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Autore: Afaneia    01/10/2015    3 recensioni
È l'anno della prima edizione della Lega Pokémon: Samuel Oak è un valido allenatore all'inizio di una brillante carriera. Tutto ciò che vuole è affermarsi e competere con avversari del suo livello.
Agatha ha diciott'anni, è testarda e impulsiva, orgogliosa e severa con se stessa e con gli altri.
Il loro è un legame inaspettato, guidato dall'ambizione e dalla fame di avventure. Ma proprio questa ricerca di avventure finirà per condurli in una spirale di eventi agghiaccianti e irresistibili, in una tragedia di cui non volevano affatto essere i protagonisti, tanto spaventosa e irreale da essere destinata a rimanere per sempre segreta...
Genere: Avventura, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agatha, Prof Oak
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Buonasera a tutti!

Anche se nel precedente capitolo mi ero augurata di riuscire a ridurre un po' i miei tempi di aggiornamento, mi rendo perfettamente conto di averli praticamente raddoppiati e per questo sento di dovere a tutti le mie scuse: a mia discolpa, posso dire soltanto che questo capitolo, a sorpresa, si è rivelato ancora più difficile da scrivere del precedente, e inoltre che è venuto straordinariamente lungo. Proprio per questo motivo sarò costretta a dividere anche questo in due parti, per agevolare la lettura, ma cercherò di postare entrambe stasera stessa. Mi sembra il minimo, dopo tutta quest'attesa.

Devo davvero ringraziare dal profondo del cuore tutti coloro che hanno recensito il capitolo precedente: cristal_93, Bankotsu90, Gabbotron01 e Persej Combe. I vostri pareri mi hanno fatto davvero moltissimo piacere! Nell'ultimo capitolo ringrazierò diffusamente anche tutti coloro che hanno aggiunto la storia a una qualsiasi lista, ma per ora mi limito a dire un grazie di cuore a tutti.

La frase che dà il titolo al capitolo è una citazione virgiliana traducibile così: se la mente non fosse stata funesta, ma per chi fosse interessato al testo originale o ricercasse una traduzione migliore della mia, rimando direttamente alla lettura originale: Eneide, Canto II, versi 54 e seguenti.

Riguardo al capitolo precedente, devo confessare che ne sono rimasta tanto colpita io stessa che ho finito per adottare un Nidoking su Pokémon Giallo e un Arcanine su Pokémon Bianco 2. Naturalmente non interessava a nessuno, ma mi faceva piacere dirlo.

Ciò detto, mi sembra di aver davvero detto anche troppo: non posso che augurarvi una buona lettura!

Grazie anche solo per essere arrivati fin qui

Afaneia




Capitolo VIII – Si mens non laeva fuisset (Parte Prima).


Quando Charizard li ebbe lasciati entrambi nell'ampio giardino della casa di Agatha, Samuel la sollevò tra le braccia e fece letteralmente irruzione nel salotto.

Raggiunse a tentoni il tavolino per distendervi Agatha e corse ad accendere la luce, là dove ricordava di aver visto l'interruttore, quel pomeriggio: la testa gli pulsava ancora quando si muoveva, ma il dolore si era attenuato all'aria aperta e l'adrenalina ancora in circolo nel suo corpo lo spingeva ad agire a velocità sorprendenti.

Nella piena luce elettrica, il pallore di Agatha gli parve ancora più inquietante, ma egli non riusciva a mantenere lo sguardo sul suo viso: i suoi occhi scendevano irresistibilmente verso le sue gambe, che erano rosse del sangue che andava rapprendendosi per tutta la loro lunghezza, almeno fin dove egli riusciva a vedere. Rimosse la camicia che aveva usato per bendarla alla meglio, sforzandosi in ogni modo di non fare gesti bruschi: era sgradevolmente rigida e pesante di sangue, tanto che sciogliere il nodo che aveva fatto fu difficile, ma perlomeno sembrava essere servita almeno in parte a frenare l'emorragia. Quando guardò la ferita, gli parve che il flusso di sangue fosse almeno diminuito.

Non c'era tempo da perdere. Samuel non aveva mai visto una ferita del genere – non che in generale avesse dovuto mai affrontare molte ferite gravi, nella sua carriera di allenatore – e non aveva la più pallida idea di cosa fare, ma forse fu proprio questo a spingerlo ad agire.

Saccheggiò letteralmente la cucina e il bagno: prese acqua calda, asciugamani, disinfettante, garze, qualsiasi cosa che pensasse anche solo lontanamente poter servire. Lavò e tamponò la ferita con acqua tiepida, strofinando e bagnandole le gambe finché sul tavolino sotto di lei non si fu formata una repellente pozza d'acqua rossa di sangue ed egli non riuscì a distinguere nitidamente il calore della sua pelle, e solo allora riuscì a vedere distintamente la ferita. Gli sfuggì una bestemmia. La carne di Agatha era scavata in profondità dal segno perfettamente distinguibile di un morso umano.

Si sforzò di guardarla il meno possibile. La disinfettò nel modo in cui più o meno supponeva che si disinfettasse una ferita e vi legò attorno un bendaggio ridicolmante spesso, cercando di valutare a intuito quanto stringerlo o meno.

Continuò ad affannarsi attorno a lei per i minuti più angoscianti della sua vita. Le frizionò il viso, i polsi e le mani con acqua tiepida, le strofinò le braccia, le fece bere sorsi di acqua zuccherata tenendole il capo reclinato, la chiamò e la scosse e la accarezzò: le sue dita insanguinate lasciavano pallidi segni rosati sul suo viso. Finalmente, alla terza volta che la faceva cautamente bere, Agatha spalancò gli occhi tossendo per l'acqua che doveva esserle andata di traverso e si appoggiò pesantemente alla sua spalla, col corpo scosso dai colpi di tosse.

Era finita. Samuel la sostenne senza stringerla con gli occhi che gli si riempivano di lacrime di sollievo, il volto immerso nei suoi folti capelli incrostati di sangue, e gli parve di esalare, in quel momento, il suo primo vero respiro da quando era entrato nella Torre. Sentì che il petto di Agatha si comprimeva e si dilatava contro il suo e che le gocce calde delle sue lacrime gli cadevano sulle spalle e sulla schiena. Osò appena sollevare una mano ad accarezzarle la nuca, in un gesto che voleva essere rassicurante, ma che forse era solo bisogno di lei.

«È finita, Agatha. Siamo a casa. È tutto finito.»

«No!» singhiozzò Agatha contro la sua spalla, con la voce colma di un dolore tanto atroce, tanto straziante, che Samuel non avrebbe voluto mai udirlo da lei. Una sensazione improvvisa, pungente sulla schiena lo fece fremere inaspettatamente e impiegò qualche istante a rendersi conto che nell'aggrapparsi a lui, Agatha gli aveva conficcato le unghie nella carne. «No, Samuel, no!»

«Sht... zitta, Agatha, zitta. È finita.»

«Samuel, io li ho visti! Ho visto quello che ha fatto la mano, l'ho visto, l'ho visto!»

«Lo so, Agatha!»

Sentiva che se avessero continuato a parlare di ciò che era avvenuto, di tutti gli orrori che avevano visto, avrebbe pianto... e in quel momento non poteva permetttersi di farlo.

Mise a tacere Agatha cullandola come una bambina contro il proprio petto. Non l'aveva mai vista piangere, no, neppure quel pomeriggio, e ora gli parve che nessun suono umano potesse essere più doloroso, più straziante e disperato di quello... eppure, l'ascoltò. Non poteva permettersi di abbandonarsi al dolore adesso, e ascoltò il pianto di Agatha sforzandosi di estraniarsene e di non pensare, di reprimere da qualche parte in fondo alla sua coscienza il pensiero di ciò che egli stesso aveva perduto, lassù. Si concentrò sulla sensazione dei graffi che gli scavavano sulla carne, del petto di Agatha oppresso contro il suo e scosso dai singhiozzi, e chiudendo gli occhi nei suoi capelli sperò di poter provare solo quello: divenire un ammasso di sensazioni fisiche e indistinte completamente scevre da qualsiasi sofferenza. Se così fosse stato, s'egli avesse potuto essere una creatura fredda e inumana, non avrebbe mai dovuto affrontare il pensiero della morte di Arcanine. Ma la verità, egli lo sapeva bene, era che di soffrire non avrebbe smesso mai; che ogni singulto di Agatha gli sembrava strappato dalla sua propria carne...

A un tratto i singhiozzi di Agatha si mutarono in un gemito di sofferenza improvvisa: staccandosi bruscamente da lui, ella chinò lo sguardo come se non comprendesse l'origine di quel dolore.

«Samuel! La mia gamba...!»

Samuel ebbe appena il tempo di trattenerle con più vigore le braccia prima ch'ella allungasse meccanicamente una mano per cercare di sciogliere il bendaggio e vedere la ferita: senza neppure cercare di ribellarsi, Agatha lo guardò con occhi enormi e spaventati. «È stato lui, Samuel! È stato lui che mi ha fatto questo?»

Samuel non poté far altro che annuire senza rispondere. Gli mancava la voce, e come avrebbe potuto dirle ciò che aveva visto lassù?

