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Autore: kanagawa    30/09/2015    2 recensioni
Lentamente, tutto si sbriciola, pezzo dopo pezzo ....
Ci sono delle mattine in cui mi piacerebbe svegliarmi e ritrovarti accanto, mentre il sole solleva i monti dietro alla livida alba nordica.. La mattina che mi svegliai e non c’eri, compresi che cosa fosse la solitudine. Non ti cercai. Tutto ciò che feci, fu di ritrovare la strada di casa. Perché di quella libertà pura e corrosiva che tu ami tanto, io, non sapevo che farmene.
I giorni di gioia e perdizione, bruciati lungo quel tratto di strada selvaggia, dove non c’era nulla... tempo, linguaggio, umanità; nulla. Il respiro di una natura sferzante e incontaminata che sulla pelle sapeva infliggere carezze terribili, e ad avvolgere ogni cosa, la nebbia.
“Incontriamoci tra dieci anni, Maki. Io ti aspetterò al solito posto.”
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[Edit capitolo 3 e 6]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kenji Fujima, Shinichi Maki
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Light from a dead star'
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Nota: la "g" si legge "gh" nella trascrizione fonetica dei nomi giapponesi, ci terrei molto a una corretta pronuncia. In secondo luogo, attenzione a frequenti salti temporali, non lasciatevi confondere; la maggior parte dei brani in corsivo sono i pensieri di Maki: più precisamente a 17 anni, a 25 anni e a 37 anni, ma sono della medesima persona, quindi poco cambia. I tagli effettuati lungo la storia danneggiano l'unità di lettura; per ora ci sono 3 capitoli; ah, un'ultima cosa: il rating cambierà nel corso della trama, il rosso non è perciò generalizzato. (Delusi? Sollevati?) Ora mi eclisso, buona lettura!


 



Lentamente, tutto si sbriciola, pezzo dopo pezzo…
Ci sono delle mattine in cui mi piacerebbe svegliarmi e ritrovarti accanto, mentre il sole solleva i monti dietro alla livida alba nordica… La mattina che mi svegliai e non c’eri, compresi che cosa fosse la solitudine. Non ti cercai; tutto ciò che feci, fu di ritrovare la strada di casa. Perché di quella libertà pura e corrosiva che tu ami tanto, io, non sapevo che farmene.
I giorni di gioia e perdizione, bruciati lungo quel tratto di strada selvaggia, dove non c’era nulla… tempo, linguaggio, umanità; nulla. Il respiro di una natura sferzante e incontaminata che sulla pelle sapeva infliggere carezze terribili; e ad avvolgere ogni cosa, la nebbia.
 
 
 

Incontriamoci tra dieci anni, Maki. Io ti aspetterò al solito posto.”
 
 


 
Vägen hem - 5164,837 miles


 
"Angelo in esilio, Satana adolescente. 
Una specie di dolcezza splendeva sorridente 
in quegli occhi crudeli azzurro-chiari e su quella bocca 
vigorosa, rossa, dalla piega amara."
[Paul Verlaine, su Arthur Rimbaud]


 
Il venerdì era il giorno peggiore. 
Il lavoro in ufficio si accumulava come muffa sulla scrivania e doveva essere completato per il resoconto del finesettimana, e purtroppo, l’incompetenza dei piani inferiori non si smuoveva di un solo millimetro. Si era già visto entrare lunedì mattina sul piede di guerra a sbraitare contro quei quattro neolaureati svegliati in ritardo nella vita, e il tram tram riprendeva, nella noia assoluta, ancora una volta... Sua moglie aveva pensato bene di darsi al volontariato proprio in quella fatidica striscia di tregua a cavallo tra venerdì e domenica, e dunque, eccoci qua.
La macchina si fermò davanti alla scuola elementare, dove, proprio ora, una marea di zainetti rossi stava fluendo più o meno ordinatamente fuori dal cancello. Il chiasso era considerevole. In mezzo al corteo urlante e genitori travolti, vide una manina bianca che si agitava alla sua direzione, come una bandiera in mezzo al mare. La bambina corse verso la portiera aperta e vi si arrampicò su, senza togliersi lo zaino e tenendosi il broncio sul viso, gli fece. «Sei in ritardo.»
Maria Sora Maki, 9 anni, la fiscalità fatta a bambina. Chissà da chi aveva preso...  Il nome le era stato dato dalla famiglia della moglie, da generazioni, di fervida fede cattolica. Per il resto invece, sembrava in tutto e per tutto giapponese: i capelli corvini e la pelle diafana, che nulla aveva ereditato della sua calda sfumatura.
«Sora, mettiti dietro con tua sorella.» Dopo una mugugnata risposta la vide migrare obbediente al sedile posteriore, dove, seduta sul seggiolino che una volta era stato suo, la sorellina di 5 anni dormiva. Aveva le guance colorate di un tenue rosa, le labbra socchiuse, dipinte di rosso come una bambola di porcellana. Tanto bella quanto delicata, Nagisa, un po’ succube della sorella maggiore. L’aveva portata in piscina quel pomeriggio, per il corso di nuoto al quale l’aveva iscritta la moglie, convinta che le servisse per rafforzare un po’ quel suo carattere così timido e quel fisico minuto... E nonostante le discussioni, l’aveva vinta lei. A lui, invece, piaceva così com’era, Nagisa. La sua fragilità, la sua dolcezza, quello sguardo trasognato e quell’aria effimera... Erano qualcosa di prezioso per lui.
Sora era tutto il suo contrario. Seria e imbronciata, del resto impeccabile, onesta, tanto da non esigere che un paio di capricci alla settimana. La mattina si svegliava da sola e si rifaceva il letto con diligenza, dopodiché andava a svegliare la sorella che dormiva nella stanza accanto. Nagisa faceva tutto ciò che le diceva, e non ribatteva mai, a parte quando scoppiava a piangere per qualche richiesta irragionevole, e puntualmente correva in braccio al padre, facendo indispettire la sorella maggiore. Tutte quelle volte la sgridava e lei, offesa ma senza protestare, se ne andava in camera. Era una sensazione di pelle, appena accennata… Non sapeva da dove nascesse quella sorta di diffidenza nei suoi confronti, per quale motivo sua figlia gli riservasse sempre quell’atteggiamento freddo e controllato, quando avrebbe ragione sì a impuntarsi e frignare come fanno tutte le bambine della sua età; come se tra loro mancasse qualcosa, qualche filo di intesa spezzato che gli era sfuggito... In 9 anni, non si era mai sentito chiamare “papà”; e anche se ci aveva fatto presto abitudine a quel “Shin-chan” detto con incuranza, e non voleva ammetterlo, ma nel suo intimo ci rimaneva ancora male, tutte le volte.  
E forse, una parte di lui, fondamentalmente, sapeva il perché. Lo sapeva da sempre ...
 
