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Autore: Ning    02/10/2015    0 recensioni
Yamakasi è una parola che in lingua bantu sta ad indicare una persona forte di spirito.
So che per molti di noi, sentire la parola “Yamakasi” richiama alla mente il gruppo di fondatori della nostra disciplina, ma per mia madre è sempre stato un incoraggiamento a non arrendermi.
Il mio nome è Belle, ma il mio vero nome è Yamakasi.
C'è chi sostiene che nel nome di ciascuno sia scritto il proprio destino.
Non so se ciò sia vero per me, ma lo spero:
essere forte è ciò a cui ambisco.
Genere: Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tutti i grandi sono stati bambini una volta.
Ma pochi di essi se ne ricordano.
 
Antoine De Saint-Exupéry
 
 
24 agosto 2036
 
Tenevo in braccio la bambina e piangevo, non so se per la felicità o per reazione allo stress.
"Finalmente puoi dirmi come la chiamiamo?"
Anche mio marito piangeva, e sono certa che il motivo potesse essere solo la gioia, perché non la smetteva di sorridere e di baciarmi gli occhi gonfi, stanchi e lacrimosi.
Mi fissava ansioso, in attesa di risposta.
Fino all'ultimo istante avevo deciso di tenere per me il nome che avevo scelto per la bambina. Ci avevo riflettuto a lungo e per tanto mi ero chiesta se non fosse il caso di darle un nome italiano. 
Ma la scelta sarebbe risultata troppo banale.
"La voglio chiamare Belle."
Lo vidi sgranare gli occhi.
"Belle...?" Domandò con aria confusa.
"Non ti piace questo nome?"
"Belle, proprio come..."
"Proprio come David Belle."
"Amore, non possiamo chiamarla Belle."
L'ostetrica ci guardò allibita, senza comprendere i nostri discorsi.
"Belle: è solo l'augurio di diventare forte."
"Ma..."
"Volevi che la chiamassi “Yamakasi”? Spirito forte è un augurio altrettanto meraviglioso."
"No, no... Va benissimo Belle."
Sorrise, mi stampò un bacio sulle labbra di una dolcezza infinita e poi ridemmo e piangemmo insieme, più euforici che felici, con Belle che tra le mie braccia dormiva beata.
La verità è che avrei voluto davvero chiamarla Yamakasi, ma temevo in parte che all'anagrafe non lo avrebbero mai accettato o che mia figlia crescendo non me lo avrebbe perdonato mai.
Riposa adesso, tesoro mio, pensavo. Un giorno correrai con noi.
 
 
 
 
 
 
 
 
BELLE
 
Il mio nome è Belle, perché non potevo chiamarmi Yamakasi.
Yamakasi è una parola che in lingua bantu sta ad indicare una persona forte di spirito.
So che per molti di noi, sentire la parola “Yamakasi” richiama alla mente il gruppo di fondatori della nostra disciplina, ma per mia madre è sempre stato un incoraggiamento a non arrendermi.
Il mio nome è Belle, ma il mio vero nome è Yamakasi.
C'è chi sostiene che nel nome di ciascuno sia scritto il proprio destino. 
Non so se ciò sia vero per me, ma lo spero:
essere forte è ciò a cui ambisco.
 
 
5 gennaio 2050
 
NING
 
Il dondolio del treno aveva fatto sprofondare nel sonno sia Belle che Diego.
Io avevo deciso di dormire tutto il giorno per prepararmi a quella notte, e vegliare su loro due. Diego aveva lavorato per l'intero pomeriggio, e non avrei mai avuto il coraggio di chiedergli di rimanere sveglio.
Viaggiare di notte era una cosa che detestavo, ma salire su quel treno era l'unico modo per permettere a Diego di non assentarsi dal corso ed essere a Schio per tempo. In fondo potevo sopportare quattro ore di viaggio.
Lo schermo del mio smartphone si illuminò.
Era Stefano che mi scriveva:
 
- Siete già partiti?
 