«Va tutto bene, Agatha, io... ho fatto del mio meglio. Chiameremo il dottore e...»

«No, no, il dottore no» balbettò freneticamente Agatha, scuotendo la testa. Dopo aver perduto tanto sangue, persino quel movimento così semplice parve indebolirla terribilmente: separandosi da lui, ebbe bisogno di sostenersi con entrambe le braccia ai bordi del tavolo per rimanere sollevata.

Possibile che riuscisse a essere così insopportabilmente testarda persino in quel momento in cui a malapena riusciva a rimanere seduta? Ignorando le sue proteste, Samuel la sollevò con decisione dal tavolo, e subito ella cercò di allontanarlo e respingerlo senza troppa efficacia.

«Non lo voglio il dottore, Samuel!» singhiozzò con voce terribile, aggrappandosi furiosamente al suo petto. «Loro sono morti!»

I compagni della sua anima e dei suoi viaggi, con i quali ella aveva programmato e sperato di condividere la sua vita per tutti gli anni a venire, non c'erano più. Agatha non aveva davvero bisogno di aggiungere altro, ma in quel momento, a Samuel non importava realmente che cosa volesse. Arcanine, quella nera creatura che a ogni istante lo fissava con occhi sbarrati dal fondo della sua coscienza, e al cui sguardo d'accusa e di delusione egli continuamente cercava di sottrarsi, Arcanine era morto per colpa sua, e questo mai avrebbe potuto cambiare, ma Samuel poteva ancora salvare qualcuno!

Non ascoltò le sue proteste. Sollevò di peso e senza alcuna difficoltà il suo corpo minuto, totalmente incapace di opporgli una vera resistenza, e si diresse a grandi passi verso il grande bagno del piano terreno.

Non aveva alcuna intenzione di bagnare la goffa fasciatura che aveva faticato tanto a fare, ma in qualche modo Agatha doveva essere lavata. La fece sedere sul pavimento, contro il bordo della grande vasca bianca d'aspetto antico, e prese a spogliarla con grande delicatezza.

Agatha non gli oppose la minima resistenza e a dire il vero, neppure lo guardava. Si limitava talora a facilitarlo, in modo completamente passivo, sollevando o piegando le braccia per assecondare i suoi movimenti, ma non fece mai niente di sua spontanea iniziativa; quando addosso non le rimase che una leggera sottoveste di lino bianco, non manifestò il minimo segno d'imbarazzo o moto di pudore.

Samuel cercò di lavarla passandole spugne imbevute d'acqua su tutto il corpo, o almeno fin dove poteva decentemente arrivare, ma anche quando sarebbe stato un bene per lui che Agatha lo aiutasse, ella non fece nulla. Il suo sguardo era stranito, del tutto perso nel vuoto, ed ella sembrava non accorgersi nemmeno di ciò che accadeva.

Strofinò la sua pelle così forte da farle quasi male, e di certo con molta più energia di quanto ve ne fosse effettivamente bisogno: ma forse i suoi occhi vedevano molto più sangue di quello che c'era in realtà, e l'idea di quel sangue gli faceva orrore.

Quando finalmente non riuscì a vedere altro che il biancore arrossato dagli sfregamenti della sua pelle, si decise a lasciar finalmente cadere la spugna nella vasca da bagno. Inalò un respiro profondo, strenuato, e da qualche parte fuori da quel silenzio echeggiò un tuono. Dunque il temporale era arrivato, finalmente.

Rimase a lungo immobile, inginocchiato sul pavimento accanto a lei. Aveva le ginocchia immerse nell'acqua che era gocciolata a terra dal corpo di Agatha, e questo gli diede una spiacevole sensazione di freddo cui non si sottrasse. Pensò che sarebbe stato piacevole strarsene là fuori, sotto il temporale che scendeva e inondava la terra, e bearsi a occhi chiusi delle sue acque e del suo profumo.

Trascorse tra di loro un tempo indefinibilmente lungo, infine Agatha parlò. Le sue parole furono tanto flebili da mescolarsi al gorgoglio d'acqua che scorreva lungo le grondaie dell'edificio.

«Come hai fatto, Samuel?» domandò. Quando Samuel sollevò lo sguardo su di lei, si rese conto che doveva averlo fissato per un po', cogli occhi spenti e arrossati fissi su di lui. «Non c'era modo di andarsene da lì. Come hai fatto?»

«È stato Charizard» disse Samuel senza riflettere. Agatha aggrottò la fronte, come a chiedergli col volto di spiegarsi meglio, e Samuel avrebbe voluto essere in grado di spiegarle così, dopo neppure un'ora, com'era che la vendetta di Charizard li aveva salvati entrambi. Si passò una mano sulla fronte, come a cercare nella sua mente un numero sufficiente di parole per descrivere l'orrore di quanto aveva visto lassù, sulla Torre, ma forse era troppo stanco per ricordarle, o non ne conosceva abbastanza, o semplicemente tutte le parole del mondo non bastavano a descrivere il momento in cui le fiamme si erano levate sul tetto della Torre alte e inesorabili, illuminando Lavandonia come una grande torcia nella notte, mentre Charizard, folle di dolore, sbatteva le ali per alimentarle e riversava ancora sulla Torre rigurgiti di fuoco.

Aveva visto il sepolto vivo avvampare e bruciare in quell'inferno mentre il fuoco consumava le sue carni già dilaniate, ma per non più di pochi secondi: presto le fiamme erano diventate troppo alte e aldilà di esse egli non era riuscito a scorgere niente. Il vento aumentava il fuoco, lo spingeva verso sud; Samuel aveva trascinato Agatha il più lontano possibile da quell'inferno, ma dove rifugiarsi se tutto attorno a loro si stendevano decine di metri di strapiombo? Aveva urlato e supplicato Charizard di portarli via da lì, di non lasciarli morire come topi in trappola, che almeno portasse via Agatha...

E forse per parlarle di tutto questo le parole che la sua mente conosceva sarebbero persino state sufficienti, ma poi come avrebbe potuto parlarle di quella decina di secondi, così angosciosa da fare quasi male, in cui Charizard era rimasto a fissarlo in silenzio, a molta distanza da lui, sospeso a mezz'aria in chiaro segno di completa estraneità? In quei secondi Samuel aveva saputo, l'aveva letto nei suoi occhi, che Charizard era stato tentato di lasciarlo lì. E perché non avrebbe dovuto? Egli aveva vendicato Arcanine, ma Arcanine era morto per colpa sua! Perché scioccamente era andato lì, perché quella Pokéball gli era scivolata di mano, perché all'ultimo momento si era scansato...

E se Charizard, alla fine, li aveva salvati, egli sapeva che non era stato per nient'altro che per mostrarsi migliore di lui. Samuel aveva letto anche questo nei suoi occhi, nella superiorità che i suoi gesti esprimevano, nella rabbiosa insofferenza con la quale gli aveva permesso di salire sul suo dorso, nella sgraziata rapidità con la quale aveva solcato l'aria discendendo dalla Torre e li aveva deposti al suolo, nel giardino di Agatha, senza troppa indulgenza. Gettando uno sguardo verso la finestra, Samuel si augurò che Charizard avesse trovato un riparo da quella pioggia, dato che aveva rifiutato con un ringhio sommesso e alterato di rientrare nella Pokéball. Chissà dov'era andato a nascondersi.

«Charizard l'ha... bruciato vivo» disse a fatica. «Ha dato fuoco al tetto della Torre. Suppongo che ora tutta Lavandonia stia cercando di spegnere l'incendio.»

Anche se la sua mente sconvolta non era in quel momento degna di particolare fiducia, era ragionevolmente certo che nulla di ciò che era successo potesse essere ricondotto a loro, e questo era un bene, perché nessuno gli avrebbe creduto se avesse affermato di aver dato fuoco a uno dei più importanti beni artistici e culturali di Kanto per salvarsi da un morto vivente. Le fiamme avevano cominciato a propagarsi in modo strano verso il basso mentre loro si allontanavano in volo: con ogni probabilità, la Torre doveva essere rivestita di un qualche materiale impermeabile e altamente combustibile. E questo non poteva voler dire che una cosa: la Torre stessa era diventata la pira funebre dei loro Pokémon. Si augurò che un giorno questo pensiero potesse dargli un po' di conforto, anche se per ora non gliene veniva nessuno.

Sgranando gli occhi, Agatha cercò di raddrizzarsi contro la vasca da bagno, sollevandosi sul pavimento: dalla smorfia di dolore che fece, Samuel capì che la gamba doveva dolerle molto, ma quando cercò di aiutarla, ella sollevò una mano per fargli cenno di fermarsi. «Hai dato fuoco alla Torre?» balbettò.

«È stato Charizard» insisté Samuel. Questo punto gli sembrava di fondamentale importanza: non era stato lui a salvarli, né a salvare gli altri suoi Pokémon. Egli non era stato in grado che di fuggire e abbandonare Arcanine e sperare di morire presto per sperare di potersi sottrarre al ricordo del suo peccato innominabile, e per questo non voleva che nulla di eroico gli venisse attribuito.