Questa, era certamente una punizione.
 
Nel viale privato della villetta, era rimasto seduto con i fanali spenti. Le braccia incrociate sul volante e lo sguardo fisso, fremente nelle tenebre.
Le bambine erano salite in casa, e ora certamente se ne stavano davanti alla tv; immaginava le loro risate e il lieve chiacchiericcio dietro l’ombra del divano... Il pensiero vi ricadde fugacemente, per poi trasmigrare nuovamente dal corpo... Agli ultimi cenni di crepuscolo, volgendovi il filo degli occhi incendiati, Maki sospirò.
Si accese una sigaretta. Era da tanto che non gli capitava di fumare, anzi, aveva smesso tempo fa; prima della nascita delle sue figlie. Eppure ora, ne aveva sentito nuovamente una necessità inappellabile...  Quel pacchetto l’aveva acquistato senza pensarci, anche se in fondo non era stato un gesto così arbitrario.
«Mancano … tre giorni ….» Maki mormorò al buio.
L’aroma sprigionato dal tabacco, tuttavia, non sembrò risollevarlo …
Riversò la testa all’indietro e abbassò le palpebre. Con gli anni era divenuto un pensiero tenue e marginale, tanto che a rievocarlo il suo cuore non faceva più i tuffi nel vuoto del passato... Aveva ormai la stessa valenza di un’abitudine dismessa nel corso del tempo, proprio come il sapore di queste sigarette, un capo non più indossato, le strofe di una canzone amata e scordata nel breve bagliore di un’estate.... Un fatto incerto che aveva forma solo nella sua memoria, tanto da dubitarne l’esistenza stessa.
Eppure in certi suoi sogni, poteva ancora delinearne nei minimi dettagli quel volto... E chissà perché in tutti quei quadri di luce gli si rivolgeva sempre con quella linguaccia da angelo mancato e gli diceva immancabilmente qualche stupidaggine. E poi, sorrideva...
Ogni giorno, ogni notte. Non c’era stato un singolo istante che la sua luce lo avesse lasciato. Se chiudeva gli occhi, poteva ancora ritrovarlo lì, in quella profonda notte senza sogni dietro le palpebre.... 
La sua croce e il suo peccato più splendente.
 
 
 
 
 
Ero certo che sarebbe andato a finire così.
... Un’altra trama seccante a cui far fronte.

Se si osservano bene certi angoli della città, sulle facciate dei suoi palazzi dopo la pioggia, dietro i relitti assopiti delle automobili in sosta, impresso su quel medesimo asfalto fumante, si avrebbe impressione di trovarvi i segni d’inchiostro tracciati da qualche mano sinistra che tende al di sopra dei nostri destini... In quei momenti, mi viene voglia di accartocciare quell’intera pagina immacolata ancora da scrivere e di gettarlo nel primo cestino che capita sul cammino; cosicché, magari, si possa proseguire da qui in avanti....
 
 
C’era un discreto traffico lungo la provinciale, a causa di un blocco a due kilometri di distanza. Forse, un incidente.
Si era accostato al fianco della stradina per fermarsi al minimarket; dopo due ore di guida da Tokyo, anche se era pomeriggio tardi, le palpebre già non reggevano più il peso della luce. Rinfrescata l’anima, Jin uscì sorseggiando un tè in lattina appena acquistato, la spesa in mano, quando fece un incontro interessante vicino ai distributori automatici appena fuori dal negozio...
Vi aveva lanciato uno sguardo incuriosito, vedendolo spiaccicato sul marciapiede, intento a rovistare sotto le macchinette, con fare nervoso... Non lo riconobbe subito, sebbene, fissando quell’insolita sfumatura di capelli, una nota familiare aveva fatto capolino nella sua memoria... Quando il ragazzo, inquadrando l’indugio di un paio di mocassini davanti al proprio naso, aveva levato lo sguardo, finalmente, Jin realizzò chi fosse.
«... Fujima!»
Il cipiglio di scetticismo e lieve stizza, l’ombra d’interdizione si schiarì lentamente nei suoi occhi. «Sei ... Jin, dico bene?» Si alzò in piedi, sorriso un po’ pallido, spolverandosi i pantaloni. Gli batté leggermente sulla mano aperta, spigliato e energico, stringendogliela. «Non ci si vede da tanto.» Jin sorrise a sua volta. «Quando sei arrivato?»
«Due giorni fa...» Fece Fujima, imbucando nel frattempo le monete recuperate. Schiacciò velocemente i tasti, a seguire, la trafila meccanica e il tonfo del pacchetto che cadeva,  riverberanti nel vicolo stretto. Alla fiocca luce del crepuscolo, Fujima si accese una sigaretta, offrendone al vecchio amico, che declinò con riserbo. «Hai già trovato una sistemazione?» In uno sbuffo di fumo, si passò una mano sui capelli un po’ arruffati. «Vagamente... Mi arrangio per adesso.» -E da quando in qua fumi?-  «E quanto rimani?» Considerò Jin, senza scomporsi. «...Non molto. Devo sistemare un paio di cose, poi riparto...»
«Capisco ...» Sapeva di quell’aria cinerea e indifferente, uno strato di antica alterigia che impolverava ancora la sua persona, seppure, gli era sembrato... Stanco; se così lo si poteva definire, quel rimbombo tombale che gravitava nella sua voce, ora più profonda. Anche quando lo aveva visto allontanarsi, nel blu siderale della sera, di lui, si poté scorgere solo un’ombra sottile e inconsistente, come se provenisse da una terra lontana, aliena...
 
Kenji Fujima ... era tornato in città.
 
 
 
Una ventiquattrore in mano, di volata, finì tutto d’un fiato le dieci rampe di scale. Un frastuono di chiavi lungo il corridoio e si sentì la porta aprirsi.
«Sono tornato.» Vociò in attesa della risposta, mentre si toglieva le scarpe all’ingresso. «Bentornato.» Cigolio leggero, uno spiraglio di sorriso si flesse alla sua direzione, allungandosi dalla scrivania semisepolta da pile di libri e riviste. «Stai ancora lavorando?» Chiese il ragazzo, il passo scattante verso la camera da letto. «Ne ho ancora per molto, vuoi cenare?» Senza staccare gli occhi dallo schermo del portatile, rispose e domandò lei, sentendo replicare. «No, mi cambio e esco.» Pochi secondi, neanche il tempo di concludere la frase che le fu di nuovo davanti, chinandosi, per darle un bacio a stampo, le braccia issate sul bordo del tavolo caotico.
«Non fare tardi, amore.» Premendovi contro una guancia con tenero vigore, Maki ridacchiò sommesso. «Ciao.»
La medesima abituale speditezza, rifece tutti i gradini fino a piano terra; fuori, sul vialetto del condominio, una macchina blu lo attendeva. «Sei in ritardo, dovevi essere qui già dieci minuti fa...» Redarguì puntuale, salendo in vettura. «Uffa, capitano, sempre il solito pignolo... Hai fatto tardi pure tu!» Bofonchiò con un cipiglio offeso, Nobunaga Kyota, mentre veniva invitato senza tante cerimonie a spostarsi sul posto del passeggero. «Io sono un manager a tempo pieno. Andiamo.» Ratificò perentorio il maggiore, cinture allacciate e le mani sul volante.
... Un vecchio imprinting che non era mai mutato nel corso degli anni, a sancire il loro rapporto, come se vi fosse in esso un principio universale e imprescindibile: ancora oggi, ai suoi occhi, Shin’ichi Maki continuava a essere un campione di basket, l’Imbattibile capitano del Kainan che mezza Kanagawa aveva professato di sconfiggere, vanamente... Ancora oggi, vi era il timore nei suoi occhi, mentre si posavano sulla figura del senpai; e in essi, riverberante, una punta della medesima adorazione, che tante volte in adolescenza lo aveva turbato.
 