Digitai una risposta nella chat.
 
- Siamo in viaggio da un'ora. Tu non dovresti dormire? Fra tre ore devi venire a recuperarci in stazione!
 
-  Tranquilla, non mi addormenterò nel frattempo. La notte è giovane, sono solo le due.
 
- Sei sempre il solito.
 
- Ti tengo da parte una birra, Ning. Anche per Diego, naturalmente.
 
- Lì non siete famosi per il buon vino?
 
- …
 
- Lasciamo perdere.
 
- Anche se non lo dico mai, un po' mi manca casa.
 
Attesi qualche istante, sorpresa. 
A vent'anni Stefano aveva ricevuto un'ottima offerta di lavoro da parte dell'associazione di freestyle italiana più importante. 
La cosa gli era parsa, ed era parsa anche a noi, così spettacolare che non aveva esitato un attimo a fare i bagagli e lasciare la capitale per andare a lavorare al Nord.
Io e gli altri del nostro gruppo non provammo a fermarlo, né gli chiedemmo mai se credesse davvero che quella fosse la scelta giusta: certo che era la scelta giusta.
Eravamo così fieri di lui che nessuno pensò a quanto diavolo ci sarebbe mancato.
 
- Sul serio?
 
- Sì, ma qui fanno una polenta che è la fine del mondo.
 
Era senza speranza.
 
- Come fai a mangiare quella roba???
 
- Birra e polenta sono una vera bomba. Devo proprio insegnarti tutto.
 
Mi fece ridere, e alzai gli occhi per vedere se Belle non si fosse svegliata.
Lei continuava a riposare tranquilla, mentre per Diego non dovevo preoccuparmi: quando prendeva la via del sonno, non c'era rumore di bomba atomica che potesse svegliarlo.
Belle, la mia bambina. Mi piaceva ancora chiamarla così, quando ormai non mi sarei più potuta sognare di cullarla e tenerla in braccio.
La prima volta che la strinsi a me non vedevo l'ora che crescesse per potersi muovere libera, ma comunque al mio fianco. La prima volta che la vidi correre mi chiesi se non sarebbe andata troppo lontano.
Forse sentendosi troppo intrappolata nel nostro mondo, un giorno Belle ci chiese di poter andare a una lezione di prova di kick boxing.
Ricordo di averle puntato addosso uno sguardo curioso e al tempo stesso fiero.
Diego, dal canto suo, si rifiutò inizialmente di permetterle di andare a provare. 
Belle non aveva ancora chiesto di essere iscritta al corso.
"Non dovrebbe provare a fare qualcosa di più, non so... femminile?" 
Aveva detto lui. 
Diego non era sempre così ottuso, ma ammetto che a dover prendere decisioni per una figlia, si può apparire come i più stupidi del mondo.
"Più femminile? Ti rendi conto che hai sposato una donna che fa parkour?!"
Avevo sbottato io.
Quando lui ed io eravamo ragazzi, le donne che facevano parkour non erano neanche la metà degli uomini che praticavano questa disciplina. 
Avere una o due ragazze nel proprio gruppo, era considerato un onore e una rarità, mentre ora i corsi sono pieni zeppi di femmine, a volte indisciplinate e ingestibili proprio come i maschi.
Alla fine Diego s'era arreso e aveva accompagnato Belle a quella che sarebbe stata la sua prima e ultima lezione di kick boxing. 
Era tornata a casa affranta.
"Non si corre mai, ecco perché non mi piace." Mi aveva detto.
"Che ti aspettavi, Belle? Di dover scappare dal tuo avversario? Se proprio non vuoi fare parkour al corso di tuo padre ti iscriviamo a un altro, o ti iscrivo ad atletica leggera se è proprio il parkour a non andarti giù."
Aveva scosso la testa e il giorno dopo era stata ben contenta di tornare dai suoi amici.
Si erano fatte ormai le quattro e il treno pian piano invitava anche me al sonno, ma mi costrinsi a rimanere sveglia.
Verso le quattro e mezza cominciai a scorgere la campagna vicentina, tra stelle e sagome nere di alberi ed edifici sparsi.
Quand'ero piccola credevo che un giorno per compiere un viaggio fin lì mi sarebbe servito il passaporto.
Ma dopo tutti quegli anni il Veneto non aveva mai ottenuto l'indipendenza, e così la sede centrale italiana del freestyle era ancora nostra.
Credevo anche che dopo tutto quel tempo il parkour sarebbe stato riconosciuto ufficialmente come sport, ma neanche questo era successo.
 