Questa volta Agatha si limitò ad assentire col capo, ma stancamente, come se fosse troppo esausta per avere la forza di fare altre domande. Allungò la mano per sfiorare con la punta delle dita la spessa fasciatura sulla gamba e di nuovo strinse le labbra per il dolore, ma non le sfuggì un solo gemito.

«Tu li hai visti, Samuel?» mormorò. Gli gettò una lunga occhiata esitante, come se non fosse del tutto sicura di voler conoscere la risposta, ma si sforzò d'indagare ancora. «Quando mi ha trascinato via, le pallide mani stavano... ora devo sapere. Che cosa hanno fatto ai miei Pokémon?»

Samuel ebbe l'impressione che quell'orribile odore raccapricciante e disgustoso di sangue e viscere gli riempisse ancora le narici, persino lì, in quel bagno così piccolo e pulito e raffinato, e la tempia gli diede una nuova pulsazione dolorosa. Ciò che aveva visto e sentito era orribile, ma mai come in quel momento egli sapeva che Agatha si meritava la verità. Le prese cautamente la mano, stringendola piano, e s'impose di non abbassare lo sguardo mentre le parlava.

«Li hanno fatti a pezzi.»

Agatha accolse l'orrore della verità che lui le rivelava senza altre lacrime, o urla, o gemiti, ed egli comprese che in fin dei conti aveva sempre saputo, prima ancora di chiederglielo, che cosa era accaduto di loro; che nel suo cuore ella l'aveva sentito, e che poteva darsi persino che su quel tetto, negli attimi della sua agonia prima di perdere i sensi, ella avesse udito le grida atroci del loro dolore; ma che comunque aveva chiesto per quel grande bisogno che aveva di affrontare la realtà, di sancire definitivamente la loro perdita e la fine dei suoi Pokémon.

Volse lo sguardo verso la finestra, là dove un lampo in quel preciso istante dilacerava la notte e brillava attraverso i vetri come luce del giorno, e Samuel distinse pienamente in quella luce le fredde lacrime che solcavano il suo volto.

«Perché, Samuel?» mormorò. «Perché tutto questo dolore...?»

Ma nella notte e nel temporale che infuriavano fuori da quella casa, e che lavavano via sangue e fiamme e soffocavano gli incendi, non sembrava esservi alcuna risposta.


Samuel trascorse ciò che restava della notte cercando di tenersi il più lontano possibile. Ignorando le sue smorfie e le sue tenui proteste, portò Agatha in camera da letto e trovò per lei, frugando senza troppa cura in un cassettone, una sottile camicia da notte ch'ella potesse indossare.

Mentre oltre quelle mura il cielo si rovesciava su Lavandonia in un concerto di tuoni e con grande spettacolo di lampi, egli lavorò instancabilmente per ripulire il salotto e il bagno dal sangue e dall'acqua sporca. Gli sembrava che lavorare lo aiutasse: concentrandosi solo e unicamente su ciò che stava facendo, senza visualizzare altro nella sua mente che l'opera delle sue mani, egli riusciva ancora a sopprimere nella sua mente il pensiero di Arcanine.

Trovò la forza di affacciarsi alla finestra solo quando la fredda luminescenza grigia dell'alba cominciò a filtrare attraverso le imposte. Il temporale sembrava essere finito: salendo al primo piano, nella camera da letto dove Agatha lo aveva fatto sistemare meno di dodici ore prima, Samuel spalancò la finestra e si sporse per vedere al di fuori. La cima della Torre, per quel che poteva vedere, era completamente bruciata. Da dove si trovava non era in grado di dire se vi fosse qualcuno alla sua base, ma era quasi certo di sì: sapeva bene quanto valore la Torre rivestisse per gli abitanti di Lavandonia, ma quel pensiero non gli diede il minimo senso di colpa. Il suo Charizard aveva danneggiato uno dei più importanti edifici sacri di Kanto, ma una torre di legno si ricostruisce facilmente, e nessun prezzo sarebbe stato troppo alto per ciò da cui Charizard li aveva liberati. Il sepolto vivo non esisteva più.

Chinando gli occhi dalla Torre che levava ancora una magra colonna di fumo, Samuel perlustrò con lo sguardo il giardino molle e profumato di pioggia che si apriva sotto di lui. Non riusciva a vedere Charizard da nessuna parte. Era certo che avesse trovato un luogo asciutto dove stare al riparo dalla pioggia, ma non era per quello che era preoccupato.

Scese finalmente dabbasso per telefonare al dottore. Agatha si era rifiutata di dirgli il nome del suo medico, ma perlustrando con attenzione il mobile del telefono, Samuel riuscì a trovare una vecchia rubrica rivestita di pelle sulla cui prima pagina, tra le varie annotazioni urgenti, spiccava il biglietto da visita di un certo dottor Ross.

Dopo quattro lunghi squilli d'infinita angoscia gli rispose una cameriera dalla voce assorta e distratta, che aveva tutta l'aria di non star tanto ascoltando lui, quanto piuttosto fissando la cima della Torre dalla finestra ma che parve riscuotersi un po' almeno quando egli pronunciò il cognome di Agatha: l'uomo che sollevò la cornetta di un secondo appareccho, domandandogli sussiegosamente chi fosse e se la signorina Agatha avesse bisogno di lui, gli promise che sarebbe stato lì nel giro di mezz'ora.

Quando Samuel riappese il ricevitore, con la vaga sensazione che il dottor Ross non gli avesse dato una particolare fiducia, si rese conto quasi con sgomento di non avere più nient'altro da fare. Aveva trascorso tutta la notte ripulendo la casa dal sangue di Agatha, e ora persino ai suoi occhi ossessionati sembrava che non ci fosse più niente da pulire.

Trascorse la mezz'ora seguente lavandosi e cambiandosi rapidamente d'abito, e poi passeggiando nervosamente in salotto con le palpebre che stentavano a rimanere sollevate. Da quante ore non dormiva?

Dal piano superiore non sentiva provenire alcun suono. Talora egli si soffermava sul posto, mentre camminava, per evitare di coprire coi propri passi qualsiasi rumore potesse giungere dall'alto, e levando gli occhi ascoltava: tutto era silenzio, eppure egli era certo che Agatha non dormisse. Avrebbe voluto salire di sopra e parlarle, o almeno sedere in silenzio al suo fianco e non far altro che accumulare l'una sull'altra le loro presenze, eppure, ogni volta che provava anche solo ad avvicinarsi alla grande scala, qualcosa lo tratteneva con tale forza ch'era come venir afferrati per le braccia... allora, egli tornava indietro. Non c'era niente che potessero fare l'uno per l'altra, ora.

Il dottor Ross arrivò dopo un tempo che a lui parve sproporzionatamente lungo per qualcuno che abitasse in un paese piccolo quanto Lavandonia: erano quasi le otto e un quarto. Quando Samuel si precipitò ad aprire la porta, col cuore che traboccava di conforto e gratitudine, senza nemmeno premurarsi di chiedere chi vi fosse dall'altra parte, si ritrovò davanti un uomo basso e di mezz'età, piuttosto corpulento che robusto, che lo fissò per qualche istante con severità prima di chiedere: «Il signor Oak, presumo. È lei che mi ha telefonato, stamattina?»

A dire il vero, il suo tono era alquanto freddo per un medico, ma Samuel era troppo preso dal pensiero di Agatha per farci caso. A colpire la sua attenzione fu invece l'aria di grande sicurezza che quell'uomo sembrava emanare, al di là della sua espressione severa, e la stretta decisa e secca che gli diede. Si affrettò a farsi da parte. «Sono stato io. Grazie per essere venuto subito.»

Il medico emise un verso di disapprovazione mentre varcava la soglia: portava con sé una valigetta piuttosto rigonfia. «Subito! Ah! Lavandonia è in preda al panico. Avrei voluto venire in automobile, ma le strade sono congestionate per... avrà visto cos'è successo, presumo» soggiunse, gettandogli uno sguardo distratto mentre appoggiava l'ombrello contro la porta.

Samuel si sentì quasi vacillare. Nella domanda del dottore non c'era assolutamente niente che potesse suonare accusatorio o indagatore, anzi lo aveva a malapena guardato ponendogliela, ma ma come avrebbe potuto non sentirsi sotto processo sapendo cos'aveva fatto? Ebbe bisogno di appoggiarsi con la mano alla parete per cercare un sostegno e si augurò che il suo gesto non sembrasse troppo insolito.

«Ho visto l'incendio dalla finestra» disse a voce bassa, fissando il pavimento nella speranza di tradire il minor turbamento possibile. «Avrei voluto uscire a dare una mano, ma dovevo occuparmi di Agatha, e...»

«Bah! Nessuno avrebbe potuto aiutare» commentò il medico con voce sprezzante, come s'egli avesse espresso un'idea molto sciocca. «Nemmeno i pompieri sono riusciti a salire così in alto. È stato il cielo a salvare la Torre: se non si fosse messo a piovere... comunque. Vuol farmi strada, prego?» soggiunse, in tono appena meno scostante.

