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Autore: Sheep01    29/09/2015    3 recensioni
E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.
Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti ne aveva visti tanti, certo. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.
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Atlanta: un misterioso esperimento scientifico si conclude bruscamente con un incidente dalle conseguenze inaspettate.
Nel giro di pochi giorni, un'epidemia mondiale prende a serpeggiare per il paese, cominciando a decimare la popolazione...
Genere: Avventura, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 27

 

“Allora idioti primitivi, sturatevi le orecchie! Vedete questo? Questo è... il mio ‘Bastone di Tuono’! È un Remington a doppia canna, calibro 12, il migliore del mio supermercato, lo si trova nel reparto caccia e attrezzi sportivi.”

(L’Armata delle Tenebre) 

 

*

 

L’armata delle Ganasce era straordinariamente riuscita a non deluderli.

Frotte più o meno consistenti di marciume su due piedi si stavano avviando come in processione religiosa, con tanto di tenebrosi cori di morte, proprio verso i laboratori scientifici. Attratti dal loro profumo di carne ancora fresca, ma soprattutto viva.

Non fosse che la situazione poteva dirsi altamente drammatica, Stark si trovò ad associare l’avvenimento a uno di quei filmacci di Sam Raimi. Con meno umorismo. E più puzza. Decisamente più puzza.

Il pannello di controllo del sistema di sicurezza dei laboratori scientifici, come previsto, non funzionava. L’intera rete nazionale aveva smesso di funzionare da giorni e non era mai stato più felice di aver recuperato quello sgangherato generatore portatile, raccattato in un qualsiasi negozio depredato, dopo la sua fuga da Malibù.

Collegarlo alla rete principale per attivare l’allarme era un gioco da ragazzi, peccato che il tempo stringesse, scandito dai passi in marcia delle Ganasce e, cosa non meno importante, Maria che starnazzava loro che Sif sembrava essere svanita nel nulla.

Proprio tutto ciò di cui avevano bisogno in quel momento.

“Che qualcuno vada ad accertarsi che stia bene. Che sia almeno riuscita a piazzare la bomba!”

La testa china, mentre armeggiava con l’impianto.

“Avresti dovuto dare anche a lei una ricetrasmittente, Stark.” Si lamentò la Hill, mentre ricaricava l’arma che aveva portato con sé.

“Ho solo tre ricetrasmittenti, Hill!” esclamò riemergendo dalla sua postazione disagiata, sudato e innervosito, “Una l’ho data a Rogers, una l’ho tenuta io e una ce l’hai tu. Non avevo materialmente tempo per soddisfare tutte le esigenze di questa squadra! Ho costruito tre bombe, due bastoni repellenti, sto cercando di attivare un allarme per attirare tutte le Ganasce del circondario in questo posto! Non ti sembra sufficiente? Un minimo di riconoscenza sarebbe gradita!”

“Siete seri… ?”, adesso ci si metteva anche la rossa di capelli, che per pallida e zoppa che fosse, si chiese che apporto avrebbe potuto dare.

“Ci vado io.” Barton se non altro sembrava avere più iniziativa. Meno polemiche, più azione.

“Grazie.” Disse solo, bruscamente, tornando ai suoi marchingegni.

Se tutto fosse andato come doveva, da lì a poco avrebbero avuto un allarme tonante a richiamare chiunque, nell’arco di miglia. Avrebbero intrappolato lì dentro le Ganasce e se ne sarebbero scappati dalla porta secondaria, fuggendo per i corridoi, fino a tornare nel piazzale.

Recuperare la macchina e schizzare il più lontano possibile, prima della deflagrazione.

Un piano che a parole funzionava alla grande, ma che con tutta quella tensione aveva cominciato a suonare un po’ troppo disperato per i suoi gusti.

Si chiese se non fosse stato un azzardo quello di pensare di potersi liberare così agilmente di un intero branco di Ganasce, se non si sarebbero potuti limitare a trovare Betty e la bambina. A dare un pugno in faccia a Loki o freddarlo con un proiettile in fronte. Lasciare Atlanta alle Ganasce e correre verso il tramonto dopo una rocambolesca fuga e fottersene del resto.