 
 
BELLE
 
Quando scendemmo dal treno, alla stazione di Vicenza, il sole stava già sorgendo.
Il freddo era pungente, ma io mi ero imbacuccata come se fossi appena arrivata in Alaska.
La mamma invece era scesa con aria tranquilla avvolta nel suo impermeabile nero.
"Ancora sonno, Belle?" Mi chiese.
"Mmmm" Mugugnai annuendo da dietro la sciarpa che mi copriva fin sopra il naso. 
Occhi a fessura, capelli arruffati sotto il cappello di lana col pon-pon, e piumino extra large: non ero affatto un bello spettacolo.
"Quest'anno non ha ancora nevicato." Osservò papà trascinandosi dietro la sua valigia e quella della mamma. Camminavamo verso l'uscita.
"Dove sono i negozi?" Chiesi trovando il coraggio di abbassare la sciarpa sotto il mento e beccandomi un'ondata di vento gelido sul viso.
"Non ci sono negozi in questa stazione, scema." Disse papà prendendomi in giro.
"Andiamo, che ne può sapere lei che non ha mai visto una stazione più piccola di Termini."
Mi difese la mamma. Io semplicemente mi risistemai la sciarpa fin sopra il naso.
All'uscita ci attendeva Stefano, e quando mamma lo vide gli corse incontro per abbracciarlo. Lui la strinse forte sollevandola da terra, e le loro risate si unirono.
Quando mamma lasciò andare Stefano, anche mio padre lo strinse in un abbraccio, ma molto più virile.
Visti tutti e tre insieme mi sembravano dei ragazzini.
Alla fine Stefano abbracciò anche me, che lo avevo incontrato di persona solo due volte.
Dopotutto, per lui io rimanevo pur sempre “la figlia di Ning e Diego”.
Molto cavallerescamente, Stefano portò la mia valigia e la caricò insieme alle altre nel bagagliaio del suo suv nero splendente.
"L'ho tirato a lucido solo per l'occasione. Durante l'ultima gita a Pria era diventato fango e polvere."
Naturalmente non avevo idea di cosa fosse Pria.
Salimmo in macchina con papà al posto del passeggero e mia madre dietro con me.
Stefano mise in moto ed accese il riscaldamento. Mi tolsi il cappello di lana e lui la sottile sciarpa grigia che portava intorno al collo. In quel momento mi accorsi che aveva sulla nuca un tribale nero.
Alla stessa altezza si scorgeva sulla nuca di mio padre una piccola parte della testa del dragone che si era fatto tatuare lungo tutta la schiena quando aveva sposato mamma.
Quando glielo disse, lei non fu molto contenta, ma si dovette ricredere quando papà si scoprì la schiena la prima volta per mostrarle il disegno: quel dragone nero era un capolavoro. Infatti piaceva da morire anche a me, ma “da morire” è il termine giusto se penso a quanto deve aver sofferto per farselo fare.
La fortuna fu anche nel fatto che il tatuatore era un suo amico e non lo pagò a prezzo pieno.
In questo la mamma e il papà si compensavano. Se lui aveva la schiena piena d'inchiostro, lei aveva tutto il corpo chiaro e pulito.
Arrivammo a Schio e Stefano parcheggiò il suv nel garage della sua palazzina.
Quando entrammo in casa sentii dei passi correre veloci per il lungo corridoio dell'appartamento.
 
