» 4. Can it get
any worse than this?
Alla fine, era stato solo qualche
giorno dopo quella tacita e segreta decisione che Shougo aveva trovato il coraggio di chiedere espressamente
a sua madre se, la prossima volta, sarebbe potuto venire a vedere quella radiografia
o ecografia o qualsiasi nome avesse quella cosa che serviva per ottenere
quelle fotografie incomprensibili in bianco e nero, dirigendosi addosso una
serie di battutine divertite da parte della donna e di sguardi incuriositi da
parte di un fratello che, una volta tanto, aveva ben pensato di starsene in
silenzio, tenendosi per sé qualsiasi eventuale, stupido commento potesse essere
sbucato in quella testa di legno.
Non che sarebbe così
strano, se si fosse stupito di tutto quell’interesse: lui per primo si
capacitava a fatica di quella curiosità così stupidamente infantile, di quel
bisogno di conoscere il funzionamento di certe cose. Non era riuscito a prendersela
a male come era successo con Shinya, che dopo la
sfuriata di quella sera si era limitato a commentare solo raramente il fattaccio,
come lo chiamava a volte, con fredda impersonalità; ma d’altra parte neanche
vedeva perché impuntarsi così tanto e reagire in modo così negativo: ormai il
danno era fatto, perché continuare ad arrovellarsi su qualcosa che comunque non
aveva rimedio? O meglio, uno ce n’era — l’argomento aleggiava
continuamente senza mai essere affrontato, ma in un paese come il Giappone,
dove quella soluzione era proibita se non per motivi urgenti, per una famiglia
instabile come la loro era troppo rischioso cercare di
perseguire una strada del genere. E poi, figurarsi se quella avrebbe
acconsentito! Sapevano tutti che una proposta così rischiosa sarebbe sfociata
nell’ennesima, violenta lite che tutto le avrebbe fatto meno che bene,
soprattutto contando che forse, in fondo, si sarebbe opposto anche lui.
Sapeva ormai che il suo
giudizio in quella casa valeva come un pezzo di carta igienica usata,
soprattutto agli occhi dell’autodichiarato capofamiglia, ma Shougo non
voleva sinceramente che succedesse qualcosa di male a quel coso strano che
vedeva su quel rettangolino di carta ogni volta che ci
posava l’occhio. E questo succedeva ben più spesso del previsto, visto che quella foto risiedeva ora al sicuro nel suo
portafoglio: era da tanto che non si attaccava così tanto a qualcosa, a livello
materiale o spirituale, che non riguardasse una vendetta o qualche discutibile
bisogno di far male a qualcuno per il puro gusto di sentirsi superiore. Era
come sorta in lui una specie di infantile curiosità
che non sentiva da tanto, un bisogno insistente ma non morboso di capire.
Che fosse anche, in parte, perché in effetti era una
delle poche esperienze in assoluto che non avrebbe mai potuto (e voluto,
onestamente) copiare? Che persino quella rinnovata bramosia di sapere fosse
semplicemente un desiderio egoistico, che si sarebbe estinto non appena si
sarebbe stancato di continuare a star dietro a quella ridicola storia? Forse
era quello di Shinya l’atteggiamento giusto, forse avrebbe davvero indignarsene
più che conservare quello stupido, celato entusiasmo, ma ogni volta si rendeva
conto di quanto per lui fosse pressoché impossibile riuscirci seriamente. Una
volta tanto che non era indisponente nei confronti di una certa cosa, diamine,
perché doveva necessariamente perdere d’interesse? Stavolta il bloc-notes
mentale servì solo per tirarsi una serie di metaforici sganassoni sulla fronte,
mentre si chiudeva alle spalle il portellone del furgoncino per immettersi
ufficialmente in un’altra giornata del suo lavoro part-time.