Muovendosi come un automa, Samuel scattò in avanti per condurlo al piano di sopra. Si sentiva molto incerto e l'ultima cosa che avrebbe voluto era proprio suscitare sospetti sugli eventi della Torre, ma non poté trattenersi dal domandare ancora. «Si sa come è scoppiato l'incendio?» chiese con tutta la calma che riuscì a simulare mentre salivano le scale.

«Un fulmine, suppongo» ribatté il dottor Ross quasi con disprezzo: per gli abitanti di Lavandonia, l'idea che un fulmine potesse essere stato tanto irrispettoso da colpire la loro Torre doveva avere qualcosa di sacrilego e irriverente. Il dottor Ross aveva detto un fulmine con la stessa aria di superiorità con la quale avrebbe potuto dire: un monellaccio. «Ma la ricostruiremo, vedrà. La Torre è qui da prima dei nostri nonni e non permetteremo a niente di buttarla giù. Ah, ecco...»

Erano già nel corridoio del primo piano: quando Samuel si voltò, colpito dalle sue parole, vide che il dottor Ross si era fermato davanti a una porta chiusa e che lo stava guardando con aria interrogativa, accennandogliela leggermente. Senza aver capito affatto cosa quell'uomo intendesse, Samuel si limitò a indicargli la fine del corridoio. «Veramente, la camera di Agatha è...»

Per il medico fu come un'illuminazione improvvisa. Si riprese subito, con una mezza risata di circostanza, e riprese il corridoio. «Ha ragione, sa! È da tanti anni che non visito più la signorina. In effetti, quella stanza ora sarebbe un po' troppo piccola per una donna fatta.» Solo allora Samuel realizzà che dietro quella porta chiusa doveva esserci la camera d'infanzia di Agatha e che il medico vi si era rivolto istintivamente dopo tutti quegli anni.

La porta dell'attuale stanza di Agatha era stata appena accostata: accostandovi l'orecchio, Samuel bussò chiaramente e disse ad alta voce: «Agatha, il dottor Ross è qui.»

Attese invano la risposta per una decina di secondi: dall'interno della stanza buia non giungeva in risposta altro che silenzio. Del resto, che altro ci si sarebbe potuti aspettare? Non la vedeva meno chiaramente che coi suoi occhi, orgogliosamente asserragliata nella fortezza del suo letto, contrariata e offesa all'idea che nonostante la sua opposizione egli avesse egualmente chiamato il medico... ma con la sua rabbia egli avrebbe fatto i conti quando tutto fosse finito.

«È sveglia, comunque» mormorò un po' imbarazzato. «Prego, entri.»

Aprì lentamente la porta e si fece da parte, facendogli cenno di entrare. Dal letto che scorgeva appena in fondo alla camera non giunse alcuna parola di saluto o di protesta, quasi che la stanza fosse disabitata, quando il dottor Ross entrò col cappello rispettosamente in mano; ma poi, quando Samuel si mosse istintivamente per seguirlo, quegli si volse verso di lui e si bloccò, ostruendogli il passo con la sua mole.

«Lei è il fidanzato della signorina?» chiese severamente, guardandolo dall'alto in basso con aria di disapprovazione.

Samuel non avrebbe creduto mai di poter ancora arrossire, eppure ebbe la precisa sensazione delle proprie guance che bruciavano. Si ritrasse di scatto, scuotendo la testa, e balbettò in fretta senza riuscire ad articolare nulla di concreto: «No, io... compagni di viaggio. Sono un suo amico.»

«Capisco. Un motivo in più per rimanersene fuori, suppongo» concluse il medico, afferrando la maniglia della porta per chiuderla dietro di sé: era evidente che considerava chiusa la questione. Ma poi, rendendosi conto d'esser stato troppo duro,proseguì: «Stia tranquillo, signor Oak. Me ne occupo io. Ma lei perché non va a riposarsi un po', nel frattempo? Verrò io a chiamarla quando avrò finito. Mi sembra molto stanco.»

Stanco, già: stanco. Quando la porta si fu richiusa davanti a lui e alla sua angoscia, Samuel appoggiò la fronte contro il legno fresco, socchiudendo gli occhi. Era l'unico modo ce avesse per sentire di star vicino ad Agatha anche in quel momento, appoggiarsi alla porta e convincersi di essere lì.

Sentì che il dottor Ross la salutava con la massima cortesia: dopo qualche secondo, Agatha rispose piuttosto freddamente. Udì il rumore della finestra che veniva spalancata per lasciar entrare un po' di sole, il tono leggero e di circostanza con il quale cercava d'instaurare una convesazione. Da dove si trovava, Samuel non riusciva a distinguere le parole, ma udire la voce di Agatha, per quanto debole, stanca e fredda, lo fece sentire un po' meglio. Agatha era viva, quantomeno.

Continuò ad ascoltare le loro voci basse provenienti dall'interno, cercò di distinguere dalle loro modulazioni almeno il parere del medico... ma era impossibile. Dopo qualche minuto udì il gemito di Agatha – un'emissione di voce bassa e contrariata, come se fosse riuscito a sfuggirle nonostante tutta la sua volontà, e una parola rassicurante, come se il dottor Ross volesse tranquillizzare una bambina. Cominciò a camminare su e giù per il corridoio, incapace di ascoltare ancora, e aspettò.

Il dottor Ross rimase nella stanza per i venti minuti più lunghi della sua esistenza. Quando uscì, non parve affatto sorpreso di trovarlo ancora lì, nonostante le sue raccomandazioni.

«Ah, eccola» constatò flemmaticamente, richiudendo la porta dietro di sé. «Meglio così, suppongo. Può accompagnarmi giù?»

Aveva tutta l'aria di volergli dire qualcosa. Si avviarono in silenzio lungo le scale, ma Samuel esitò a domandare: aveva la bocca piena di domande, ma vedeva bene che il dottor Ross era pensieroso, catturato da riflessioni tutte sue.

Quando giunsero ai piedi delle scale, come continuando un discorso che avesse già lungamente avviato nella sua testa, il medico parlò. «Per telefono non avevo capito che si trattasse di una cosa tanto grave.»

Ogni singola speranza che Samuel avesse concepito nella propria mente sino ad allora scomparve, parve soffocare e afflosciarsi proprio come un fiore. Dopo lunghi istanti di lotta, quando l'aria finalmente accennò a tornargli nei polmoni, esclamò: «Quanto grave?»

Il dottor Ross non rispose subito. Si sfilò gli occhiali, con gesti molto lenti e misurati, e prese a pulirli pensierosamente. «Una ragazza così giovane, così bella... è un peccato.»

«Che cosa è un peccato?» sbottò nervosamente Samuel. Sentiva che se solo avesse dovuto attendere un altro minuto solamente, avrebbe cominciato a urlare.

Finalmente il dottore si decise a smettere di evitare il suo sguardo. Si rimise gli occhiali sul naso e si volse nettamente verso di lui. «È una ferita piuttosto profonda» disse. «È stato lei a fare la fasciatura, presumo. Andava bene per contenere l'emorragia, ma ho dovuto comunque ricucirla. Questo non sarebbe un problema, ma le resterà una cicatrice molto visibile, e bisognerebbe capire bene l'estensione dei danni, ma con i soli mezzi a mia disposizione, io... La signorina mi ha detto che non avrebbe voluto che lei mi chiamasse» soggiunse all'improvviso, in modo del tutto slegato da quanto stava dicendo un attimo prima, tornando a guardarlo. Samuel fu quasi sollevato dal pensiero di doversi concentrare su una risposta da dargli: questo lo distraeva quantomeno dal pensiero di Agatha.

«Lei la conosce» borbottò. «È così orgogliosa...»

«Oh, lo so, lo so» esclamò il medico agitando una mano, come se gli parlasse di un argomento che conosceva anche troppo bene; ma ora dal suo tono aveva una certa nota compiaciuta, come s'egli fosse stato fiero del suo carattere indomito e ne avesse avuto un qualche merito. «È sempre stata così, sin da bambina. Ma è stato molto bravo a convincerla, sa? Se non le avesse dato retta, non si sarebbe lasciata visitare. Non mi permetteva mai di toccarla quando a chiamarmi era il signor Firefly... voglio dire, il suo tutore.»

Di che genere di complimento si trattasse, questo Samuel non sarebbe stato in grado di dirlo, e anzi aveva il sospetto che si trattasse piuttosto di una velata insinuazione, ma decise di sorvolare. Si limitò ad assentire, allora il medico proseguì: «Pensa che le sarebbe possibile, se volesse... convincerla a farsi ricoverare?»

Questa volta Samuel non poté trattenersi dal fissarlo con tutto lo stupore e l'orrore di cui era capace. «Ricoverare dove?» In un manicomio, forse? Possibile che Agatha avesse detto la verità – ma no, ma no! Agatha non era una sciocca! Sapeva bene come lui che nessuno le avrebbe creduto mai! E allora, se non in un manicomio, la sua ferita era tanto grave da...?

«Non c'è nulla per cui alterarsi, signor Oak!» protestò il medico, sollevando entrambe le mani contro l'aggressività della sua voce. «Non volevo dire che... ma insomma, in un ospedale potrebbero seguirla meglio di me. Lavandonia è una piccola città, signor Oak, e io non sono che un medico di campagna. Non posso certo paragonarmi al primario dell'ospedale di Azzurropoli, le pare?»