Eppure qualcosa gli raccontava una storia diversa. Qualcosa gli suggeriva che quella era l’unica degna conclusione di quella storia. Come tirare le fila di un discorso aperto da troppo tempo.

Una celebrazione. Finire con il botto, in tutti i sensi per avere una sorta di liberazione.

Cosa avrebbero ottenuto – a parte negare a Loki la soddisfazione di averli in pugno – non era sicuro di poterlo dire, di certo avrebbero potuto vantare un jackpot di Ganasce uccise. Sfidare chiunque altro, in tutti gli Stati Uniti… o in tutta l’America o – perché no? – il mondo intero, a fare di meglio.

E proprio sull’onda di quel pensiero la ricetrasmittente che lo teneva in contatto con Rogers prese a gracchiare.

“E adesso che cazzo succede?” fece cenno alla Hill di occuparsi della chiamata, mentre cercava di capire cosa non funzionasse nelle sue operazioni e perché quel dannato allarme non si mettesse in funzione.

“Il segnale è disturbato.”

Nel momento esatto in cui Maria pronunciava quelle parole, Stark riuscì a stabilire un contatto. Una sorta di Eureka, gli si materializzò in cima alla testa a mo’ di onomatopea: l’allarme era pronto.

“Maria, il tuo compito qui è concluso, perché non ti porti dietro la Romanoff e Banner e non cominciate ad allontanarvi da qui?”

“E Sif?”

La risposta gli rimase impigliata sulla lingua, fra le labbra, perché quando si volse per rispondere, ecco che Sif, in carne ed ossa, sembrò apparire dal niente, in cima alla breve rampa di scale che portava al blocco C.

“Appena in tempo per unirti al party!” esclamò rimettendosi in piedi, rianimato finalmente di un briciolo di quella positività che gli avrebbe consentito di riportare le sue chiappe sane fuori da quel macello.

Il sorriso si spense lentamente solo quando realizzò ciò che la donna reggeva fra le braccia. Una serie di lamentosi vagiti e le braccine che si muovevano nell’aria. La figlia di Betty. La figlia del dottor Banner.

“Hai trovato la bambina…” esclamò Maria, la prima ad avere una reazione semi sensata a quell’avvenimento del tutto casuale.

Sì, perché per quante coincidenze potessero accavallarsi nel corso di una vita, quell’unica le avrebbe certo superate tutte.

Ancora indeciso su come esordire a riguardo si rese improvvisamente conto di qualcosa che prima non aveva notato: lo sguardo della donna. Vitreo, opaco, privo di qualsiasi guizzo di vitalità. O lucidità.

Sif teneva la bambina stretta fra le braccia ma non sembrava rendersi conto del disagio che questa sembrava avere nei suoi confronti.

“Dovreste lasciar perdere…” esalò la donna, con una voce che improvvisamente sembrava non appartenerle.

“Sif, che ti succede?” sempre Maria, l’unica a sembrare provvista di parole in quel particolare momento. Banner fissava la scena pietrificato, forse a malapena intuendo ciò che stava osservando.

Stark, dal canto suo si sentì gelare il sangue nelle vene al modo in cui la donna aveva preso a scendere le scale. Movimenti lenti, meccanici, come un burattino che viene tenuto in piedi da una schiera di fili invisibili.

Posseduta.

Una parola che in genere associava giusto ai film horror o qualche filmetto porno di bassa lega, ma di certo mai gli sarebbe venuto in mente di paragonarlo a qualcosa di reale.

Eppure Sif era così che gli appariva: posseduta, in balia di qualcosa che stava moderando le sue mosse, le sue parole.

“Sif…”

“Lasciatela parlare.” Esordì finalmente, scavallando i tentativi di Maria, avanzando di mezzo passo, solo per avere una visuale migliore della stanza, “perché pensi che dovremo lasciar perdere?”

“Perché il piano che avevate in mente è destinato a fallire.” Sif avanzò di nuovo, lo sguardo ora puntato nella sua direzione. I lunghi capelli neri che sfuggivano a una coda di cavallo malfatta.

“Ne sembri sicura: perché?” alzò una mano nella sua direzione, come volesse spronarla a parlare e al contempo intimarla a lasciar andare la bambina. Improvvisamente non gli ispirò alcun tipo di sicurezza. Come se Erin fosse finita fra le braccia del lupo, più che dell’amorevole fata madrina.