Maki, di solito, era una persona alla mano, anche se a contraddire questa socievolezza c’era una scheggiatura di formalismo e rigidezza che non ammetteva repliche.
Era una semplice uscita tra vecchi compagni di squadra, ma, naturalmente, i ritardi non erano mai stati tollerabili per lui, ora, come molti anni fa a scuola o negli eventi sportivi.
Jin, per l’occasione, aveva scelto un locale un po’ fuori mano; e quando arrivarono, c’era già un manipolo consistente di presenze accalcate all’ingresso. Nel chiacchiericcio sparpagliato sotto l’insegna luminosa blu neon, scorsero presto le tre classi dell’ex Kainan Univ riunita e qualche riconoscibile aggregato fuori lista. L’atmosfera era rilassata e gradevole, forse, anche per la brezza leggera che sfiorava la notte... Alla vista di due amici intimi, Kyota si era acceso come un razzo, sbracciando allegramente, prima di lanciarsi alla loro direzione. Non era cambiato niente dai tempi del liceo, a quanto pare... I soliti schiamazzi, le solite scenate di idiozie disconnesse, l’esuberanza, che nonostante tutto, ritrovava con nostalgia nei salti felini di Kyota Nobunaga... Il Kainan non sarebbe potuto esistere, senza uno solo di loro. Lo pensò con convinzione, Maki, sorridendo a distanza.
Chissà se Kazuma si sarà liberato dagli impegni stasera... Indugiò brevemente, mentre si avvicinava, l’animo disteso e leggero. Jin stava chiacchierando con qualcuno, e non si era accorto del loro arrivo: negli anni, si può dire che era stato lui il cuore del Kainan, sempre, immancabilmente gentile e discreto. Ma Maki sapeva che Soichiro Jin era molto più di questo... Presto o tardi, se ne doveva prendere le dovute difese.
Perché era stata certamente una sua idea... A ripensarci adesso, gli pareva più che ovvio, ma, sul momento, forse, non aveva avuto modo di elaborarlo a mente fredda, buio totale. Non lo aveva visto, anche se era lì davanti, appoggiato agli stipiti, con un bicchiere in mano. Forse era stato per l’aspetto un po’ trasandato e quella sciarpa kefiah* al collo,  se gli era sfuggito il dettaglio della sua presenza....
«Fujima!»
... Di lì, Maki si sentì sprofondare.
 
Lo sguardo andandosi a posare sulla figura pallida ed esile accanto a Jin, in quel triturare distinto di budella... Lui si volse, sentendosi invocare alle spalle.
E tutto, si fermò per un istante.
Tempo, respiro, voci ... La notte continuò a fluire accanto a loro, sospesa infinitamente su di una corda argentata e vibrante. Dislocati in un universo parallelo, come se due riflettori li puntassero solitari su un palcoscenico, mentre gli sguardi si incontravano nell’interludio di un silenzio assoluto.
Ma non c’erano prose da recitare... Perché presto il sorriso era scomparso dai volti di entrambi, per lasciarvi solamente le tracce di un vuoto livido e interdetto.
 



 
"Caught in the riptide,
 
I was serching for the truth..."


 

Come si conobbero … era una storia sfaccettata di forse qualche secolo fa.
Alcuni dicono che avevano già cognizione l’uno dell’altro fin dall’infanzia, altri invero sostenevano la tesi di una conoscenza molto più recente, avvenuta sui campi di basket... Ma fatto sta che, a Kanagawa, dacché Shin’ichi Maki aveva iniziato a imperversare nelle rappresentazioni sportive, Kenji Fujima gli era sempre stato associato, ineluttabilmente.
C’era forse un qualche legame karmico, a stringerli da sempre in quella morsa di attrazione letale. Fin dall’inizio, era stata la repulsione.... E qualunque cosa facessero, non importa la distanza che li separava o gli obiettivi differenti perseguiti, vi era sempre stata una sorta di sincronia silenziosa nel loro reciproco agire. Di questo, gli occhi estranei solo sapevano rinvenire della tensione inesplicabile che li investiva, ogni qual volta che si trovavano in un’approssimabile vicinanza fisica. 
Da matricola, quando era stato controvoglia al palazzetto per assistere a un incontro preliminare, quella, fu forse la prima volta che lo vide, davvero.
Sapeva che lo Shoyo era una squadra di importante e antica istituzione, una sorta di discendenza regale sanciva le loro gerarchie interne; e il fatto di vedere tra quelle file rigide una figura così agile e così... come dire, precoce, era stata una distrazione inattesa per i suoi occhi, vergati dalla noia.
«Chi è quello?» Chiese alla fila del Kainan Univ riversata dietro di sé, i gomiti tesi sulla balaustra degli spalti semivuoti. «Il numero 13? Si chiama Kenji Fujima...» Il capitano gli sorrise, in piedi accanto a lui. «...Potrebbe essere un tuo avversario in futuro, Maki.» Si voltò lui, un sopracciglio arcuato nell’indifferenza totale, rivenendo poi quel medesimo ghigno sadico dal viso, rispose. «Non vedo l’ora...»
 
... Era tutto così infantile. Lo ero io, lo era il basket. E lo è tuttora, per quegli indugi di parole ingoiate, quei silenzi platonici, e per il senso che non c’era mai stato in tutto quanto... Perché la logica, nel tuo emisfero esistenziale, non aveva peso alcuno; e perché, esponenzialmente, mi piacevi per le medesime ragioni.
Stonavi parecchio tra le file dello Shoyo, te l’ho mai detto? Lo pensai sinceramente, la prima volta che ti vidi giocare. Non mi piacevi, e quella punta di insolenza che avevi addosso mi aveva infastidito, a dire il vero, molto più di quel che avrei voluto...
Io mi sono dato una calmata da allora, ma tu... Ancora oggi, risiederesti in quei territori sospesi e impietosi, vorticante, come un cuore incapace di placcarsi. E mi domando, se sono mai stato in grado di raggiungerti... Fujima.
 