Fortunatamente, in quella
manciata di giorni non si era più trovato davanti nessun incontro sgradevole
quando era tornato lì per lavoro: il signor Ishihara,
una volta tanto, era uscito dalla sua personale bolla per fare qualche
domanda qua e là, informandosi sui giorni in cui era più probabile che Ryouta sarebbe sbucato dal
nulla, magari ancora convinto di essere il centro unico di chissà quale
complotto nei suoi confronti. Purtroppo, quel pomeriggio non era tra i più
fortunati — ma se non altro Shougo aveva presto
imparato a seguire l’esempio del proprio capo nel farsi i fatti propri,
limitandosi a scaricare quel che doveva scaricare e
caricare di nuovo sul furgone quello che aveva da caricare, cosicché, se anche Kise fosse stato diviso da lui da una singola porta
scricchiolante, in nessun modo i due avrebbero avuto occasione di rendersi
conto della presenza l’uno dell’altro. Per colpa di quel confronto di cui
avrebbe fatto più che volentieri a meno la sua volontà già precaria stava
iniziando a vacillare, ma se le cose fossero rimaste stabili così come con
ottimistica testardaggine cercava di convincersi, allora non avrebbe avuto più
nulla di cui lamentarsi.
Seguì il proprio superiore
senza dire una parola, come fermissimamente deciso a
perpetrare in quel voto di assoluto silenzio (e menefreghismo), un
grosso scatolone in mano e la visiera del cappellino immancabilmente calata sul
viso per rendersi il più anonimo possibile mentre attraversava quei corridoi
che ormai conosceva a memoria. Stava finalmente iniziando a prendere
familiarità un po’ con tutti i luoghi che frequentava per via di quell’impiego,
e naturalmente lo studio di fotografia non ne era esente: per quanto ne avesse
vista per bene solo una sezione, ormai poteva comunque dire di conoscerla non
come casa sua ma quasi, riconoscendo a colpo d’occhio tutte quelle facce che
ormai sapeva essere le presenze immancabili. C’era la
bella tipa timida che ogni tanto lo salutava con gli occhi da sopra le lenti
degli occhiali, l’addetto alle luci che aveva la stessa vitalità di un’anguilla
morta, un paio di truccatori e di addetti ai costumi e…
- Haisaki?
-
Raggelò, stringendo così
forte le dita sullo scatolone che fu piuttosto sicuro che le proprie impronte
digitali rimasero chiaramente visibili sul cartone
ondulato. Purtroppo, ormai anche quella voce fastidiosa gli era orribilmente
familiare: aveva scoperto solo di recente che quella tipa, nonostante i soli
due neuroni che si inseguivano disperatamente nella
sua testa, da quelle parti era un po’ un pezzo grosso, anche se ignorava quale
fosse la sua posizione. Non truccava, non vestiva, non assisteva e non
fotografava; era lì per ciarlare e basta?
Alzò gli occhi a lei, Shougo, incontrando un viso stranamente severo e
corrucciato. Era la prima volta che la vedeva in quello stato, che era
successo? E soprattutto, Haisaki? Ancora?
Quante volte l’aveva corretta?!
- Haizaki.
- perseverò, mugugnando - … serve qualcosa? -
- Voglio parlare col tuo
superiore, adesso. -
Scandì, probabilmente
credendosi minacciosa, piantandosi le mani chiuse a pugno sui fianchi. L’altro
inarcò un sopracciglio, cercando di farsi meno domande possibili.
Indicò con un cenno del
capo l’uomo davanti a lui — chiaramente più anziano, chiaramente
vestito come lui e chiaramente occupato nella stessa mansione, e
probabilmente facentesi vedere da quelle parti da anni. Era un ometto anonimo e
un po’ invisibile, ok, ma pure lei ce ne stava
mettendo del suo a risultare sempre più stupida.
La seguì con lo sguardo nel
suo sussultare, come effettivamente notando l’uomo solo in quel momento,
vedendola zompettare su quei tacchi vertiginosi fino
ad avanzare davanti al signor Ishihara.
- Mi spiace dover arrivare
a questo - esclamò, come colpita dalla peggior offesa e portandosi,
drammaticamente, una mano sul petto - … ma il suo impiegato qui non è il
benvenuto. -
E in quel momento, a Shougo avrebbero potuto fare di tutto.