“Perché una delle bombe è stata manomessa, potrebbe esplodere da un momento all’altro”, disse, “e perché Loki non ve lo permetterà.” E come ispirato da quelle parole e dal vago cenno della donna che suggeriva uno sguardo alle finestre verso l’esterno, Stark voltò la testa per guardare.

Le Ganasce che fino a quel momento si erano spinte verso il piazzale sembravano aver azionato una ritirata. Come se qualcuno stesse intimando loro di stare alla larga.

Cominciò a pensare che il potere di quell’uomo fosse diventato ben più spaventoso di quanto si fosse immaginato. Certo, Sif aveva raccontato loro di come fosse stato in grado di comandare a bacchetta un paio di Ganasce, ma vederglielo fare con un gruppo tanto consistente fu uno shock.

Improvvisamente si sentì imprigionato in qualcosa di più grande di quanto avesse preventivato. Si erano scioccamente, ingenuamente lanciati in una missione che non avrebbe lasciato loro alcuno scampo. Se non fossero state le Ganasce a ucciderli, sarebbero state le bombe.

Improvvisamente ebbe la certezza di dover fare qualcosa, e il primo pensiero razionale che gli suggerì il cervello fu quello di creare un diversivo. Un diversivo che magari gli avrebbe permesso di prendersi cura di quella bomba compromessa. Magari non avrebbe loro assicurato una fuga sicura, ma non si poteva cominciare qualcosa se non un poco per volta.

Si lanciò letteralmente sull’allarme, tirando la leva.

“No!” esclamò qualcuno, mentre il rumore di uno sparo riempiva l’aria.

 

Per una frazione di secondo non accadde null’altro che quello, ma poi la sirena dei laboratori di Atlanta prese a riecheggiare con forza fra quelle quattro mura, e poi fuori, verso il piazzale e infine nei parcheggi a rimbalzare da una Ganascia all’altra. Loki da qualche parte, doveva aver accusato il colpo perché le Ganasce si fermarono, indecise se proseguire la ritirata o lasciarsi attrarre dal segnale.

Stark pensò di aver se non altro vinto quel primo match, ben lungi dall'essere arrivato alle battute finali di una guerra, ma improvvisamente meno lontani dalla vittoria di una battaglia.

Si rese conto solo in quell’istante del fiotto caldo che gli stava imbrattando il colletto della camicia. E l’odore di bruciato, proprio sotto al naso, maleodorante come tabacco stantio.

Sentì le ginocchia cedere sotto il peso di quello che credeva solo un banale calo di pressione.

Maria stava gridando qualcosa. Barton era già al suo fianco.

Con la mano andò a toccare qualcosa di viscido, proprio sotto al collo. Un solco, di carne viva e flaccida, che stillava sangue come una fontana.

Improvvisamente gli venne da ridere.

Non gli zombie, non le bombe, ma il pungiglione penetrante di una pallottola.

Dopotutto si era proprio preoccupato per niente.

 

*

 

Natasha aveva intuito quello che stava per succedere nel momento esatto in cui Stark si era allungato per attivare l’allarme.

Adesso le orecchie pulsavano, la sirena era dolorosamente attivata e l’uomo era steso al suolo, apparentemente privo di vita.

Quando si volse in direzione di Sif, si rese conto che la donna stava fissando la scena con la placida calma di un burattino. Non un solo segnale che fosse rimasta scossa da quel gesto sconsiderato.

Un nuovo moto di nausea l’assalì, sentì i ricordi di una vita passata riaffiorare con violenza quasi brutale. Di come quando, solo quattordicenne, l’avessero obbligata a compiere il suo primo omicidio; di come, inebetita da massicce dosi di droga, le avessero attutito lo shock; di come quel trauma, in realtà, non lo aveva mai superato veramente.

Le tornò in mente quella chiacchierata con Sif, solo qualche giorno prima, del fatto che avrebbe dovuto preservare la sua innocenza. Di come invece Loki o chissà che maleficio avesse operato su di lei, avesse di fatto disintegrato quella promessa.