NING
 
Avrei riconosciuto quei passi tra mille, quel modo di correre ineguagliabile.
Per un istante, mi sarei aspettata di veder spuntare fuori la cascata di capelli nero corvino che faceva parte dei giorni più belli della mia adolescenza.
 
 
 
 
BELLE
 
La donna che si lanciò tra le braccia di mia madre doveva avere praticamente la sua stessa età. Non ebbi il tempo di guardarla bene in faccia perché affondò il viso sulla spalla di mamma. Portava capelli cortissimi, di un nero palesemente tinto, proprio come mia madre tingeva biondi i suoi ricci ormai da anni.
Aveva un bel fisico snello e atletico sotto il maglioncino attillato e i pantaloni della tuta. Se avesse continuato a tenere il viso nascosto avrei potuto dire che la sua età vacillava tra i trentacinque e i quarant'anni, ma i segni dell'età che portava sul viso la tradivano.
Mia madre e quella donna si assomigliavano, anche se la mamma era più bassa, e quella donna più scura di carnagione. Entrambe avevano la stessa muscolatura e gli stessi segni sul volto.
In quel momento avevano anche lo stesso sorriso e gli stessi occhi lucidi.
 
 
 
NING
 
Non c'erano più i lunghi capelli scuri che tanto le avevo invidiato, e accorgermi della sua nuca scoperta fu come saltare nel vuoto senza avere idea di dove sarei atterrata.
Backie, la mia fantastica compagna di allenamenti: questo era rimasta per me lei.
"Sì, sì, amiche. Ma non troppo." Mi ritornarono in mente le sue parole di quando avevamo quindici anni.
Bugiarda. Bugiarda fino all'ultimo.
Eravamo diventate amiche.
"Davvero te ne vai all'estero?" Le avevo chiesto. Avevamo trent'anni.
"Chi te l'ha detto?"
"è stato Mush. Perché non me l'hai detto?!"
"Aspettavo il momento giusto."
"Non esiste il momento giusto per dire certe cose!"
"Ning, non vi sto tradendo. Ho solo ricevuto un'offerta di lavoro."
"Lo so, scusa. Ma mi mancherai."
"Mi mancherai anche tu. E i ragazzi."
Dopo cinque anni avevamo perso i contatti, travolte completamente dalle nostre vite.
Backie alzò il viso dalla mia spalla e pensai che il tempo, per lei, così come per me, si stava divertendo a dipingerci il volto di segni che avremmo volentieri cancellato, per provare a fingere di essere ancora giovani come una volta.
Una cosa che non cambiava mai, erano i suoi occhi verdi, con quel taglio perfetto da indiana di Bollywood.
"Backie."
"Niiing." Pronunciò il mio soprannome strascicando la i acuta, come una ragazzina. Era bello sentirlo pronunciare ad alta voce da lei dopo vent'anni.
Sciogliemmo l'abbraccio e Diego si avvicinò per salutarla. Fui certa che anche lui se la ricordasse perfettamente, e che come me era sorpreso di vederla adesso, con vent'anni in più sul viso.
"Quando sei arrivata?" Le chiesi.
"Ieri mattina" Rispose. Poi si voltò verso Belle.
 
 
BELLE
 
"Finalmente la vedo di persona." Disse la donna fissandomi. La cosa mi mise piuttosto a disagio.
Sembrava che avesse timore a toccarmi o a rivolgermi la parola. Mi contemplava come si contemplano le opere d'arte nei musei.
Mamma mi aveva parlato di questa Backie qualche volta.
Mi pare che facesse parte del gruppo di amici con cui si allenava da piccola.
 