Avrebbero potuto prenderlo
a bastonate, pestargli i piedi, tirargli un calcio in mezzo alle gambe —
niente l’avrebbe risvegliato da quell’improvviso e immediato stato semicatatonico in cui quelle parole l’avevano buttato, come
trattandosi di un’antica e segreta formula misteriosa per annullare
completamente la voglia di vivere di chiunque ci si trovasse davanti.
“Non è il benvenuto”
— non era la prima volta che glielo dicevano; nel corso della sua breve
vita era stato coinvolto più di solo qualche volta in incidenti del
tutto indipendenti dalla sua volontà che l’avevano costretto ad allontanarsi da
luoghi che frequentava abitualmente, ma quella volta furono parole che
arrivarono come un fulmine a ciel sereno. Ripercorse con la mente tutti i
momenti in cui aveva messo piede tra quelle mura, cercando di ricordare se
avesse combinato qualcosa che avrebbe potuto meritarsi un qualsiasi tipo di
marchio a fuoco sulla coscienza, ma niente gli
riaffiorò alla memoria. Che cosa aveva fatto?
- Anzi, vorrei che
svuotasse le tasche qui, davanti a tutti. E che ci faccia vedere il contenuto
del suo portafoglio. -
Ancora sotto l’incantesimo
di quella strega stridula posò lo scatolone a terra, avvicinandosi
meccanicamente a lei e rovesciando il contenuto delle proprie tasche sul
pavimento: l’unica cosa che ne scivolò fu un pacchetto
di sigarette mezzo consumato e qualche scontrino, e neppure l’esame del portafoglio
fu troppo soddisfacente. Quattro banconote di bassa taglia tutte spiegazzate e una manciata di monetine non potevano incriminarlo di
niente, no?
- … posso sapere cosa ho
fatto? - biascicò, sempre più immerso in quella dimensione così surreale. Aveva
praticamente sempre avuto la coscienza sporca, non lo
negava, quindi si trovava perfettamente incapace di replicare ad un’accusa
infondata per l’unica volta che non aveva davvero fatto nulla. Anche se, ora
che ci pensava, una singola macchia c’era effettivamente stata da quando
frequentava anche quelle zone. Ma non poteva essere
stato davvero quello il motivo di un simile attacco, no? Non poteva
essere stata la litigata con quell’imbecille, giusto?
Strizzò gli occhi quando
sentì quella vocetta tartassargli i timpani, e un dito minacciosamente unghiato
punzecchiarlo odiosamente nel mezzo del petto.
- Non ti azzardare a
rispondermi così e a fare finta di nulla, sai? Non ti
azzardare neppure, non farai che peggiorare la tua situazione, ladro! -
LADRO?!
- Mi scusi. - la mano del
signor Ishihara lo scostò da una parte, impedendogli
di ribattere prima di compiere l’irreparabile - Ma è scomparso qualcosa? Posso
capire che i sospetti ricadano sul nuovo arrivato, ma… -
Occhieggiò la tizia
esitare, incrociando le braccia e raddrizzandosi sulla schiena. Bene, ora
voleva proprio sapere che cosa doveva aver rubato in un fottuto studio di
fotografia che, quando arrivava lì, era privo di qualsiasi attrezzatura.
Nemmeno una lampadina sarebbe stato in grado di
nascondersi nella salopette!
- … niente. -
- Mi scusi? -
- Non è stato rubato niente. - continuò quella, e Shougo poté sentire chiaramente cascargli le braccia e non
solo. Riprese la parola, scavalcando l’altro uomo e tornando faccia
a faccia con la patetica donna.
- Si può sapere allora su
che diavolo di base mi state accusando di aver rubato
qualcosa?! - ringhiò, sentendosi lentamente risvegliare dall’ipnosi profonda
che l’aveva asfissiantemente avvolto fino a quel momento, palesando
completamente l’indole aggressiva che si era ripromesso di tenere quanto più
possibile nascosta almeno davanti a coloro che avevano
tutto il potere di cacciarlo da lì da un momento all’altro - Se non c’è il
furto come fa ad esserci il ladro?! -
- Haizaki,
per favore, ci penso io a chiarire. - il signor Ishihara
tentò di intervenire, ma fu subito coperto dalla risposta dell’isterica lì
davanti.