Oltre alla nausea ora le si stava agitando dentro una sordida rabbia che improvvisamente mutò in un’ondata di collera, vivida massiccia, quasi palpabile.

Non riuscì nemmeno a stupirsi, quando Banner al suo fianco, cominciò a piegarsi, vinto da spasmi incontrollabili.

Stupidamente pensò che era esattamente così che si sentiva. E invidiò profondamente l’uomo per avere quella concreta possibilità di sfogo.

Tornò lucida l’istante successivo, quando sentì Clint urlare il suo nome.

Il tempo di alzare la testa e Banner si ergeva in tutta la sua massiccia mole, i muscoli di nuovo esplosi in quella massa informe, dal colore olivastro, mostruosa e distruttiva.

Arretrò istintivamente, mentre la rabbia che solo un momento prima sembrava dominarla si trasformava di nuovo in paura. Quella disonesta paura che le attanagliava le viscere al solo pensiero di non poter dominare la furia di quell’evento. Così come non avevano potuto fare nulla contro la tempesta che aveva infuriato ad Atlanta solo un paio di settimane prima, così come non aveva potuto controllare l’impulso che l’aveva spinta nelle braccia di Clint Barton.

Paure, che si sovrapponevano l’un l’altra. Il terrore di non poter fare altro che lasciarsi trascinare, senza possibilità di appiglio.

Vide Banner prendere la rincorsa, caricare sui poderosi polpacci prima di spiccare letteralmente il volo.

Natasha cadde al suolo, mentre il mostro, ignorandola, non aveva fatto altro che superarla, per andare a rivendicare ciò che gli era stato finora negato.

“Dottor Banner, no!” ebbe appena il tempo di gridare, prima che il rumore ovattato di una scarica di proiettili si andassero a spegnere in rapida sequenza. Prima che la mano del mostro andasse ad abbattersi sulla povera Sif che venne letteralmente scaraventata lungo l’atrio, dopo un volo che avrebbe potuto risultare fatale a chiunque.

Natasha cercò di concentrarsi, di ignorare la vista che si faceva sempre meno lucida, della nausea, sempre presente, sempre lì a ricordarle di quanto fosse precaria e fragile la sua presenza in quel posto. Di come fosse stata fortunata ad arrivare fino a quel punto.

Sentì lo scoppio di pianto della bambina. La sirena che continuava a sfogare i suoi lamenti, lo schiocco delle Ganasce in avvicinamento.

Il mondo aveva preso una strana inclinazione quando riaprì gli occhi, senza nemmeno essersi resa conto di averli chiusi, per dominare il malessere.

Trasalì.

Banner le stava di fronte. Il viso largo e deforme, che la stava fissando a meno di una manciata di centimetri. Gli occhi, piccoli e scuri, erano carichi di una lucidità che non aveva mai avuto modo di analizzare. Le mani enormi stringevano fra le dita un esserino minuscolo che lacerava i timpani a furia di strilli.

Sgranò gli occhi per la sorpresa, quando lo vide muovere le labbra e formulare parole che non si era certo attesa di sentire.

“Prendi… lei”, disse. La voce profonda, vibrante come fosse scaturita da immensi abissi.

Le allungò la piccola, invitandola a prendersene cura.

Natasha non riuscì a fare altro che accettare quella responsabilità come qualcosa di assolutamente unico e prezioso.

“Bruce…” mormorò appena, ancora tremante, prima di vederlo rimettersi in piedi, ed ergersi in tutta la sua altezza. Il petto trafitto da microscopici fori di proiettile.

Lo vide dirigere lo sguardo verso l’esterno e muovere i primi passi in quella direzione, per poi fermarsi nel punto in cui aveva scaraventato Sif: straordinariamente la donna era scomparsa. Una striscia di sangue si spingeva oltre la soglia e poi fuori dall’edificio. Come trascinata all’esterno da una forza sconosciuta. Lo vide voltarsi appena prima di uscire, probabilmente per l’ultima volta.

“Porto… loro… qui.” Scandì, prima di fissare lo sguardo sul gruppo rimasto. E improvvisamente Natasha capì cosa voleva fare: dar loro una mano, portare a termine la missione, concludere l’opera che avevano messo in piedi.

Lo vide muoversi a grandi passi verso l’esterno e di colpo capì che anche lei doveva fare qualcosa.