Di fronte alla candida ragionevolezza delle sue proteste, Samuel si sentì molto stupido per aver alzato la voce. Si strinse nelle spalle e mormorò impacciato: «Proverò a parlargliene, se vuole. Ma non posso fare l'impossibile.»

Il dottor Ross approfittò della sua resa per sospingerlo discretamente verso la porta. «Lei mi pare stanco, signor Oak. Da quanto tempo non dorme?»

Per evitare di dover rispondere con precisione, Samuel fece un cenno vago con la mano. Cominciava ad avvertire molto intensamente lo sguardo del dottore su di sé e fu contento che i capelli che non tagliava da un po' coprissero a sufficienza la brutta escoriazione che la pallida mano gli aveva provocato. Non aveva voglia di dover dare spiegazioni al riguardo. «Questa notte ho dovuto occuparmi di Agatha.»

Ormai erano davanti alla porta, ma vedendo che il medico si fermava, Samuel esitò ad aprirla: non voleva dare l'impressione di volerlo cacciare per correre al piano di sopra. Gli parve che ora il dottor Ross fosse di nuovo pensieroso.

«Questa notte, è vero?» ripeté. «A proposito... forse lei può aiutarmi, signor Oak: c'è qualcosa di questa storia che mi sfugge. La signorina mi ha detto che a morderla è stato un cane. Lei può confermarlo, presumo?»

Solo in quel momento Samuel realizzò che lui e Agatha non avevano pianificato nessuna storia comune da raccontare in queste circostanze. Avrebbe voluto mordersi le mani per la stizza, invece rispose: «Naturalmente.»

«Suppongo che lei si renda conto che i cani sono una specie rarissima a Kanto e che ci si aspetterebbe che lei ne denunciasse la presenza alle autorità, tanto più visto che si tratta di un esemplare aggressivo.»

Samuel non sapeva niente di tutto ciò, ma promise che appena possibile, sarebbe andato a presentare la segnalazione.

«Molto bene, molto bene.» Il dottor Ross assentì gravemente con aria di grande approvazione. Accarezzandosi piano il mento, proseguì: «A questo punto, devo confessarle di essere un po' confuso, signor Oak. Vede, la ferita sulla gamba della signorina è un morso umano.»

Un morso umano! Forse, se solo Samuel fosse stato meno stanco e meno sconvolto, non avrebbe avuto bisogno che qualcuno glielo dicesse per immaginare che un medico avrebbe saputo distinguere a una prima occhiata un morso umano da uno di cane... ma stanco e sconvolto era quello che era, e solo allora egli si rese conto di quanto lui e Agatha fossero stati imprudenti.

«Non so che cosa dirle» disse rudemente.

«Davvero?» chiese il dottore, fissandolo con attenzione. Dal suo sguardo indagatore Samuel si sentì infastidito e appoggiò discretamente la mano sulla maniglia della porta: ora tutto ciò che voleva era che quella visita avesse fine. «Lei era con la signorina quando è stata ferita?»

Dopo un attimo di esitazione, Samuel rispose: «Era buio e mi ero allontanato di qualche metro dal nostro accampamento. Non ho visto il cane.»

«Presumo che lei non conosca nessuno che potrebbe averla aggredita, non è vero?»

All'improvviso Samuel comprese a cosa miravano tutte quelle domande, cos'era che il medico stava insinuando sin da quando avevano incominciato a parlare....

«Lei pensa che sia stato io!»

Quello era troppo. Il pensiero di Agatha, così come l'aveva vista appena poche ore prima, riversa al suolo col sangue che le impiastricciava le gambe e il volto sbiancato, gli riempì gli occhi tanto intensamente ch'egli di nuovo si sentì lassù, stagliato sopra il nulla dall'alto di quella Torre, e si sentì vacillare... Colla vista annebbiata e le orecchie che ronzavano, non si accorse neppure di essersi appoggiato alla porta con tutto il peso del suo corpo. Lo comprese solo quando sentì la sensazione morbida del divano sotto le cosce, quella fredda e dolciastra dell'acqua zuccherata che il dottor Ross gli stava facendo bere...

«Non è niente, non è niente... un calo di pressione, mio caro ragazzo, ma va già meglio, eh? Come si sente?»

«Non sono stato io» balbettò Samuel meccanicamente, spingendo via il bicchere. Avrebbe voluto alzarsi in piedi, ma decise che aveva bisogno di qualche istante per riprendersi. Cercò di respingere il pensiero anche troppo concreto della notte passata per potersi concenrare e guardarlo negli occhi. «Perché mai avrei dovuto fare qualcosa di tanto orribile?»

«Dovevo chiederlo, signor Oak.» Il medico era di nuovo serio e grave come prima. «Quello non può essere un morso di cane e non farei il mio dovere se non indagassi. »

Posò ordinatamente il bicchiere sul tavolo, ritraendosi di qualche passo per lasciargli un poco di spazio per respirare. Samuel respirò profondamente: si sentiva molto meglio, ora, e si vergognò del mancamento che aveva avuto poco prima.

«Se non mi crede, chieda ad Agatha» disse amaramente. «Può chiedere a lei se ha mentito.»

Non avrebbe potuto trovare una parola magica più efficace: non appena aveva sentito pronunciare il nome di Agatha, il dottor Ross si era irrigidito. Gli accennò appena quello che avrebbe voluto essere un sorriso. «Non è il momento adatto per contraddire la signorina, suppongo» disse, un po' troppo in fretta perché non suonasse come una scusa. «E sconsiglio di farlo anche a lei. Cerchi di lasciarla tranquilla. È sicuro di non poterla convincere a ricoverarsi?»

Dal momento che finalmente il medico sembrava ansioso di porre fine alla visita, Samuel non avrebbe potuto essere più contento di accompagnarlo alla porta. Tornò ad alzarsi in piedi, sulle gambe fiacche ma che ora non minacciavano più a ogni istante di cedere, e si mosse verso l'ingresso. «Farò del mio meglio.»

«Suppongo che in tal caso sia meglio non insistere.» Ormai sulla porta, in procinto di rimettersi il cappello, si prese qualche istante di riflessione prima di parlargli ancora. «Tornerò stasera a visitarla ancora, ma la prego di chiamarmi se dovesse salirle la febbre. Contatterò un'infermiera per la notte, per non lasciarla sola...»

«Un'infermiera?» esclamò Samuel. Si affrettò a scuotere la testa. «La ringrazio, ma non credo che Agatha accetterebbe di farsi curare da altri. Non sarebbe una buona idea.» Non ne avevano mai parlato, a dire il vero, ma con ogni probabilità, per Agatha un'infermiera non sarebbe stata altro che una vittima da tiranneggiare. «Posso rimanere io con lei.»

Il dottor Ross ebbe uno strano sorriso imbarazzato che somigliava più a una smorfia. «Vuol dire che intende rimanere qui per la notte?»

Ora, decisamennte, Samuel cominciava a non aver più voglia di discutere, di difendersi, di giustificarsi di fronte ad altri che alla sua coscienza solamente. Era stato lui stesso, la sera precedente, a porsi il medesimo problema, ma all'improvviso si rese conto di quanto inutile e stupido questo fosse.

«La ringrazio molto, dottore» disse in tono un po' più duro di quanto avrebbe voluto. «A stasera.»

Quando finalmente la solenne intimità della casa si fu richiusa su di lui, separandolo dal mondo esterno e da quel medico e dalle sue insinuazioni, Samuel prese un lungo respiro profondo prima di salire lentamente al piano di sopra. Si sentiva diventato in una sola notte molto vecchio.

La porta della camera di Agatha era di nuovo chiusa, ma Samuel sapeva di non aver bisogno di bussare. La sospinse con delicatezza, aprendola piano sull'enorme stanza bianca e inondata di luce.

«Samuel...»

La specchiera rifletteva barbagli dorati sulla parete sopra la testiera del letto, dove Agatha giaceva minuscola come una bambina, seduta con la schiena appoggiata ai cuscini e i capelli che incorniciavano lugubremente il languore del suo volto. Via via ch'egli s'avvicinava al letto, le sue occhiaie sembravano a ogni passo più scure. «Hai parlato col dottore?»

Samuel annuì. «Sì. Dice che tornerà stasera, ma di avvertirlo se dovessi avere la febbre.»

«Dimmi la verità, Samuel. Perderò la gamba?»

Quella grande forza, da dove le veniva? Samuel la fissò ammutolito per qualche istante. Ferita, estenuata, straziata in ogni luogo della sua persona com'era, da dove le veniva il coraggio di fronteggiare la realtà con determinazione titanica? Samuel avrebbe avuto un gran bisogno di poter fare lo stesso, ma per quanto cercasse dentro di sé, non trovava altro che un grande vuoto e debolezza.

Scosse la testa in risposta alla sua domanda. «Certo che no, Agatha. La tua gamba non è in pericolo, purché evitiamo che la ferita s'infetti. Ti... ti hanno fatto male i punti?»