- Per quel che ne sappiamo potrebbe essere stato rubato qualcosa e non ce ne
siamo ancora accorti! -
gracchiò, sempre più fuori di sé dalla rabbia, le rughe
d’espressione che scavalcavano gli otto strati di make-up e iniziavano a far
venire dubbi su quale fosse la sua reale età anagrafica - E poi, abbiamo fonti
certe che ci hanno assicurato che il tuo curriculum non è esattamente
pulito. -
“Fonti certe”.
Shougo
non aveva mai provato una sensazione simile. Per lui, la rabbia era sempre stato un processo lento, un crescendo progressivo che prima
o poi sfociava nei suoi soliti atti irragionevolmente violenti; dovendo fare un
paragone stupido era un po’ come un marshmallow
lasciato troppo fuoco, lì per lì reso solo un po’ amaro dalle bruciature, poi
diventando ingestibile e fastidioso quando iniziava a colare e appiccicarsi
dappertutto.
In quel momento, però,
l’astio che provava era tutto diverso. Si sentiva più simile ad
un vulcano, che dal niente si era svegliato e aveva deciso che tutto quello che
lo circondava gli aveva rotto così tanto il cazzo che non vedeva l’ora di
affogarlo sotto la propria ira.
C’era solo una persona che avrebbe potuto rappresentare una fonte certa, un
unico stronzo che avrebbe potuto lasciar trapelare queste cose; e se i propri
pugni dolorosamente stretti erano come lava, si promise che ce
lo avrebbe sommerso dai piedi fino alla punta di quei capelli
fintissimi. Non c’era più ragione nelle sue azioni, neppure la certezza che
qualsiasi incidente sarebbe stato pressoché fatale bastava a
dissuaderlo: sentì vagamente il signor Ishihara
richiamarlo, alle sue spalle, ma senza fare nulla per fermarlo; e senza
aggiungere altro fece dietrofront da quel dannato covo di matti.
Il suo obiettivo non era
rimanersene fuori e aspettare che sbollisse — chi se ne fregava, ormai,
di farla sbollire? Quella pazza avrebbe fatto il lavaggio il
cervello al suo capo, che per evitare casini l’avrebbe licenziato anche se
quello studio non rappresentava la loro unica clientela. Tanto valeva
avvantaggiarsi, e dimenticare ogni timore di sporcarsi le mani.
Dal vicolo in cui erano
soliti appostarsi non ci mise molto, scuro in viso, a raggiungere la facciata
principale dell’edificio. Li aveva sentiti spesso vantarsi di quanto fossero
professionisti e di come pochi altri riuscissero ad
eguagliare la qualità dei loro scatti, come se il loro lavoro fosse una specie
di dono del Signore caduto per rischiarare la sorte dell’umana stirpe, ma come
tutte le altre volte che aveva vagamente occhieggiato il marciapiede davanti
allo studio neanche stavolta ci trovò una calca di persone ansiose di farsi
inquadrare dai loro preziosissimi obiettivi.
A dire
la verità, l’intera zona era sempre un po’ deserta. Proprio come lui non
aveva mai sentito il desiderio di lasciarsi immortalare in un book fotografico
e quelle menate là, evidentemente anche il resto della gente era della medesima
opinione, relegando automaticamente quel genere di sfizi come qualcosa per
occasioni estremamente speciali o, tuttalpiù, uno
sfizio dispendioso dedicato solo alla fetta più facoltosa e annoiata della
popolazione. Ma non era ciò che in quel momento lo stuzzicava, mentre una
smorfia crudele gli increspava brevemente le labbra: l’importante era la
conseguenza basilare di tutto questo; ovvero che di testimoni, lì intorno, praticamente non ce n’erano. D’altronde sarebbe stato un
problema se qualcuno avesse provato ad accorrere, no? Rimase in disparte,
attento a non dare nell’occhio ma pronto a svelarsi non appena sarebbe arrivato
il momento, le dita che nelle tasche fremevano per fare quello che, a regola,
riuscivano a fare meglio. E quando a poca distanza adocchiò quel deficiente
tutto solo, col cellulare in una mano e un sorrisino stupido stampato sulla
faccia, la sua mente si svuotò di ogni altro pensiero se non quello di
avventarsi su di lui, trascinarlo in un vicolo e preferibilmente gonfiarlo di
botte.