Così come un tassello di un puzzle, ognuno avrebbe dovuto portare a termine un pezzo di quell’operazione. E se Stark adesso era al tappeto, stava a lei concludere e sistemare quel tassello.

“Maria… prendi la bambina”, disse, reggendosi a malapena sulle gambe, inghiottendo rumorosamente, ricacciando indietro la nausea, racimolando le ultime energie rimaste.

La donna non si fece pregare due volte, mentre Clint, ancora accanto a Stark, le rivolgeva uno sguardo confuso.

“Uscite da qui…” mormorò ben consapevole del peso della sua pazzesca decisione.

“Che stai dicendo? E tu?” lo sentì pronunciare, indeciso se lasciar andare Stark e le mani che premevano disperatamente sul collo lacerato e sanguinante dell’uomo.

“C’è una bomba da sistemare.”

“E tu che ne sai di bombe?”
“Ben più di quanto tu possa immaginare, Clint.” Ribatté vagamente spazientita, per poi placarsi rapidamente, cercando di ricacciare di nuovo indietro l’ondata di malessere.

“Potrebbe esplodere da un momento all’altro, lo hai sentito anche tu!”

“Potrebbe. O potrebbe non farlo affatto”, esalò con una sorta di placida rassegnazione, “e allora tutto quello che abbiamo fatto fino ad ora, non sarebbe servito a nulla.”

Guardò Clint negli occhi e seppe che aveva compreso che aveva ragione. Che se non avessero distrutto i laboratori con tutte le Ganasce che erano riusciti a trascinare fin lì, Loki li avrebbe avuti in pugno, avrebbe impedito loro di fuggire, avrebbe avuto il potere di dominarli, di intrappolarli, di ucciderli, uno per uno. Avrebbe avuto la sicurezza di essere invincibile.

“Vengo con te.” Le disse allora, facendo per scostarsi da Stark. Ma Natasha gli fece cenno di rimanere dov’era, di non abbandonare l’uomo.

Fu lei ad avvicinarsi, ad inginocchiarglisi di fronte.

“Maria non può portare fuori la bambina e Stark contemporaneamente. Hanno la priorità.”

“Fra poco questo posto sarà stracolmo di Ganasce.” Insistette l’arciere, cercando di attirare di nuovo la sua attenzione.

“Vorrà dire che dovrò fare in fretta.”

“Se non sarai fuori tra dieci minuti, verrò a riprenderti.”

“Tra dieci minuti ti voglio il più lontano possibile da qui, Clint.” Ribatté con stizza affatto preventivata. Possibile che non capisse? Che tutto era stato predisposto? Che il suo compito era quello di occuparsi di Stark e della bambina, non di lei.

Lo vide scuotere la testa, lo sguardo carico di cupa opposizione.

“Non puoi chiedermi di farlo.” Adesso la voce gli tremava e sì sentì stringere lo stomaco. Una sensazione dalla quale non poteva lasciarsi sopraffare.

“Credevo che ti fidassi di me.”

“Lo faccio, ma…”

“Me la caverò, Clint. Non devi preoccuparti.”

“Stai pronunciando il mio nome un po’ troppe volte per impedirmi di preoccuparmi.”

Non volle sentire una parola di più e si chinò su di lui per catturare le sue labbra e impedirgli di aggiungere altro.

Si chiese se avrebbe avuto la possibilità di rifarlo.

Un pensiero rapido che volle scacciare, per non rovinare il momento, prima di lasciarlo andare definitivamente.

“Dieci minuti…” disse lui.

“… il tuo culo lontano da qui.” Aggiunse lei, prima di rimettersi in piedi.

“In bocca al lupo, Romanoff…” pronunciò Maria, allungandole la ricetrasmittente e guantone anti Ganasce, sicura che sarebbero certo stati più utile in mano sua che a Stark ormai.

Natasha non rispose. Annuì, una sola volta, ringraziandola tacitamente. Poi prese a correre verso il blocco C.

Il cuore batteva troppo rapido, il respiro era affettato. La nausea mai placata. Ma non si fermò.

Non si voltò a guardarli andare via.