Agatha non udì neppure la sua domanda. Chinò lo sguardo sulle proprie gambe sotto le lenzuola e mosse lentamente i piedi. Non c'era bisogno di troppa attenzione per rendersi conto che la gamba ferita era innaturalmente più rigida dell'altra.

«È normale» disse Samuel d'istinto, in risposta alla muta scettica domanda che sentiva echeggiare nell'aria, e quella sua rassicurazione suonò ancora più forzata e falsa, proprio per il fatto che non era stata richiesta. Agatha non ebbe reazione.

«Sei arrabbiata con me per averlo chiamato?»

Questa volta, finalmente, ella levò gli occhi su di lui. Scosse lentamente la testa. «No, Samuel... sai che non lo potrei mai. Avevi ragione tu.»

Se quella notte egli non fosse andato sulla Torre, i loro Pokémon non sarebbero morti. Sapeva che Agatha non glielo avrebbe rinfacciato mai, perché aveva scelto liberamente di seguirlo, ma nonostante ciò, era molto difficile credere di aver avuto ragione su qualcosa. Sforzandosi di ignorare quel pensiero, Samuel allungò una mano ad accarezzarle i capelli.

«Dormi, adesso. E cerca... cerca di non pensare a niente.»

Senza preavviso, Agatha allungò una mano dalle coperte e gli accarezzò con due dita le livide occhiaie grigiastre sotto gli occhi. Le sue dita erano fredde e lisce come un flutto d'acqua lacustre, e socchiudendo gli occhi egli si concesse di abbandonarsi per un solo istante alla beatitudine del suo tocco. Ma quella beatitudine era troppo più di quanto il suo rimorso potesse tollerare, e a essa finì per sottrarsi.

«Dormi anche tu, allora. La stanza degli ospiti...»

«Va bene. Ora riposati.»

Accarezzò la sua mano e l'appoggiò sul letto, tra le lenzuola fresche e pulite che sembravano parlare ancora di una vita normale, di un mondo in cui bianco significava pulizia e purezza piuttosto che pallore e morte, e uscì dalla camera chiudendo la porta.

Si trascinò fino alla camera degli ospiti che Agatha gli aveva preparato con tanta cura e si spoglià lentamente, gettando al suolo via via ciascun abito, fino a rimanere in mutande, e si guardò a lungo nello specchio in un angolo della stanza. L'uomo che ricambiava il suo sguardo aveva un fisico tonico e snello dai muscoli guizzanti, la pelle bronzea di sole, ma anche il volto corrucciato e stanco e profonde occhiaie nere, e nei suoi occhi colmi d'accusa Samuel non vide alcuna traccia di perdono.


Dormì di un sonno pesante e inquieto dal quale si destò a fatica dopo forse quattro ore. Non era mai stato abituato a dormire di giorno e ora si sentiva intorpidito, e più assonnato e confuso ancora di quando si era addormentato. Guardandosi attorno, Samuel faticò qualche momento a riconoscere l'asettica stanza degli ospiti di Agatha. La luce che filtrava attraverso le persiane chiuse disegnava sulle pareti macchie dorate che, per qualche istante, parvero voler richiamare alla sua memoria le chiazze luminose che gli avevano abbagliato gli occhi lassù, sulla Torre...

Non riusciva a rendersi conto di quanto tempo fosse effettivamente passato. La luce esterna era quella del pieno mezzogiorno, eppure egli faticava ad abituarsi all'idea che fosse trascorsa già, e al tempo stesso che fosse trascorsa solo una decina di ore appena da quell'orrore... ma era giorno, ora.

Sarebbe stato così facile rimanere in quel letto fresco fino a che il sole non fosse calato di nuovo, concedersi per qualche ora ancora di credere che tutto non fosse stato che un orribile incubo dal quale egli avrebbe finito per svegliarsi quando avesse avuto l'impressione di cadere, o quando tutto fosse diventato troppo da sopportare... Ma l'assenza di Arcanine gli dava una consapevolezza tanto intensa, dolorosa e innegabile da non poter essere un sogno, e neppure per un istante si concesse di credere che Arcanine non fosse morto davvero, e per colpa sua. Si era già comportato da vigliacco una volta, quella notte, ed era anche troppo.

Non si rese quasi conto di sollevarsi dal letto e di vestirsi lentamente, in silenzio, respirando appena per paura di svegliare Agatha. Era il suo corpo, ora, a guidarlo e a scegliere per lui, condotto da un certo pensiero che balenava nella sua mente a intervalli regolari, ma che sembrava scomparire ogni volta ch'egli vi si soffermava con la mente e cercava di afferrarlo per riflettervi su. Era un qualche pensiero confuso che non riusciva a realizzare logicamente, eppure provava la persistente sensazione che fosse la cosa giusta da fare.

Scese le scale per uscire all'aperto, sul vasto prato molle di pioggia. Non sollevò lo sguardo. Se l'avesse fatto, se avesse guardato, avrebbe visto di nuovo la cima bruciata della Torre, vicina e concreta tanto che avrebbe creduto di poterla toccare: ma cos'avrebbe potuto dirgli di nuovo? Dalla sua desolazione non gli sarebbe giunta di certo alcuna rassicurazione o pietà, e guardarla gli avrebbe solo fatto del male.

Attraversò il giardino tenendo gli occhi bassi, compiendo un lento giro tutto attorno alla casa. Non aveva idea di dove stesse andando, e solo un'idea molto poco chiara di cosa stesse cercando, ma nel suo profondo sapeva che avrebbe capito non appena avesse visto.

Si fermò quando si trovò davanti a una specie di capanna degli attrezzi, addossata contro il muro orientale della casa: il suo istinto gli disse che era proprio là che doveva fermarsi. Le girò attorno per trovare la porta, piuttosto accostata che chiusa, e vi appoggiò una mano sopra: sentiva che dall'interno proveniva un certo calore.

Charizard ruggì quando egli spalancò la porta, e Samiel sentì un fiotto d'aria calda investirgli il viso, ma non retrocedette, non vacillò. Si sforzò di tenere gli occhi aperti anche in quell'aria bollente e, semplicemente, attese.

Charizard si era rannicchiato sul fondo della capanna, contro alcune vecchie scatole di legno dall'aria trascurata. Così acquattato com'era, col collo proteso verso di lui e gli occhi colmi di dolore come una bestia ferita, a Samuel non era parso mai tanto indifeso. All'improvviso si accorse di essersi aggrappato con le mani allo stipite della porta e che vi si era appoggiato con tutto il suo peso, forse perché di fronte a tanta rabbia e a tanto dolore le sue gambe minacciavano di cedere.

«Mi dispiace» disse, ed ebbe l'impressione che la sua voce suonasse lontanissima e assente, tutt'altro che sua. Eppure, era tutto quanto poteva dire.

Charizard scosse la testa e fece per voltarsi dall'altra parte. Quel gesto gli diede coma una fitta lancinante in pieno petto: Charizard non voleva guardarlo! Charizard, ch'egli conosceva da quando l'uno e l'altro non erano che bambini inesperti che andavano ovunque, ma il più lontano possibile da Biancavilla...!

Era avanzato verso di lui attraverso la rimessa. Ora a malapena udì se stesso balbettare, con voce straziata e incerta: «Hai ragione, Charizard, hai ragione tu... è stata tutta colpa...»

Charizard ruggì di nuovo.

Quando si era alzato in piedi? Ora la sua presenza sembrava riempire tutta la stanza, era immensa e torreggiante su di lui, e Samuel non poté fare a meno di fermarsi bruscamente proprio là dove si trovava, sollevando le mani in segno di resa.

Ora taceva semplicemente, sforzandosi di non chinare gli occhi, di sopportare la fissità acusatoria dello sguardo di Charizard. La sua coscienza colpevole fremeva, trepidava, lo supplicava da dentro di lui di abbassare lo sguardo e di arrendersi, ma Samuel s'impose con tutta la forza che gli rimaneva di continuare a guardare. Le sue parole non erano bastate a calmarlo, ed egli sapeva che ora Charizard lo disprezzava e lo odiava, ma forse era proprio del suo disprezzo ch'egli aveva bisogno. Arcanine era morto per colpa sua, e nessuno mai oltre a chi era stato presente quella notte l'avrebbe saputo, ma tutto ciò che Samuel in quel momento desiderava era essere punito, voleva che dall'esterno qualcuno riversasse su di lui tutto l'odio e la rabbia e il disprezzo ch'egli stesso provava per sé, ma che erano destinati a rimanere confinati e brucianti dentro di lui solamente. Tutta la persona che era stato fino al giorno prima ora gli sembrava che fosse in piedi dietro di lui, dentro di lui, a giudicarlo e a urlargli che era accaduto tutto a causa della sua sciocchezza, ma quella voce era muta e soffocata e a Samuel non sembrava sufficiente!

Mi dispiace così tanto, avrebbe voluto gridare, e poi ancora: Hai ragione, hai ragione su tutto. Avrei dovuto credere ad Agatha quando avrei potuto, ma qualsiasi giustificazione ora gli sembrava peggiore e più vile ancora del silenzio, e tacque.