 
 
NING
 
Chissà come ci si sente a vedere dopo anni la figlia di quelli che dovrebbero essere ancora i tuoi migliori amici.
Pensare che ci si è persi una gran parte della loro vita, come il loro matrimonio, per esempio, che non sarà stato poi questo grande evento, qualche firma su dei fogli, una festa semplice.
Se ora le coppie potrebbero permettersi pranzi lussuosi per la famiglia di lui, e la famiglia di lei, allora io non avevo nemmeno un lavoro, così come tanti altri della mia età, costretti ad accontentarsi di qualche lavoretto part-time, o essere mantenuti dai genitori che non riuscivano ad andare in pensione.
Backie aveva saputo da Stefano della nascita di Belle e mi aveva inviato un' email d'auguri molto formale.
Guardò mia figlia con occhi malinconici.
Belle aveva i capelli mossi e scuri del padre, e anche i suoi stessi occhi neri e sottili.
Le sopracciglia scure e spesse, ma che su di lei risultavano femminili e non rovinavano l'armonia del viso.
La carnagione olivastra, altro regalo del padre. Anche il naso ben proporzionato e le labbra sottili li aveva presi da lui.
Di me aveva alcuni tratti del viso e le orecchie piccole.
Backie un giorno aveva saputo della sua nascita e un'altra volta l'aveva trovata tredicenne.
Belle sembrava volersi chiudere a riccio.
 
 
 
 
BELLE
 
"Ciao." Mi salutò Backie, con un tono più dolce di quanto mi sarei aspettata.
"Ciao." Dissi io, che intanto mi ero tolta la sciarpa dal viso.
"Quanti anni hai?"
"Tredici." Sorrisi cercando di togliermi di dosso quell'atteggiamento spaurito che avevo inizialmente.
"è bellissima." Disse tornando a rivolgersi a mia madre.
Non lo presi come un complimento, ma piuttosto come una gentilezza nei confronti dei miei genitori.
"Forse dovremmo andare a riposare. Alle undici e mezza avete il workshop." 
Disse Stefano. 
Guardai l'orario sull'orologio che si collegava al sistema operativo del mio smartphone: erano le sei.
"Belle, tu dormi in stanza con Backie." Stefano mi fece strada lungo il corridoio, fino alla stanza con i due letti separati, addossati a pareti opposte.
Non fui particolarmente felice di sapere che avrei dormito con una sconosciuta, anche se si trattava di una loro amica.
I miei si andarono a sistemare nel divano che all'occorrenza diventava un letto matrimoniale. Conoscevano molto bene casa di Stefano poiché per anni, ad ogni krap invaders si erano fatti ospitare da lui.
Non mi avevano mai portata con loro, lasciandomi sempre a casa dei nonni, e questo era il mio primo evento krap.
Il problema non poteva essere solo la scomodità di portare in viaggio una bambina, in fondo erano ormai tre anni che avevo acquistato una certa autonomia, non ero mai stata un tipo indisciplinato e all'occorrenza sarei potuta diventare un vero e proprio soprammobile. 
Ma io so che loro volevano starsene anche un po' per conto proprio.
Mi misi il pigiama, sistemai la valigia sotto il letto e non appena posai la testa sul cuscino crollai nel sonno.
 