 

*

 

Il rumore assordante dell’allarme, come un richiamo, come un trapano che gli impediva di agire, di pensare.

Come fosse riuscito a uscire dal palazzo non gli era chiaro. Sapeva solo che dopo aver perso di vista Sif, aver perso di vista la bambina, si era lasciato guidare dalla voce silenziosa delle Ganasce. Lungo i corridoi secondari della struttura e poi fuori, sul piazzale. Infine nascosto nella radura di un parco. Dove le voci, il cinguettio degli uccelli e il silenzio solo qualche minuto prima la facevano da padrone.

Si era accasciato al suolo, aveva ignorato il dolore al braccio, proprio lì, dove quella sciocca donna era riuscita a colpirlo, e aveva richiamato a sé tutto il potere che gli restava. Per impedire alle Ganasce di raggiungere i laboratori e restare intrappolate nella tela tessuta tanto abilmente dal gruppo della fattoria.

Ma poi quell’allarme aveva preso a suonare. E suonare. Disintegrando tutta la sua concentrazione.

Cercò di riportare a sé tutti i flussi mentali delle Ganasce, ma più cercava di imporre la sua volontà su di loro, più gli sembrava di sentirle sfuggire come acqua di un torrente.

Doveva solo concentrarsi. Concentrarsi e ristabilire il contatto.

Stabilire il contatto e sentirsi finalmente completo, di nuovo, così come si era sentito poco prima di sbarazzarsi di Betty, mentre stringeva il corpo della bambina fra le braccia. In un mondo dove non c’era dolore, rabbia, frustrazione. In un mondo in cui finalmente gli sembrava di appartenere.

Quando per un’intera vita si era sentito inadeguato, solo.

In quella nuova dimensione gli sembrava di fluttuare finalmente in un luogo che lo aveva atteso per anni.

Attorno a lui solo l’obbedienza delle coscienze di quelle che una volta erano state delle persone, adesso prive di qualsiasi sentimento umano. Incapaci di umiliarlo, giudicarlo.

E ora stavano cercando di portargli via anche quello. Non le sue ambizioni: quelle gli erano sembrate stranamente futili, inadeguate, quando si era reso conto di stringere fra le mani qualcosa di ben più importante. L’annullamento di tutta quell’umanità che lo aveva sempre reso fragile, inutile, vittima.

Stavano cercando di portargliela via e non lo avrebbe permesso. Avrebbero pagato quella sfida con le loro vite.

Oh, se solo fosse riuscito a ricacciare indietro quel rumore assordante, quel dolore lacerante, proprio al centro del petto.

Cercò di concentrarsi, di non dargliela vinta. Cercò di agganciarsi a un flusso, per quanto flebile fosse, di una delle Ganasce più vicine e, proprio mentre gli sembrò di essere vicino a stabilire di nuovo un qualche tipo di contatto… ecco che una voce risuonò persino al di sopra del boato di quelle sirene.

“Loki!”

Una voce che avrebbe riconosciuta fra mille. La prima voce dopo la sua scarcerazione.

Improvvisamente era di nuovo lacero ed esausto in mezzo a una strada deserta del Maine, dove tutto era cominciato.

Thor era di fronte a lui e brandiva quello che aveva tutta l’aria di essere un martello.

Ha intenzione di piantarmi un chiodo in fronte, con quello? Si ritrovò a pensare, un’ondata di sarcasmo che pensava di aver perduto per sempre.

Ricordò improvvisamente una delle loro prime conversazioni. Ricordi. Stupidi ricordi.

Lo fissò per qualche istante, senza riuscire a dissimulare il malessere che gli attanagliava le membra.

“Mi sembrava fossi tu, ma non ne ero sicuro…” lo sentì pronunciare, quel tono da professorino pronto a darti una lezione non richiesta. O forse se lo stava solo immaginando, forse non voleva guardare oltre quella coltre per non scorgere la compassione nello sguardo dell’uomo.

“Perché  mi trovi meglio… di quando ci siamo lasciati?” pronunciò a fatica, con un sorriso stentato, che probabilmente assomigliava più a una smorfia.

“Perché credevo fossi anche tu una Ganascia…”

“La fai suonare… come… una… critica.”

“Loki…” sempre quel tono, sempre quella pietosa invocazione, “sei ferito?”