Torna da me, solamente questo ti chiedo. 
 
«Che diamine...?! Fermatevi!» Quando si era reso conto di come si era evoluto quello scambio sferzante di battute post partita, il capitano era corso basito a trattenere quelle spalle esili ma funeste dallo scagliarsi contro la matricola del Kainan. Al medesimo tempestivo secondo, il capitano della squadra rivale era intervenuto a sua volta, per porre un muro divisore tra le due teste calde accalcate in una fugace zuffa di corridoio. «La vogliamo piantare di seminare stronzate?! E tu, Maki, fila a cambiarti, SUBITO!» Sbraitò infuriato, e quando lo si vide allontanare sbottando, fece un cenno silenzioso al capitano dello Shoyo che rispose con la medesima discrezione.
Finì tutto lì, ancora prima di sfociare in qualche stupido episodio da pronto soccorso, benché un bel trauma cranico non gli avrebbe fatto male... Solo Fujima era rimasto impietrito nel punto in cui era stato separato da Maki, gli occhi incandescenti bruciati da una furia fredda e irrefrenabile.
 
 

 
"There was a reason,

I collided into you."
 


 
Da una certa distanza di sicurezza, allestita per il repentino stato di shock, Kyota squadrava quella sagoma asciutta e inconfondibile, a occhi sgranati. «Che cosa ci fa lui, qui?!» Sibilò a Jin, il filo di voce distorto tra il timore e una sottile rabbia. «L’ho invitato io.» Fu placido e imperturbabile, mentre lo guardava con una punta di rimprovero negli occhi. «Ma che ti salta in mente, Jin?? Quello...» «Fujima.» Lo corresse, alla vista di una vena pulsante tra le sue tempie. «...Sì, me lo ricordo...» Kyota grugniva disgustato, e perseverò poi con maggior veemenza; stavolta, senza più trattenere la voce: «E anche di tutto il resto, se è per questo! Nel caso te ne fossi scordato, Jin!»
A quel proposito, Jin non aveva più ribattuto alcunché; si limitò a portare il bicchiere alle labbra, mentre lo sguardo si dileguava freddo ...
Non si dissero più altro; cosa avessero pensato in quell’istante, entrambi, coscienziosamente, lo sapevano.
 
Certe cose, Nobunaga Kyota era sempre stato il primo ad accorgersene. Quelle piccole cose che riguardavano in particolare il capitano della squadra di basket.
Sarà che gli capitava spesso di osservarlo, in silenzio, rinvenendo quelle increspature superficiali, a cui altri sguardi non davano peso... Di fatto, a quel tempo, si era preso inavvertitamente una cotta per Maki.
Sapeva bene che il ritorno di Fujima non avrebbe portato a nulla di buono... Come, del resto, era sempre stato per la sua opinione personale, il male che rappresentava quella presenza ambigua e imperscrutabile accanto al suo adorato senpai. Perché ogni volta che lui tornava nei paraggi, Maki, ai suoi occhi, ricadeva in un inarrestabile stato depressivo. Ricordava le sfuriate improvvise e immotivate durante gli allenamenti, quando andava in escandescenza, in mezzo al campo; oppure di quelle fughe veloci, dopo la doccia e il cambio d’abito in fretta e furia... Tutte quelle volte, sapeva, che l’unico motivo plausibile era Kenji Fujima.
 
 





Era tutto quanto studiato, ogni dettaglio meticolosamente, per inscenare quel prevedibile copione di antagonismo da manuale. Scuole diverse, squadre diverse… Nessuna via di mezzo, di fuga, che potesse permettere agli ingranaggi del destino di sbloccarsi lungo il tragitto e sovrascrivere una storia differente. 
Sbagliato. 
Loro erano sempre stati qualcosa di sbagliato, stonato, di oltremodo fuori luogo. In ogni luogo, ogni tempo, ogni frase, ogni parola… E per quanto ci provassero ad avvicinarsi, smussando i rispettivi angoli scabri, inventandosi luoghi d’incontro transitori, sapevano fin dall’inizio che le cose non sarebbero mai state come avrebbero dovuto essere. Che le divergenze del loro ego, così simili eppure inconciliabili, un giorno li avrebbero condotti su strade completamente differenti. 
Maki ricordava vividamente quel senso di necessaria impulsività che aveva animato ogni singolo sentimento sperimento nei confronti di Kenji Fujima, così come ricordava di ogni cicatrice e ogni tenerezza. 
Delicato, abbagliante, crudele. Così gli era apparso una mattina in un vagone treno mentre andava a scuola. 


Leggeva il giornale sul treno una mattina, mentre andava a scuola, e aveva scorto dall’altra parte del corridoio straripato un ragazzo che cedeva il proprio posto a una vecchietta.
Un atto encomiabile, denotava annoiato, occhio gravitante sulle pagine dell’economia... Portava una cartella a tracolla e un’inconfondibile camicia bianca: sul taschino laterale, lo stemma verde dello Shoyo solitario spiccava. Che cosa ci facesse quella bestiolina sperduta su un treno che andava alla direzione del Kainan-dai, decisamente lo aveva disorientato in un primo momento, ma solo in una seconda occhiata, con aggiuntivo e incalcolabile stupore, Maki riconosceva l’appartenenza di quel profilo.
Si teneva a un’asta laterale di sostegno, nel tremolio del treno in corsa, il capo chino a sfoggiare quel sorriso affabile tra le fossette, mentre scambiava qualche svenevolezza con l’anziana di turno che aveva continuato imperterrita ad annuire.... Il cerotto sul mento, memore del quasi pugno ricevuto da lui, Maki fissava sbigottito Kenji Fujima, come se fosse la prima volta che lo vedesse.
Chi... diamine.
Kenji Fujima, ripassò mentalmente il suo nome, quel Fujima dall’eloquente sportività che non aveva avuto scrupoli a saltargli addosso dopo la partita... A rivederlo in quella voltafaccia repentina e assurda, Maki fece finta di nulla, sotto shock, e continuò a leggere il suo giornale.
Non si era accorto di lui, naturalmente, ed era sceso qualche fermata prima. Ancora stordito dall’incontro mattutino, il pomeriggio sullo stesso treno se lo ritrovò di nuovo, così come il giorno successivo e quello dopo ancora... Quasi tutti i giorni, negli stessi orari, puntualmente la sua faccia spuntava tra le teste dei passeggeri. E quasi sempre, portava un paio di cuffiette e ascoltava distrattamente la musica, mentre lo sguardo indagava fuggenti paesaggi lontani... Pian piano, inconsciamente, Maki aveva preso ad osservarlo; quell’altro volto che faticava a scorgere, in mezzo alla folla, come dentro di sé, sebbene non ci fosse alcuna cortina umana a impedirglielo... Il suo silenzio distante, che aveva un che di grave e regale; come il sole si muoveva sulla sua pelle, ridisegnando quel profilo acerbo ai suoi occhi; era delicato, quasi etereo, come se rifuggisse dalle ombre del mondo... E convinto di non essere visto da dove era seduto, camuffato dietro a leggeri occhiali da vista che usava fuori dalle partite, aveva continuato a scrutarlo, come affascinato, sebbene lo facesse con una punta di ribrezzo e avversione... così, senza una ragione precisa.
E quasi che si prospettasse di vederlo sempre, una bella mattina, non lo ritrovò più.
Probabilmente, pensò, aveva cambiato percorso ...
 