Erano le dieci quando mio padre venne a svegliarmi. Lo so perché quando mi svegliava, lo faceva sempre in modo dolce, sedendosi sul letto accanto a me, così che io potessi guardare l'orologio che portava al polso sinistro, uno di quei vecchi orologi con le lancette che si usavano fino al 2030, ma che erano finiti in disuso e che vendevano in pochi, e solo nelle gioiellerie a prezzi esorbitanti.
Il suo orologio valeva quattro volte il mio, che aveva almeno dieci funzioni in più e che cadendo sarebbe rimbalzato senza farsi un graffio, mentre quel coso antiquato e dal cinturino di pelle logoro, sarebbe andato in pezzi.
La mamma ed io avevamo provato a regalargliene uno nuovo ed ultramoderno, ma giaceva ancora intonso nella scatola originale, che papà aveva aperto per accenderlo e provarlo al polso. Ci ringraziò, ma era troppo affezionato al suo vecchio orologio.
Non mi feci pregare per uscire da sotto le coperte. L'idea che avrei partecipato al primo workshop del krap invaders 2050 mi emozionava e agitava togliendomi il torpore del sonno. 
Guardai il letto di Backie, che era vuoto e con le coperte già sistemate.
Papà mi accompagnò in cucina dove gli altri stavano facendo colazione.
Salutai educatamente.
La mamma mi diede un bacio e io mi sistemai accanto a lei al tavolo di legno, che era caldo a differenza di quello d'acciaio con la superficie di vetro che avevamo a casa.
Stefano mi sistemò nel piatto un pancake stratosferico e una crepes alla nutella che aveva preparato in quel momento. Quando ebbi finito mangiai anche una fetta di ciambellone e bevvi un bicchiere di succo di frutta.
Questa è una cosa che ho imparato da papà: una colazione non è mai abbastanza abbondante per un traceur che sta per affrontare una giornata di allenamenti.
Mamma invece diceva che prima o poi a far come mio padre mi sarei sentita male, ma l'unico motivo per cui quella mattina avrei potuto rigurgitare tutto il pasto, era il semplice fatto che avevo le farfalle nello stomaco che facevano a botte con la colazione per avere spazio.
Più che farfalle, mi sembrava una montagna di scarafaggi, ma era quella la sensazione a cui pensavo quando nei film romantici sentivo il termine “avere le farfalle nello stomaco”.
 
Mi lavai e infilai al volo i pantaloni della tuta e la t-shirt col ragno stampato sopra, simbolo dell'associazione di parkour fondata da mio padre e mia madre.
Per poco non inciampai nei miei stessi piedi lungo il corridoio.
Mamma se ne accorse.
"Talis pater..." Borbottò lanciando un'occhiataccia a papà, che la ignorò concentrandosi sulle mie scarpe.
"Hai messo quelle di Fabrizio."
"Sì, guarda quanto sono belle, papà!" Mi illuminai felice che se ne fosse accorto.
"Almeno sei capace di usarle?"
"Le ho provate centinaia di volte..."
"Te le faccio tenere solo perché è l'invaders."
"Grazie papà." Dissi raggiante.
Quelle scarpe erano un regalo per me da parte di un loro amico che era andato a lavorare in Canada. Progettava scarpe per sportivi, ma la sua migliore invenzione fu nel campo del parkour e ciò che indossai ai piedi quel giorno, ne era la prova concreta.
Si trattava di scarpe con la suola in gomma mercury, una speciale gomma che fu creata dal team che lavorava con Fabrizio alla loro realizzazione.
La gomma mercury era applicata solo nella parte anteriore della suola, e caricando il peso sulle punte dei piedi, la scarpa permetteva di saltare un metro e mezzo più in alto del normale. Come potete immaginare, scarpe del genere costavano un patrimonio e io le possedevo solo per una fortuna sfacciata.
Fabrizio le aveva chiamate “Ermes”.
Avevano riscosso un grande successo tra i traceur, ma anche in quel caso si era alzata una gran quantità di polemiche al riguardo. 
Ci si domandava se fosse giusto tracciare con ai piedi qualcosa che ci rendesse più forti, quando in realtà il parkour ci insegnava a fare affidamento esclusivamente sulle nostre capacità fisiche.
Mio padre sapeva quanto trovassi divertente andare in giro con quelle scarpe, ma non mi aveva mai permesso di allenarmi con quelle perché diceva che in quel modo lo sforzo era nettamente minore.
Ammetto che la loro funzionalità non eguagliava la loro bellezza. 
Le ermes che indossavo io erano argentate con ai lati delle caviglie due piccole ali rosa confetto in rilievo. Risalivano ai primi modelli da donna.
"Hai preso la tessera?" Chiese mamma.
"Sì." Dissi.
Fabrizio era già sceso per prendere la macchina dal garage.
Salimmo. Avevo Backie alla mia sinistra.
"Sei pronta, Belle?" Mi chiese tutta sorridente.
"Sì..." Risposi timidamente ricambiando il sorriso.
"Piuttosto perché non lo chiedi a me?" Disse papà.
"Diego, lo so che sei pronto."
"Certo. Ma quanti ragazzi saranno?"
"Che ti importa, tanto ci siamo Ning ed io ad aiutarti!" Disse Backie.
"Stefano, tu ci abbandoni?" Chiese papà fingendo disperazione.
"Mi farebbe piacere seguirvi, ma a mezzogiorno ho il workshop con i bambini."
"Buona fortuna, allora." Rise mia madre.
 