Il ruggito ribollente di Charizard finì di riversarsi su di lui bruciando sulla sua pelle come se fosse fuoco così com'era iniziato, sfumando in un gorgoglio sommesso e minaccioso e poi, lentamente, nel silenzio, ma ancora Samuel non accennava a muoversi, né a reagire. Aspettò.

La coda di Charizard che fiammeggiava in un angolo della baracca emanava una luce intensa e un calore soffocante di cui Samuel si sentiva ormai sgradevolmente sudato. Proveniendo dal basso, la luce annegava il muso di Charizard in una grottesca, espressiva maschera di luci e ombre fortemente chiaroscurali, ma in quella pozza nera di contrasti egli continuava a distinguere a ogni momento la fissità dolorosa dei suoi occhi. La rabbia del ruggito non si rifletteva nel suo sguardo: tutta la minaccia e l'odio che Charizard gli aveva rovesciato addosso quando era entrato non si ritrovavano nei suoi occhi. Al contrario, essi erano enormi e spalancati, colle pupille dilatate, e spaventati e sgomenti. In quegli occhi, egli si accorse che c'era ancora una parte del suo vecchio amato Charizard: una minuscola, infida parte di lui che forse ancora non poteva credere che Samuel fosse un assassino, che avrebbe voluto perdonarlo, finalmente, e cedere a quel bisogno di essere consolato che tuttavia non era forte abbastanza per prevalere, e anzi Charizard faceva di tutto per sopprimerlo e metterlo a tacere e non permettere a se stesso di nutrire il minimo dubbio sul fatto che Arcanine fosse morto proprio per colpa sua.

Con guardinga lentezza, Charizard tornò ad abbassarsi fino a sedersi di nuovo e poi, altrettanto lentamente, ad accovacciarsi contro il fondo della baracca, col ventre quasi coperto e protetto dalla distesa delle sue ali. Continuava a non perderlo d'occhio, come a volersi accertare ch'egli non avrebbe tentato di avvicinarsi, e a emettere talora bassi sbuffi di fumo nero e pesante. Ma ora anche lui sembrava risentire di tutta la stanchezza di quella notte troppo lunga, e non aveva più niente di aggressivo.

Samuel rimase immobile in quella baracca bollente e asfissiante per un tempo estremamente lungo, incurante del calore che continuava a salire e a bruciare sulla sua pelle sudata come fiamma. La temperatura si faceva di minuto in minuto più insopportabile, ma Charizard ancora non accennava a compiere il minimo gesto verso di lui.

«È stata la pallida mano» disse all'improvviso. Non sapeva neppure per quale motivo lo stesse spiegando, ma in fin dei conti, Charizard aveva diritto di sapere tutto, e per tutto di odiarlo.

Charizard gli rivolse uno sguardo carico di confusione, sollevando leggermente il capo con il collo proteso verso di lui.

«È stata lei a ucciderli tutti, ma ha ucciso Arcanine per primo. Gli apparteneva, o qualcosa del genere.»

Charizard ebbe uno scatto acuto di fastidio, agitando nervosamente la coda, ma non distolse lo sguardo e non sbuffò neppure. Samuel sapeva che nonostante tutto esso voleva sapere la verità. Nei suoi occhi c'era un grande interrogativo muto che Charizard era troppo orgoglioso per porre, anche solo ruggendo, ma Samuel era ben consapevole di non essere in grado di descrivere cosa fosse la pallida mano.

«L'ha sventrato» disse con voce sorda. Si sorprese di riuscire a pronunciare a voce tanto alta e tanto semplicemente quell'orribile parola, ma non ne esistevano di migliori, e usare un eufemismo per riferirsi a ciò che essa aveva fatto ad Arcanine sarebbe stata un'offesa alla sua memoria.

Si passò una mano sulla pancia per imitare su se stesso la ferita che aveva ricevuto Arcanine, dal basso verso l'alto, e stavolta Charizard spalancò gli occhi e sbatté più volte le ali, tendendo i muscoli fin quasi a volersi sollevare in volo, ma di nuovo non ruggì, non soffiò, non lo aggredì. Voleva ancora sapere, dopotutto.

«Era avvelenato» proseguì Samuel. Sentiva che quel racconto stava diventando sempre più difficile e doloroso da portare avanti: rivedeva tutto, tutto ciò che era accaduto nella sua mente, e nelle sue orecchie sembrava echeggiare ancora l'ululato di Arcanine. «Ha combattuto contro tutti gli altri suoi Pokémon e ha vinto. È stato molto bravo, e molto coraggioso, a combattere così, al buio, contro tutti... ma nessuno poteva niente contro la pallida mano. E io, invece... non sono riuscito a richiamarlo in tempo.»

Avrebbe voluto che fosse stata questa tutta la sua colpa, ciò che per tutta la sua vita avrebbe dovuto rimproverarsi: aver tardato per un istante di troppo a trovare la Pokéball, essersela fatta scivolare tra le mani e averla perduta nel buio. Ma il complesso delle sue colpe era troppo grande e vergognoso per poterlo ridurre a quella mancanza solamente: era non aver creduto ad Agatha, essere stato avventato, stupido e imprudente; era aver creduto che lottare contro il sepolto vivo li avrebbe salvati entrambi ed era, finalmente, essere indietreggiato.

Ma quel balzo all'indietro, il fondo dell'abisso della sua meschinità, quella Samuel aveva giurato di non rivelarla mai: era l'estrema colpa della sua vita, l'unica vera vigliaccheria che avesse compiuto mai, troppo umiliante e terribile da tollerare: ed egli confidava che per quell'unica omissione, ovunque fosse, Arcanine sarebbe stato in grado di comprenderlo e di perdonarlo. Dopotutto, egli ricordava ancora quell'ultima nota consolante e pietosa che l'uggiolato di Arcanine aveva avuto nei suoi confronti, come a dirgli di non prendersela, che non poteva fare nulla, che esso non era arrabbiato con lui, e l'avrebbe ricordata sempre. E poi, ancora, egli avrebbe potuto superare l'onta che quella vigliaccheria comportava: sarebbe diventato un uomo migliore, sì, avrebbe dimostrato a se stesso che il suo non era stato altro che un unico atto di debolezza in una vita d'integrità d'atti e di parole, e allora veramente Arcanine non avrebbe avuto più alcun motivo di avercela con lui.

Quella notte, quando aveva saputo della morte di Arcanine, Charizard aveva dato fuoco alla Torre ed eliminato il sepolto vivo; ma ora che tutti i dettagli della morte di Arcanine gli venivano rivelati, ora che poteva immaginarsi i suoi ultimi istanti tanto vividamente come se fosse stato presente anch'esso, non reagiva. Era come se tutta la sua rabbia si fosse esaurita in quell'incendio, e ora che aveva vendicato la sua morte e riversato tutta la sua furia in turbini di fuoco e scoppi di fiamme, ogni suo impulso si fosse spento. Era troppo stanco, troppo disperato per provare ancora furore, e forse si era reso conto che la sua vendetta non gli aveva dato il minimo conforto. Arcanine non sarebbe tornato.

Vi era di nuovo silenzio, ma stavolta Samuel non si sorprese di non sentirsi più minacciato. Ora realizzava quanto Charizard lo amasse ancora, nonostante il dolore, e si diede dello sciocco per non averlo capito all'istante, quando era entrato: se Charizard non lo avesse amato ancora, non l'avrebbe odiato tanto.

All'esterno della baracca, il cinguettio degli uccelli impazziti di gioia per il ritorno del sole si faceva a ogni istante più forte e assordante e frenetico. Fu solo dopo lunghissimi minuti che Samuel si rese conto quasi con angoscia di aver bisogno di porre quella domanda, e che doveva farlo adesso, quando ancora esisteva quel minuscolo filo che lo legava a Charizard e che presto sarebbe stato reciso per sempre. Forse la sua sarebbe stata una domanda egoistica, insensibile, eppure Samuel sentiva che se non l'avesse posta sarebbe soffocato. Per quell'ultima volta, Charizard lo avrebbe ascoltato.

«Credi... credi che si soffra molto, a morire così?»


Si susseguì un odioso numero di giorni.

Se Samuel fosse stato abbastanza padrone di sé da soffermarsi a riflettervi lucidamente, con ogni probabilità avrebbe provato grande pietà e benevola invidia per il se stesso che quel primo di giugno aveva potuto permettersi il lusso di credere che Agatha fosse pazza, prima di affondare nel suo stesso inferno. Crederle ora era inutile e inevitabile, e quella fatalità di doverle credere proprio quando ormai non serviva più a salvarsi era amaramente crudele.

I primi giorni, la salute di Agatha diede davvero di che preoccuparsi. La ferita sanguinava spesso attraverso i punti, talora macchiando persino le lenzuola, e sebbene Agatha si astenesse orgogliosamente dal lamentarsene, sembrava che le desse un prurito terribile. Ma non ebbe mai febbre, e questo, quantomeno, era un buon segno: quando Samuel le sfiorava con simulata noncuranza il viso o le mani, sentì sempre la sua pelle fresca sotto le dita. Anche l'aspetto della sua gamba non sembrava presentare nulla di anomalo, e per fortuna: Samuel non osava pensare a come avrebbero potuto occuparsi di una cancrena senza portarla in ospedale.