Strano come il destino, a volte, ci gioca dei tiri così inattesi... Quando meno te lo aspetti, e quando credi di aver inquadrato tutte le pedine del fato, ecco che... l’alfiere beffardo fa la sua mossa: perché Maki, fino a quel momento, ancora non le conosceva, le regole del gioco....
Due giorni più tardi, quando pensava di non rivederlo più ormai, se lo trovò davanti dirimpetto, il cipiglio truce e le braccia conserte. Non portava più le cuffie.
«Mi stai seguendo per caso?!»
Maki levò lo sguardo dall’estesa superficie del quotidiano, un sopracciglio inarcato che avrebbe voluto dire molto più di quel che mostrava... Lì per lì, davvero, rimase senza parole.
«Perdonami?» Impassibile nello stordimento, si difese, rendendosi conto solo ora di quanto fosse stato ridicolo ad averlo fissato per giorni come un ebete, e... «Non renderti ridicolo; solo perché porti gli occhiali. Ti riconoscerei da kilometri... Shin’ichi Maki.» Sibilò Fujima con voce sfottente e distesa. «Sono giorni che mi spii di nascosto, credi che non me ne sia accorto? Cosa stai tramando??» Replicava imperterrito, gli occhi falciati da una luce furtiva, come se gli leggesse nel pensiero... In effetti, non aveva tutti i torti: il suo atteggiamento non poteva risultare diversamente agli occhi altrui, lui stesso non sapeva cosa rispondere. E siccome l’assurdità di quella situazione era tutt’altro che a suo favore, Maki, per ragioni che tuttora gli erano rimaste oscure, disse allora una cosa ancora più insensata... «Mi stavo chiedendo...» Lo si vide sorridere, in quella scintilla beffarda delle iridi, una vaga consapevolezza, prima di pronunciare a fior di labbra. «Se non vorresti uscire con me?»
«....»
.......
Per un attimo di totale vuoto mentale, erano rimasti a fissarsi inespressivi.
… Nel refrigerio del vagone, aleggiò l’annuncio della fermata imminente … Poi, senza dire una sola parola e lasciandole lì dov’erano, Fujima si lanciò giù dal treno e fuggì via allibito, appena le porte furono riaperte.
 


 
"Nobody know."
 


 
La cena era stata piuttosto chiassosa, ma tutto sommato piacevole, se non fosse stato per quel pensiero costante, che come un ronzio molesto se ne stava aggrappato alle orecchie; la consapevolezza che lui era qui.
Maki si sedeva in mezzo alle teste degli ex compagni, lungo la fila di tavoli accostati. Si davano le spalle, in quel semibuio soffuso di parole e risa fugaci, a tastare con le antenne del corpo la presenza dell’altro, tollerandosi lungo una linea di tensione immaginaria e flebile che traversava le due estremità del piccolo locale. «Allora, Maki! Quant’è che ti sposi?» Fu quella botta allo stomaco che avvertì dopo uno scoppio di risate un po’ brille. Lieve e suggerito silenzio, emergeva la sua voce inconfondibile nel sottofondo di brusio, che, ancora, avrebbe saputo riconoscere tra mille. «... Tra due settimane.» ...E quella risposta fu più seria di quanto aspettasse. In fondo alla sala, nella quiete relativa delle poche sedie vuote, si era accomodato Fujima, le gambe accavallate e le mani in tasche, il sorriso tra le labbra un po’ affettato. Al momento, il suo profilo era impegnato in una rievocazione con alcuni vecchi conoscenti, stranamente, nessuno che ricordasse davvero. E Maki sperò solo che non fosse stato abbastanza sobrio da averlo udito....
No, in realtà, non si erano scambiati una sola parola dacché si erano visti sull’ingresso. Strano, preoccuparsi di un dettaglio simile, quando... In realtà, dubitava enormemente che potesse essere sopravvissuto ancora qualche forma di rapporto tra di loro. Gli sembrava quasi impossibile recuperare l’uso delle parole quando davanti a sé c’era quel muro insormontabile di silenzio cementato e di interdizioni; quando, davanti a sé, c’era... un po’ sciupato, ma Fujima.
E gli sembrò pure assurdo, quando lui gli venne incontro, come nulla fosse, posando il bicchiere vuoto accanto al proprio mezzo pieno. Solo allora, Maki si accorse che il posto accanto al suo era vuoto... «Jin, chi erano di preciso quei tre?» Lui rise in risposta al suo cipiglio seriamente preoccupato. «Ah, credo siano degli imbucati dalle parti dello Shohoku... Non so chi li abbia invitati, forse Nobunaga.» Fece, lo sguardo a ritroso per scorgere i soggetti citati: un cespuglio, un pelo rosso fuoco e.. qualcos’altro del medesimo genere. «Il Kainan ha delle idee molto confuse sul concetto di rimpatriate...» Fece notare Fujima. Rigirò la sedia con una mano e vi si stravaccò all’incontrario, le gambe spalancate con grande galateo. «...Appunto.» Maki replicò a bassa voce, ancora sovrappensiero. Con forse meno intenzionalità di quanto potesse apparire, aveva buttato lì quella prima amena parolina, pensando di essersi segato le gambe da solo, ormai... Ma, con sua enorme sorpresa, Fujima aveva sorriso tra le dita. E ancora più lo fece travalicare, l’affetto inaspettato con cui lo guardò nel medesimo istante, nel pronunciare lieve e incantevole.
«Vero?»
... E la mente gli tornò a svuotarsi.
 
Sempre così indifferente e bastardo. Come se il tempo e le memorie fossero solo meri concetti per lui... No, non lo aveva dimenticato.
 



 
"This feeling begins just like a spark,

Tossing and turning inside your heart.


Exploding in the dark."