“Dovresti andartene, lo sai?” lo prevenne, prima che quella conversazione andasse a concludersi in un teatrino patetico, “dovresti… raggiungere i tuoi amici. Il loro piano… il loro piano ha funzionato. Siete riusciti a… vincere.”

“Non è mai stata una gara, fratello. E sei ancora in tempo… ancora in tempo per tornare sui tuoi passi. Non è successo ancora niente a cui non si possa rimediare.”

“Sai... fratello…” sorrise a quella parola. Di come quel gigante biondo si fosse sempre preoccupato di farlo sentire accettato, in quel suo ristretto gruppo di motociclisti prima, e alla fattoria poi, come se fosse quello il suo problema, “credevo che fossi solo un po’ stupido. Invece probabilmente sei solo troppo ingenuo. Un idealista… molto ingenuo”, socchiuse gli occhi, percependo di nuovo quel flusso tornare a circondarlo prepotentemente. La conversazione era riuscita a far deragliare l’attenzione da quell’allarme tonante e a riportarlo a una dimensione più silenziosa, quieta. Esattamente l’unica dimensione in cui voleva restare, per sempre.

“Non ho più bisogno di tornare. Non ho più bisogno di voi.”

Di nuovo quella presunzione, di nuovo quella stupida ossessione di formare un gruppo, una famiglia. Thor come Betty si aspettavano qualcosa da lui. Qualcosa che Loki non poteva o non voleva assicurare a nessuno. Adesso che aveva assaggiato il vero sapore dell’oblio, della perdizione, del perdono di tutte le colpe, di quella obnubilante follia che gli impediva di provare la benché minima preoccupazione umana, non sarebbe tornato indietro. Non per invocare un perdono che non sentiva di dover chiedere. Non per ottenere un riconoscimento. Non più.

Gli bastava navigare nelle acque torbide di quel suo straordinario potere. Essere finalmente in pace.

“Le persone vive, hanno bisogno dei vivi, Loki.”

“Credevo avessi appena detto che mi pensavi una Ganascia…”

“Loki…”

“Questo mondo non è più dei vivi! Non lo è più da un pezzo!” esclamò rabbioso, cercando di mantenere attiva quella corrente che finalmente era riuscito a riagganciare.
Il fremito di tutti quei neuroni in movimento che defluivano solo ed esclusivamente ad animare i muscoli a rinvigorire l’unico istinto: nutrirsi, cibarsi.

Si rimise in piedi a fatica, lo sguardo fisso, ormai lontano da quel luogo. Colmo del coro che diveniva un’unica voce. A lasciarsi trascinare di nuovo in quel calmante oblio.

“Avresti dovuto andartene… quando eri ancora in tempo per farlo.” Sussurrò solo, prima che la sicurezza di averle di nuovo tutte in pugno non si fece concreta, “non sei nemmeno il peggior essere umano che mi sia capitato di incontrare.”

E proprio mentre l’ultimo fiotto di coscienza mortale tornava a tormentarlo – il rammarico di aver sempre e solo cercato il suo posto nel mondo, di averlo rivendicato con tutto ciò che aveva a sua disposizione – eccolo che scivolava via per liberarlo di tutto ciò che era stato e di tutto ciò che avrebbe potuto essere. Le Ganasce cominciarono la loro lenta processione verso l’ultima, definitiva battaglia.

 

Sentì solo l’urlo rabbioso di Thor, adesso circondato, niente di più che una delle tante vittime sacrificali di quel mondo ormai privo di umanità.

Il martello che si dibatteva nell’aria, il rumore di tutte quelle mascelle in movimento.

 

___

 

Note:

Lo dicevo io che non bisognava dare nessuno per morto… o per vivo, in anticipo.

Novità tante. E Banner/Hulk ha finalmente incontrato la sua bambina. Sebbene la situazione non sia esattamente delle migliori.

Lo mettiamo in piedi il toto morte? Chi sarà il prossimo?

Scusate, non ho resistito. As usual ringrazio tutti quanti. A chi recensisce e chi legge soltanto e la mia insostituibile socia e beta, Sere.
Alla prossima. Sì, il prossimo sarà il penultimo capitolo! Yay.

  
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