette piangeva; Valjean no. Era in pace.
 
Autrice:
Salve gente! Come va?
Questo capitolo è stato difficile da scrivere. Ho avuto più paranoie del solito a causa degli argomenti trattati. Avevo paura di suonare accondiscendente e irrispettosa, e ho fatto fatica a scrivere. Temo che lo stile risulti anche goffo e poco scorrevole. Alchimista mi ha risollevato l'autostima, però, cosa di cui la ringrazio ancora <3. Ma se avete problemi con il capitolo per qualche motivo, non esitate a farmelo sapere.
In ogni caso: quello che doveva essere, all'inizio, il terzo capitolo è finalmente concluso! Yay!
Un'altra cosa di cui volevo parlare è: è OOC, per Javert, essere capace di scassinare una serratura? E' una preoccupazione dell'ultimo minuto. Non so se il personaggio di Hugo avrebbe mai accettato di fare una cosa del genere, ma, d'altra parte, il personaggio di Hugo non è stato salvato dalla morte, quindi Non Lo Sapremo Mai (cit.).
Un possibile plot hole che rischio di generare è: se Javert è capace di scassinare una serratura, perché diamine non l'ha fatto quando Thenardier si è rifugiato nelle fogne? Bene, la spiegazione, per quanto riguarda questo universo, è questa: voleva prendere Thenardier vivo, sapeva che c'era il fontanile lì vicino, e non voleva rischiare di spaventarlo spingendolo a nascondersi o a cadere nel fontanile, per cui ha aspettato fuori, cercando di dargli la falsa speranza di aver scampato il pericolo. Spero che regga (?).
Un grazie, come sempre, a chi legge, segue, o recensisce ecc. Cià.
  
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