 
 
 
Tra le file di panchine della stazione, Fujima pareva titubare impensierito, scrutandosi intorno in cerca di qualcosa... Allora, dietro di sé, sentì tossicchiare leggermente; sicché si voltò, di scatto, un poco tediato da quell’intrusione.
Maki gli sorrise, porgendogli un fagottino nel pugno chiuso. E lui, bianco e interdetto, ne rimase di sasso.
«Lo avevi dimenticato ieri sul treno nella foga di scappare via.» Disse e schiuse la mano alla sua vista: un Mp3 nero con tanto di cuffiette. Il rossore che gli scottò le guance andò a infiammare fino alle punte delle orecchie, e quasi pensando di voler sprofondare, aveva udito la sua voce sopraggiungere ancora, inaspettata... «Scusami tanto.»
 
Perché era cominciato così, semplicemente, tra un silenzio impacciato e qualche saluto timido e frettoloso, incrociandosi ogni giorno lungo quel breve tratto di fermate condivise... Chi fosse stato a porgere il primo cenno, non se lo ricordavano proprio più; fatto sta che poco alla volta, quasi azzardando ad accostarsi a pochi posti di distanza l’uno dall’altro, quando questi erano occasionalmente liberi, avevano preso a scambiarsi qualche parola in più, parlando del tempo, degli esami, di basket... Il basket, che entrambi amavano, anche se non proprio nella medesima maniera... Quasi che fosse un appuntamento fisso, giunto a quella fermata, Maki alzava il naso in attesa di scorgerlo -e giusto per caso, non sia mai- dietro ai riflessi della porta che si dischiudeva rapidamente... Il vento gli danzava tra i capelli, scompigliandoglieli lungo i binari affollati...
Non gli raccontò mai di aver scorso di soppiatto la sua playlist, trovandovi peraltro gusti piuttosto discutibili... Ancora oggi, era rimasto un segreto tra lui e i sedili di quel vecchio e scomodo treno. Nel caso, sospettava che Fujima sarebbe molto probabilmente scappato a gambe levate, stavolta, senza più tornare indietro. Tanto ormai, la figura dello stalker l’aveva fatta in tutte le accezioni possibili...
 
 
 
※※
 

«Lettere d’amore?»
Fujima si buttò con malagrazia sul posto in fondo alla fila, sbuffando pesantemente. «Mi sono rotto! ...Con la scusa del 14 febbraio sono pure triplicate! Maledetto quell’idiota che ha inventato la festa!» Maki fissò il pacchetto di buste sigillate con la medesima circospezione di un archeologo. Erano una ventina, almeno. «Vedo che riscuoti parecchio successo... La tua ragazza? Non sarà gelosa?» Fece un ghigno ironico, mentre gli restituiva il tedioso bottino. Fujima inarcò un sopracciglio, squadrandolo truce in silenzio; poi gli sorrise, dileguando lentamente la stizza, per riporre nuovamente in viso la soave sfacciataggine. «Cosa c’è, Shin’ichi, sei invidioso?» O geloso?  ...Colpo secco andato a segno. Maki si impennò alla battuta, drizzando la schiena, indignato. «Neanche per sogno!»
Sotto i raggi tiepidi del sole invernale, Fujima rise sommesso e delicato, svelando una spolverata di chiare lentiggini sotto la pelle.
... Quelle due fossette innocenti che facevano capolino tra le sue guance, ogni volta che lui sorrideva, ancora non sapeva di amarle; con lo sguardo dilatato, Maki le scrutava come incantato e forse anche un po’ indispettito, come se in esse si celassero segreti più maliziosi di ciò che vedeva...
 
Il rapporto che aveva con le donne, tuttavia, non era dei più rosei; in realtà, le considerava a malapena e non sapeva come relazionarci, come succede tra i cani e i gatti. Le detestava e di fatto, era cresciuto completamente sprovvisto di una figura femminile accanto sé. Una madre.
«Non l’ho mai conosciuta...» Glielo confessò una volta, con un tono talmente leggero, come se avesse parlato del tempo o di una canzone alla radio. «Era straniera, vero?» Fujima lo guardò e accennò un vago sorriso di affermazione. «Perché io non sembro affatto giapponese?» Deviò lo sguardo al veloce scorrere del panorama; dietro alla sbarra del passaggio a livello, i volti uggiosi e indifferenti di un’umanità in attesa, nel lampeggiare a intermittenza del segnale luminoso che via via si faceva sempre più lontano.... «Veniva dalla Scandinavia... Svezia. Io sono cresciuto al fianco di mio padre; dacché ne ho avuto memoria, siamo sempre stati solo noi due.»
 
 
 
La gente diceva spesso che Fujima era un bel ragazzo, e non ci voleva un occhio brevettato per capirlo... Sconvolgeva, e spesso non solo le ragazze.
Quella scheggia di bellezza era forse una dannazione per la sua esistenza costellata di momenti effimeri e devastanti; troppo, anche per un ragazzo di soli 17 anni... E a 17 anni Fujima era un incanto, come mai lo sarebbe più stato in vita sua. Non poteva esserne rimasto indifferente...
Aveva quel genere di fascino che disorientava l’osservatore, a ben guardarlo... I tratti efebici, l’incarnato gentile, la delicatezza un po’ sconcertante e, nell’insieme, era la sua ferocia disinibita a destabilizzare la sintesi sempre un po’ incerta della visione. Se avesse potuto descriverlo... No, non avrebbe mai saputo pronunciare parole tanto audaci.
Questo era quanto lo irritava.
Fujima era un’anima irrequieta, in costante fuga. In superficie, irraggiava di limpida spensieratezza, ma sul fondo, le acque si agitavano torbide, ribollenti di furie annegate.
 
Se spesso ci siamo scontrati per le nostre divergenze, era per il fatto che, in fin dei conti, noi siamo uguali.
Forse non sarò mai in grado di comprenderti, ma questo rimarrà sempre la mia unica certezza, nonostante tutto...
 
Lui non si mostrava, mai. E le ragioni gli erano ben chiare...
Orgoglio.
Si diceva forse che colui che ci conosce meglio non è un amico intimo o un amante, bensì il nostro peggior nemico.
Fuoco e ghiaccio. Non c’erano alternative. Per cui, l’unica... era di sentirsi di merda a sua volta.
 