Lo colse di sorpresa
afferrandolo per la maglietta mentre era distratto, strattonandolo con una
veemenza tale che fu piuttosto sicuro di sentire la
stoffa tendersi fin quasi al punto di strapparsi. Godette del
verso lamentoso che uscì dalle sue labbra mentre come un sacco di patate lo
sbatteva con la schiena contro al muro, irremovibile davanti a quegli occhi
dapprima confusi, e poi infinitamente, quasi spaventosamente risentiti.
- Lasciami immediatamente,
o chiamo la polizia. - gli sibilò Ryouta,
ancorando le proprie mani al suo polso. Shougo lasciò
a malapena che quelle parole turbassero le sue orecchie, mentre alzava
minacciosamente il pugno.
In quel momento non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello che, di
fatto, tutto quello che stava facendo giocava solo a favore dell’idea di lui
che stava iniziando a diffondersi anche da quelle parti. Se tanto lo faceva
incazzare, se odiava essere considerato solo un teppista buono solo a
scatenare risse senza motivo, perché in quel momento se la stava prendendo in
quel modo con la presunta causa di quelle voci? Erano tutte domande che si sarebbe dovuto porre prima di abbattere le nocche chiuse
contro di lui, prima di sentire quel dolore lancinante partirgli dalla mano e
ripercuotersi lungo tutto il braccio.
- Cazzo—!! - agonizzò, dal profondo della sua gola. Quello stronzo
era riuscito a spostare sufficientemente il viso all’ultimo momento, e
l’obiettivo della rabbia di Haizaki era diventato il
muro di mattoni alle sue spalle. Non che bastasse questo a scoraggiarlo:
raccogliendosi in un attimo di dolore tornò presto a puntare, furioso, gli
occhi contro i suoi, stizziti sì ma quasi… indifferenti.
- Certo che hai proprio un
bel coraggio, tu. - gli ringhiò addosso, stringendo
così forte la presa sulla sua maglietta da farsi sbiancare le nocche, che
esauste iniziarono a tremare. Lo vide tendersi un pochino, spaziare con lo
sguardo verso il pugno ancora premuto contro il muro, ma gli
bastò uno scossone per riportare la sua stupida attenzione verso di sé.
- È questo il gioco a cui vuoi giocare? Quello del perfetto pezzo di merda? - lo incalzò ancora, leggendo nei suoi occhi solo uno sguardo
quasi interrogativo - Ti senti tanto meglio di me, ora che m’hai messo in
cattiva luce? Ti diverte così tanto l’idea di farmi perdere il lavoro, eh? -
Lo vide sgranare
stupidamente le palpebre, come colpito da quelle parole.
- Io non sto cercando di
fare proprio niente, e ora lasciami. -
- Ah sì? E chi l’ha messa
in giro la voce che non sono affidabile, Cristo? - replicò, immediatamente.
L’altro si strinse nelle spalle, ma stavolta sembrò quasi, quasi,
colpevole.
- Non ho
messo in giro voci. - mugugnò, guardando basso, ma subito dopo tornando a
fissarlo negli occhi - Mi hanno chiesto perché
evitassi continuamente, che dovevo fare, inventarmi una stronzata? Dire che non
ti avevo notato? Io ho solo detto la verità, se
qualcuno ha frainteso la responsabilità non è mia! -
Ma si
ascoltava mentre parlava?
Gliene avrebbe volute vomitare addosso di tutti i colori; avrebbe voluto
dirgli a chiare lettere quanto trovasse stupido quel ragionamento e quanto le responsabilità
(stava sinceramente iniziando ad odiare quella parola) gliele avrebbe infilate
in anfratti remoti e oscuri, ma era ormai palese che non era mai stato bravo a
tessere discorsi.