Quando velatamente le aveva fatto presente, col tono di chi si stia limitando a considerare una semplice possibilità, la proposta del dottor Ross, Agatha si era limitata a scuotere gravemente la testa ed egli aveva lasciato cadere l'argomento. Tutto il suo dovere morale si era compiuto nell'atto di quella semplice proposta, ma insistere oltre avrebbe voluto dire offenderla, e non ve n'era bisogno: Agatha sapeva perfettamente quali rischi comportava la sua ostinazione, ed era ostinata perché i suoi Pokémon erano morti. Non c'era altro da dire.

A detta del dottore, non c'era motivo perché Agatha non dovesse comunque tornare a camminare, a patto di non sforzarsi troppo: non si espresse chiaramente, ma dal tono particolarmente cauto col quale lo disse, Samuel intuì che volesse accertarsi della reale portata dei danni della ferita.

Ci vollero comunque altri due giorni prima che Agatha decidesse infine di alzarsi e di riprendere a camminare, dapprima appoggiandosi al muro, e poi gradualmente da sola, ma senza molto entusiasmo. Il pensiero di non aver riportato danni irreparabili non sembrava recarle il benché minimo conforto. Zoppicava leggermente, questo era vero, ma non più di quanto fosse normale per una persona che fosse stata ferita a quel modo, e il medico sembrava ritenere che coll'affievolirsi del dolore sarebbe tornato a camminare in modo assolutamente normale; ma quando questi stabilì che era venuto finalmente il momento di togliere le cuciture, ella gli ordinò fermamente di farle comunque un'altra fasciatura. Il dottor Ross obbedì senza replicare, quasi schiacciato dall'imperiosità del suo duro sguardo nero, ma Samuel, che assisteva a quella visita dalla soglia della stanza – Agatha era completamente vestita, ma quand'anche non lo fosse stata, il suo altero comando di lasciare la porta aperta avrebbe annichilito la volontà di uomini ben più determinati di quello – Samuel sapeva che in quel momento Agatha era fragile come non mai. Non voleva vedere la ferita: malgrado il suo coraggio e la sua titanica determinazione, non era ancora in grado di sopportare la vista della propria carne martoriata.

Ma mentre Agatha guariva il dolore si amplificava e cresceva a dismisura – l'altro dolore, quello profondo e incommensurabile di cui non si poteva parlare. Lavandonia sembrava infuriare e incalzarli da ogni parte fuori da quella casa, premendo sui vetri come una tempesta, e non perché vi fosse o accadesse qualcosa di eclatante, ma perché semplicemente era Lavandonia, con la sua atmosfera cupa e sempre immancabilmente conscia della presenza della Torre. Tutta Lavandonia esisteva in funzione della Torre, coi suoi ostinati fiori viola che sbocciavano solo per venir portati sulle sue tombe, colla sua lunga ombra che proiettava le ore sull'intera città: in quei giorni, decine di ragazzi erano tornati dai loro viaggi o dai loro studi per dare una mano come volontari. Tutta la città si dedicava incessantemente a quel vasto edificio grottesco che la prosciugava come una sanguisuga.

Vi erano giorni in cui Samuel avrebbe voluto afferrare Agatha e scuoterla e gridarle: che cosa facciamo noi qui? Restare qui non li riporterà da noi, e loro sono morti per colpa nostra! Andiamo via, il più lontano possibile da qui. Andiamo a Johto a cercare di superare questo dolore. A Johto, a esplorare quelle vaste antiche torri che odorano d'incenso ma che non celano in sé alcun pericolo! O affittiamo una casa lontana, che si affacci sulla vasta schiena del mare, ovunque tu possa guarire, ovunque, ma che sia lontano da qui... ma ogni volta che avrebbe voluto alzarsi, afferrare le sue spalle e gridare e supplicarla, tutta la sua disperazione finiva per sprofondare in un luogo recondito della sua mente. Non sarebbe servito. Al suo minimo cenno, egli sapeva perfettamente che Agatha si sarebbe alzata e avrebbe accettato di partire, ma abbandonare Lavandonia non li avrebbe aiutati. Se ne sarebbero andati un giorno, certo, non appena Agatha fosse tornata perfettamente in salute, ma fino ad allora, a che affrettare le cose? Il dolore era immutabile e odioso e li avrebbe seguiti ovunque, e cercare di rifuggirlo era una vigliaccheria ch'egli sentiva di non potersi concedere.

Ma poi, che senso avrebbe avuto rimettersi in viaggio, e verso dove, poi? Il tempo delle avventure era finito, ormai. Tutta la squadra di Agatha era morta, e quanto a lui...

Aveva affrontato il resto della sua squadra il giorno dopo aver parlato con Charizard. Non aveva avuto alternative, dopotutto: li aveva evitati anche troppo a lungo, ed essi avevano il diritto di sapere e di odiarlo. Aveva fronteggiato l'incredulità, la rabbia, il dolore nei loro occhi, aveva parlato con loro e risolto ogni loro dubbio, rinunciando a qualsiasi tentativo di difendersi, e poi, semplicemente, li aveva lasciati andare.

Charizard era stato il primo ad andarsene, spiccando il volo con furenti battiti d'ala, e senza guardarsi indietro: aveva gettato soltanto un unico grido per lui incomprensibile di richiamo e d'intesa, rivolto al resto dei suoi compagni, ed era svanito. Charizard era stato il suo primo Pokémon, con lui da molto tempo prima che lasciasse Biancavilla, e se n'era andato senza guardarlo. Questo pensiero era per lui fonte di un dolore inconcepibile, eppure insieme, incredibilmente, di uno strano senso di giustizia e di accettazione, come una punizione da troppo tempo meritata ma che aveva tardato ad arrivare. Essere odiato era la sua punizione, e sentirsi punito riusciva stranamente catartico.

Uno dopo l'altro anche gli altri se n'erano andati, ma con un misto di rabbia e di tristezza, forse senza un vero senso di rancore, e non era difficile intuire perché: loro non avevano visto. Non avevano conosciuto il senso di squallore e desolazione dell'ultimo piano della Torre, l'odore atroce di sangue e viscere, e non avevano visto il sepolto vivo. Forse Charizard avrebbe saputo spiegarglielo meglio di lui , ed essi finalmente avrebbero davvero potuto odiarlo, ma per ora, nelle loro menti, egli era solo il responsabile di un terribile incidente, e non il reale colpevole della morte di Arcanine.

Exaggutor era stato l'ultimo ad andarsene. Assieme a Tauros, era stato l'ultimo a entrare nella sua squadra, il giorno del suo primo indimenticabile safari; ma era anche sempre stato il più affettuoso del suoi Pokémon, ed era stato l'unico, quel giorno, a richiedere da lui un abbraccio. Si era avviato sulle tracce dei suoi compagni lentamente, di controvoglia, e gettando indietro frequenti occhiate e grida di disperati addii: probabilmente, era anche l'unico di loro che non l'avrebbe odiato.

Quando era rientrato in casa, Agatha lo attendeva nel salottino. Non aveva detto nulla, ma lo aveva guardato, con tanta intensità da fargli comprendere, senza alcun bisogno di parole, di aver visto tutto. Aveva il volto contratto dal dolore e dallo sforzo di aver camminato, colle labbra strette ed esangui e le guance sbiancate.

Non c'era bisogno di dire niente. Samuel si era seduto vicino a lei sul divano, sentendosi gli occhi colmi di lacrime e la testa che pulsava, e aveva posato la testa sull'incavo della sua spalla per non essere costretto a guardarla negli occhi.

Agatha non aveva avuto reazione. Così appoggiato a lei com'era, Samuel percepiva appena il battito del suo cuore contro la pelle, e chiudendo gli occhi egli si sforzò d'ignorare tutto e non pensare, divenire un tutt'uno con quel battito rassicurante e credere che esso fosse tutto ciò che esisteva al mondo...

«Continuare a punirti non lo farà tornare, Samuel» aveva mormorato Agatha dall'altra parte di quel suono.

Le sue parole suonavano tremendamente vere: Arcanine non sarebbe tornato mai più da lui, e nulla di tutto quanto avrebbe mai potuto fare avrebbe potuto cambiare questa realtà. Agatha aveva ragione, eppure, nel suo profondo, egli sapeva che di cercare di punirsi per ciò che aveva fatto non avrebbe smesso mai, e mordendosi le labbra non le aveva risposto.

I loro dolori erano troppo grandi, erano come vasti e profondi baratri d'abisso che non avrebbero mai potuto colmarsi a vicenda. Samuel avrebbe disperatamente voluto sapere se esistesse una ragione capace di giustificare e redimere il loro dolore, s'egli avesse compiuta la scelta migliore, e poi altre cose ancora, ma non non c'era bisogno di aggravare Agatha del peso di domande cui sapeva già non esistere una risposta. Parlare in quel momento sarebbe stato lo stesso che domandare urlando contro l'algido cielo assolato che li ricopriva, e udire la propria voce vibrare attraverso l'aria immota, ma rimanere tuttavia inascoltato e ignaro sotto l'indifferenza del muto cielo distante.


   
 
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