La prima volta che ebbero una litigata importante, erano già trascorse un paio di vacanze scolastiche e di campionati. Ma la motivazione era ben lontana dai campi sportivi... Anzi, sinceramente, non l’aveva mai capito del tutto.
Dopo averlo apostrofato con tutte le amene offese del suo cortissimo lessico, lo aveva spintonato e dato pure un pugno in faccia -e stavolta per davvero-, molto seccamente se ne era poi andato, tutto uggioso. Questo perché era stato lui a cominciare, a suo dire... Una settimana più tardi, Maki seppe che suo padre era morto.
Allora, aveva compreso di colpo molte cose ...  
Quando lo aveva rivisto, tanti giorni in seguito alla sua lunga assenza, gli era parso solo un po’ più pallido, ma sereno; anzi, distaccato... E aveva negli occhi quella luce brumosa, spenta di chi aveva aria di galleggiare in una dimensione ultraterrena, come se tante cose gli fossero ormai scivolate di dosso. Non gli disse niente, né lui ebbe il coraggio di chiedergli spiegazioni che alla fine non servivano. Si erano guardati, prendendo atto della reciproca consapevolezza in un filo di intesa intrecciata di tanti pensieri; dopodiché, Maki gli si era seduto accanto, lo sguardo saldo rivolto davanti a sé, gli chiese solo. «Come stai?»  
Con un cenno che pareva più un broncio, Fujima annuì, semplicemente.
I suoi occhi erano asciutti, aridi; o più probabilmente prosciugati del tutto, da diverse ore di pianto e sonno mancato. Maki non volle sapere altro.
Fujima aveva 16 anni, ed ora, era solo al mondo.
 
 
“Vivi solo per te stesso, Kenji. Non prenderti pesi inutili e guarda solo avanti. Promettimelo.”
 
 
 
La divisa dello Shoyo, anche se era un completo classico blu, chissà perché, non gli dava mai un’aria del tutto inquadrata. Fujima aveva un profilo di rara eleganza che tuttavia trascurava con quella punta di informale nonchalance, la camicia costantemente sbottonata e le mani in tasche, senza cravatta...
La indossava anche il giorno del funerale, come da etichetta si addiceva a un adolescente in età scolastica. Era rimasto in piedi per tutto il tempo, impassibile. Non aveva versato una sola lacrima.
Sulla soglia, vinta dall’apprensione, zia Satoko gli chiese con il fazzoletto ancora premuto, se voleva passare la notte da loro, ma Kenji aveva rifiutato.
Chiudendosi la porta alle spalle, repentinamente, era crollato con la schiena contro il battente blindato. Forse, era stato un eccesso di stanchezza; non sentiva più le gambe e da qualche secondo, il naso aveva preso a pizzicargli insieme ai brividi sulla pelle. Non aveva una particolare voglia di piangere, in quel momento, ma si ricordava solo di aver come ceduto le difese tutto d’un colpo, esplodendo alla penombra dell’atrio, in totale liberatoria solitudine.
 
Poco tempo dopo, la casa andò in asta, e lui andò a vivere in un monolocale poco distante. Davvero ironico...
 
 
 



 
 Andate pure tutti a quel paese... E basta.
 
In quel piano decisamente mancava aria. Gli uffici dell’assistenza sociale si trovavano al terzo piano del palazzo comunale, e quello era un giorno lavorativo come un altro... Il via vai di personale indaffarato, ombre passeggere fuori dalla porta; una fastidiosa luce bianca al neon... Seduto da solo in quella piccola stanzetta, si era sentito come un animaletto da laboratorio, tenuto in osservazione dell’altra parte del vetro.
«All’inizio sarà difficile, ne abbiamo visti tanti di casi così... A ogni modo, se avrai bisogno di aiuto, di qualunque genere, rivolgiti pure a noi, Fujima-kun.» Così gli fecero, alla fine di una lunga serie di trafile amministrative, affinché lui potesse ottenere quella sorta di “libertà vigilata” ovvero affidamento.
Tutti gli eventi gli passavano davanti ai piedi, come scie di luci a velocità supersonica, e i suoi sensi ne coglievano solo un eco pallido, attutito, come se nulla di tutto ciò lo riguardasse... In quel frangente durato un’eternità tra traslochi costanti e Tribunale dei minori, l’unica persona che gli venne in mente, e che avrebbe voluto incontrare... Era Maki.
 
 
 

※※※
 
 

Al bancone, un barista stava asciugando i bicchieri, mentre gli ultimi clienti lasciavano il locale semideserto. «Scusate se abbiamo fatto tardi.» Maki sorrise al cameriere, mentre saldava il conto della cena. «Si figuri, grazie e arrivederci!» Uscì dalla porta, ripescando da terra un Kyota ormai in catalessia e lo affidò alle cure di Jin, stranamente ancora cosciente e sorridente, nonostante la quantità considerevole di alcool decantato in serata.
Tirò un sospiro di sollievo, finalmente, incamminandosi a nervi distesi, e pensò a dove poteva aver lasciato la macchina... Dopo appena pochi passi, si fermò. A quanto pare, Jin non era l’unico rimasto sobrio quella sera...
Gli fece un cenno, ergendosi contro un palo della luce, una sigaretta in mano. «Pensavo te ne fossi andato...» Abbozzò una sorta di domanda che si sgretolò per strada, mentre tentava di riagganciarsi alla coda di un pensiero lineare. Un agguato in piena regola.
Non gli rispose; gli occhi distanti, Fujima fece involare uno sbuffo di fumo contro le stelle sfavillanti e mormorò vagamente. «Qui si gela...»
Fantastico... In un primo momento, aveva avuto sì l’impressione che lo stesse aspettando, lì impuntato davanti, anche se, era da reputarsi probabilmente un abbaglio... Perché, ancora oggi, la sua persona era rimasta una pagina imperscrutabile di cui poteva tradurre solo punteggiature sospese. E non c’era tempo di tentennare in analisi, perché ogni risvolta poteva rivelarsi una trappola mentale, e annientarlo, ancora prima che potesse concludere un pensiero... Lui spense il mozzicone, rigettandolo nella notte; si voltò, gli fece uno di quei suoi sorrisi indefinibili, per poi finire la frase lasciata sospesa. «...Andiamo?»
... Appunto.
 