Tirò di nuovo su il pugno
dolorante, stavolta quanto mai intenzionato a colpirlo sul serio — ma non
appena tentò di pendere slancio, una mano si pose con fermezza sul suo
avambraccio.
- Basta, Haizaki. Ora lascialo. -
Sussultò appena quando la
voce del signor Ishihara raggiunse le sue orecchie,
voltandosi quasi spaventato verso di lui. Di tutti i testimoni che aveva
evitato, naturalmente l’unico che sotto sotto preferiva
non vedesse nulla era stato anche il solo a vedere quello spettacolo consumarsi
sotto il suo sguardo.
Kise
approfittò di quell’attimo di stupore per liberarsi finalmente dalla sua presa,
spingendo via Shougo e allontanandosi di qualche
passo. Non disse niente, ma bastava la sua espressione a comunicare tutto il
risentimento e la rabbia per un’aggressione, a suo parere, del tutto
immotivata.
… e in fondo, in effetti,
lo era. Shougo sapeva che Ryouta
non era la causa diretta di quell’impilarsi di problemi, per quanto la sua
influenza fosse comunque innegabile; solo allora si rese conto di quanto le sue
azioni avessero peggiorato le cose, e di come si fosse praticamente
scavato la fossa da solo.
- Capo, io… - non seppe
nemmeno come proseguire, mentre l’uomo gli lasciava il braccio e a malapena lo
degnava d’attenzione. Si diresse verso Kise, serio,
levandosi il cappello e abbozzando un inchino col capo.
- Sono affranto che un mio
dipendente le abbia causato qualsiasi tipo di disagio, in
quanto suo responsabile le chiedo infinitamente perdono. - fece, prima
di rimettersi dritto con la schiena e sospirare, risistemandosi in testa il
berretto dell’uniforme e scrollando le spalle. Sembrò dimenticare ogni
formalità mentre tornava a guardarlo negli occhi, se possibile ancora più serio
di prima.
- … anche se, ragazzo, sai
quanto stravedono per te là dentro, e quanto tengono in considerazione tutto
quello che dici. Magari non è stata colpa tua e non volevi succedesse, ma ‘sta
testa calda qua dietro vuole solo lavorare in pace. Adesso avresti tutto il
diritto di dire quello che vuoi, per carità…. ma penso
che non sia stato carino metterlo così in cattiva luce in primo luogo. Proviamo
a chiudere un occhio, hm? D’ora in poi ci faccio più attenzione pure io. -
Con gli occhi completamente
sgranati, Shougo non sapeva per cosa essere più
sorpreso. Per il fatto che Ishihara
fosse in grado di parlare per più di dieci secondi di fila, forse, o per la sua
sorprendente e del tutto inaspettata capacità di argomentare così bene una
posizione sfavorevole per farla diventare a proprio favore?
… o forse anche solo per il fatto che stava prendendo le sue difese?
L’altro gli
si avvicinò con al solita, rinnovata flemma, appoggiandogli pesantemente una
mano sulla spalla. Tacque, lungamente, abbassando la mano e sfilandogli di
tasca l’altro pacchetto di sigarette,
quello appena acquistato e nemmeno ancora sbustato
che nascondeva per emergenza.
- Ma
ehi… -
- È il minimo. Dopo quei
due, non voglio più parlare con nessuno per una settimana. - borbottò,
accendendosi una sigaretta. I suoi movimenti erano sempre lenti, mortalmente
lenti, ma c’era una nota sottile d’irritazione che a Shougo
era tutta nuova.
- Non so chi è più cretino;
lei che ascolta solo se stessa, lui che non guarda più in là del proprio naso,
o tu che te ne esci a pugni serrati a fare a botte mentre cerco di pararti le
chiappe. - continuò, in quello che sembrava una specie di nervoso, mugugnante
monologo, minaccioso abbastanza da rassomigliare il borbottio dei tuoni di un
temporale in lontananza, ma comunque sufficientemente remoto per non
rappresentare davvero un rischio immediato - Ho
sistemato le cose, là dentro, abbiamo ribaltato persino il magazzino per
assicurarci che non mancasse nulla, e se tutto va bene il biondino non ci
metterà più bocca. Ma fatti beccare un’altra volta a fare a cazzotti e ti
licenzio, eh. -
Non pensava che un tono di
voce così torpido potesse anche incutergli così tanto timore, ma il ragazzo non
riuscì a trattenere il brivido sfacciato che corse lungo la schiena. Niente
più sgarri, l’aveva capito — e anche se
continuava a credere che non fosse colpa sua, persino lui comprendeva che non
era il caso di insistere ancora.
Sospirò, passandosi una
mano dietro la testa. Il vulcano si era finalmente placato e alla furia
dell’eruzione si stava, lentamente, sostituendo la calma che ne conseguiva; ma
a che prezzo? Nonostante le cose si fossero concluse
in suo favore aveva comunque ricevuto il suo primo ammonimento, e anche se il
signor Ishihara aveva parlato con chi di dovere per
sistemare la situazione, era ovvio che là dentro avrebbero comunque continuato
a guardarlo a lungo con una punta di sospetto. Che palle.
- … mi dispiace. -
borbottò, concludendo che forse quella era l’unica
cosa intelligente da poter dire. Non guardò nemmeno il proprio capo negli
occhi, anche se ne sentì lo sguardo addosso.
- Te l’ho detto,
l’importante è che non succeda di nuovo. - lo sentì
replicare, e nella sua voce era fortunatamente tornata la solita, piatta
indifferenza. Annuì, quasi distrattamente, affondando la mano nelle tasche e
recuperando il portafoglio.
Era a malapena passata
l’ora di pranzo, e già quella era riuscita ad avere tutti i presupposti per una
giornata di merda. Non che non fosse abituato a menare le mani, a mettersi nei
casini e quant’altro — ma più ingiustamente gli succedeva, meno aveva
voglia di perseverare nel suo dovere. Ma mollare
proprio adesso sarebbe stata una doppia sconfitta, no? Sarebbe stato come
provare a tutti che allora, davvero, l’unica cosa che
era bravo a fare era essere un incompetente buono a nulla, e l’implicita
scommessa che aveva fatto con se stesso e con chiunque dubitasse del contrario
si sarebbe disintegrata dopo troppo poco tempo per essere anche solo
lontanamente valida.
… anche se, in tutta
sincerità, non era sicuro che fosse unicamente
quell’immaturo e ostinato orgoglio a farlo perseverare. Scorse tra le dita tra
i comparti del portafoglio pieni di cartacce risalenti al paleolitico,
fiducioso, ma quando l’unica cosa che sarebbe dovuta
trovarsi lì non gli saltò all’occhio per poco non gli cascò tutto di mano.
Ishihara
notò quasi subito la sua espressione sconvolta e demotivata, accostandoglisi
con una preoccupazione sottile furbamente celata sotto la solita maschera.
- … oi, tutto bene? - gli
fece, ma quasi Shougo non lo
sentì. Quanto diavolo poteva essere deficiente?! Di
sicuro non era niente di grave, ma in quel momento provava solo il desiderio di
scavare una fossa e nasconderci dentro la testa per tutta l’eternità.
- … ho perso l’ecografia. -
Buonasera!
Per me “l’incubo del
quarto capitolo” è qualcosa che si ripresenta ogni volta che cerco di scrivere
una long, e ammetto che averlo superato mi fa tirare un sospiro
di sollievo. La storia sta per scivolare verso uno dei primi punti di
svolta, e mi sento un tripudio di fiducia e di buoni propositi.
Questo doveva essere
un capitolo transitorio, ma alla fine ho scritto più di quanto credessi. Sarà
che da quando ho smesso di usare word se non per i ritocchi finali, scrivendo
piuttosto su un programma che non mi conta le parole, la mia vita è
notevolmente migliorata… (?)
Spero davvero
tantissimo di riuscire a mantenere un buon ritmo, anche se causa Romics già questa settimana dovrò rallentare <\3 ma in
ogni caso, ancora mille grazie a chiunque stia seguendo questa mia storiella ~
Alla prossima!