Le vie erano ormai deserte, le poche macchine che passavano affianco alla loro sembravano comparire da un sogno, fugaci destando per scomparire poi presto nelle tenebre.
Alla guida, a quell’ora tarda, Maki era più sveglio che mai. La presenza di Fujima gli giungeva attraverso un lieve respiro dal sedile accanto, e a momenti, aveva creduto che si fosse assopito... Ma sapeva di sbagliarsi. I suoi sensi erano sempre vigili, anche quando dormiva, lo sapeva benissimo...
«Dove andiamo adesso?» Focalizzò una domanda fondamentale, quando erano già per strada da 10 minuti. Senza chiederselo, si stavano dirigendo verso il nulla... Le facciate degli edifici della periferia si sostituivano a un paesaggio man mano più campestre; stavano lasciando la città. «Dove vuoi, non importa...» Fu la sua risposta. Come pensava, era perfettamente cosciente e seguiva in silenzio il percorso dal finestrino, forse, studiandosi una via di fuga, nel frattempo...
«... Cos’hai fatto in questi anni?» Chiese di punto in bianco, gli occhi puntati sulla strada. «...In giro, ho viaggiato parecchio; per lo più, in Sudamerica...» Sospirava lui, lo sguardo spento sul medesimo obiettivo, riesumando i resti di una voce fievole e distratta. Subito, calò di nuovo il silenzio, e la notte si riprese il suo spazio nella piccola vettura.
Aveva davvero così poco da raccontargli? Qual’era di preciso il suo scopo; presentarsi a quella serata organizzata, farsi riaccompagnare dopo, rivederlo... a tanti anni di distanza? Per tutta la serata, Maki se l’era chiesto, senza rinvenire alcuna logica. E ora questo silenzio prolungato, sconclusionato, da fargli tracimare i nervi nonostante... Aspetta, che cos’ha detto? «...E tu?» Gli fece, dopo quel lungo minuto di sonno apparente; ed era la seconda volta che ci cascava... Calma, calma, Shin’ichi ... «Lavoro per una grande multinazionale e sono un manager... nel settore dello sviluppo, e... Niente, sono all’inizio della carriera, poco tempo e troppe cose da fare, ecco tutto.» Fece spallucce come per mettere fine a un discorso frivolo; il riassunto della sua vita che aveva un che di inadeguata, piantata in mezzo a loro due. E non era esattamente ciò che sperava di poter dire, quella sera...
Fujima si sistemò la cintura, con fare fortuito, tossicchiando. «Mi sembri sorpreso di vedermi stasera...» Gli tremò un sopracciglio dalla sorpresa... Cosa? ... A quell’uscita improvvisa ne rimase un po’ interdetto. Un attimo, facciamo ordine mentale... Di che diamine stava parlando? O era lui quello fuori dal mondo, o... “Mi sembri sorpreso di vedermi stasera??” Quanto tempo credeva di essere stato via, Fujima?
«È solo una tua impressione.» Maki cominciò seriamente a dubitare della sua sanità mentale, mentre faceva il buon viso al cattivo gioco. Fujima non ribatté alcunché, limitandosi ad annuire, sorrisetto furbesco a incorniciare le labbra...
 
Abbandonata la superstrada, la macchina si era accostata alla zona portuale, rallentando man mano che la strada finiva.
Incoronato da una costellazione di sfavillanti luminescenze, Minato Mirai si ergeva nella notte. Non c’era nessuno in giro, carezzando la baia, quella passerella pedonale pareva un’isola sospesa nella nebbia leggera. Era mezzanotte.
Era sceso dalla vettura con una vaga intenzione di prendere una boccata d’aria e godersi quello spettacolo mozzafiato. Non proferiva parola. Con lo sguardo perso nel vuoto, Maki osservava le luci della ruota panoramica mutarsi dal rosso al viola, al blu... Arrivato al verde, i pensieri si spezzarono. «Erano anni che non vedevo il porto di Yokohama...» Una nuvoletta si era condensata intorno alle sue parole, mentre si teneva le mani ben nascoste nelle tasche della felpa. Nei suoi occhi, quella città aveva un che di estraneo, benché sapesse di appartenerle, così come in passato; e così come in fondo nessuna città del mondo gli era mai parso familiare, perché lui era sempre stato uno straniero, ovunque capitasse.... Non capiva più quali fossero le sue intenzioni, a questo punto. Se ne stava in piedi accanto a lui, come un’incognita leggera a rinvangare pensieri lontani; forse, aspettandosi una qualche considerazione che però non gli giunse... «Io, riparto tra una settimana. Se ti và, possiamo vederci uno di questi giorni...»
Di fronte a quell’invito surreale, Maki era rimasto gelido e immobile. Nei suoi occhi, un crepitio di tempesta. 
...Ora basta.
«... Perché non mi hai mai chiamato né scritto, in questi anni?» La domanda gli uscì del tutto naturale, anche se non l’aveva premeditata; il tono asciutto e neutrale, sapeva invero di accusa. «Sono stato occupato e mi spostavo di continuo; non avevo tempo né modi per...» «Cazzate.» Una smorfia mordace. Poi di colpo la voce si era levata. «Vuoi dire che in ben sette anni non hai mai trovato un maledetto mezzo di comunicazione per farmi sapere che eri vivo in qualche buco del mondo?! Kenji! Sono sette anni!!» Rimarcò a fuoco quelle due parole, non abbastanza da incenerire tutto il suo rancore. «E adesso ripiombi qui, dopo tutto questo tempo, e mi chiedi di uscire come niente fosse?? Mi prendi forse in giro?! E poi, scusa, ma avrei una vita anch’io! Potrei non averne di tempo, ora...» Fu la sua sentenza definitiva, dopo una lunga trafila di spassionata esposizione. Fujima era rimasto di piombo, apparentemente impassibile, eppure scosso nell’intimo; solo dopo un po’, riuscì a formulare una sorta di risposta, e masticare un sottile e confuso «Capisco...» Gli occhi annebbiati.
Maki si sentì di colpo svuotato.
Sospirò, non avendo più altro fiato da infierire.
Il breve ciclone si era progressivamente calmato... Sebbene su quella striscia di terra, nulla all’infuori delle macerie era rimasto.
«In ogni caso, sai dove trovarmi...» Concluse, recuperando un sorriso smorto da terra, e lo salutò poi con un cenno abbozzato, mentre Maki si voltava dall’altra parte, scuro in volto... Senza neanche una risposta, sbuffando con le mani in tasche, riprese la direzione della macchina.
 
 




Kami … Che cazzo ho fatto …






 
"Calling your name in the midnight hour,

Reaching for you from the Endless dream.

So many miles between us now,

But you are always here...
with me.

Oh inside me

I find the way...

Back to you."

Here with me - Susie Suh

 



 
Fine prima parte_




Note: 
Kefiah: sciarpa simbolo del patriotismo palestinese; era superfluo precisarlo. So che potrebbe shockarvi questa immagine -Fujima, raggiante ragazzo della porta accanto, declassato a adolescente ribelle e spiantato-, anch'io finora l'ho sempre inquadrato come tipo serio con un ego da paura -terrore- e senza una grinza di imperfezione. Decisamente lo preferisco così, è... sexy-
Vägen Hem: non parlo lo svedese, non comprendo la logica della sua stranissima grammatica, e probabilmente è una traduzione sbagliata, ma dovrebbe significare "la strada verso casa" - "the way home"; può essere inteso in senso letterale o figurato, intinta di speranza o angoscia, questa strada -e casa-, quello che vi pare. Titolo di poco impatto, lo so... Ma ha un suo perché, si capirà alla fine!

Le ore 18:02 e mi sono appena resa conto di averci messo un'era geologica a pubblicare... Buonasera a tutti! Sono Kanagawa, quella folle che amava Fujima! Una bella sequel per Kenji e Maki dopo "6.766 parole b/n" e "7.133 parole, b/n"? No no, non proprio. Ci sono diversi elementi contraddittori, toni scabrosi e tematiche di dubbia moralità, perché ho voglia di passare al lato oscuro.



 
  
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