Stefano parcheggiò davanti alla struttura.
Quando scesi dall'auto rimasi a bocca aperta.
"Non ho mai visto niente del genere..."
"Che succede, Belle?" Chiese mia madre.
"Ma è... orrendo! Sembra una fabbrica."
Mamma sbuffò, papà scoppiò a ridere.
"Effettivamente potreste ridipingere la facciata di rosa, con qualche cuoricino qua e là, o un paio di arcobaleni e unicorni azzurri..."
Papà certe volte aveva il senso dell'umorismo di un ragazzino.
"Divertente." Commentai.
"Che ti aspettavi? Si tratta di un ex capannone industriale. Mille metri quadri, un vero gioiello." Mi informò Stefano con aria soddisfatta.
Quando entrammo, una donna seduta dietro una piccola scrivania era intenta ad inserire dati al computer toccandone lo schermo sottile.
Notai le unghie curate, laccate di rosso, e l'ombretto di un rosa leggero.
Quella figura stonava con l'ambiente.
"Buongiorno Cris. Vedo che sei già al lavoro." La salutò Stefano.
"Buongiorno. Sono già al lavoro da un'ora per voi! Devo ancora capire come utilizzare il nuovo sistema operativo. Passami la tessera."Disse con pesante accento veneto.
Stefano tirò fuori la tessera dal giubbotto e la donna la passò su una tavoletta nera lucida accanto al computer.
Il computer emise un bip e sullo schermo apparve il numero due.
"Oh. Funziona. Hai tutto in regola. Sei il secondo partecipante al krap invaders 2050. Benvenuto." Disse lei con tono scherzoso restituendogli la tessera.
"Secondo? Chi altro è entrato?"
"Senti Stefi, io ci ho provato a dirgli che non poteva entrare nel krapannone adesso, ma..."
"Quell'idiota di Ezio." E Stefano si precipitò oltre la porta che dava al parkour park interno.
"Prego." Disse la signora sospirando rivolgendosi a noi.
Le diedi subito la tessera e non appena me la restituì corsi anch'io oltre la porta.
Mi ritrovai su una sorta di balconata con le scale che scendevano alla mia destra e difronte a me quello che mi parve uno scivolo enorme.
Andai verso il bordo con la ringhiera e rimasi senza fiato: da lì potevo vedere tutto il parkour park.
Questo è un sogno, pensai. Mille metri quadri di paradiso.
Ostacoli sparsi lungo la palestra e strutture che simulavano i muri e le ringhiere che si potevano trovare in città.
Una piscina rialzata piena di cubi di spugna,una parete per l'arrampicata e la pace di una palestra vuota. 
O quasi. 
In quel posto avrei potuto provare qualunque tipo di trick.
Ciò che provai in quel momento fu molto vicino all'estasi.
 
 
 
EZIO
 
Scivolai lungo la rampa e atterrai prendendo un bel respiro.
Silenzio e relax.
Stavo solo cominciando a scaldarmi quando il silenzio fu rotto dalla voce potente di Stefano che mi chiamava.
"Scendi dallo skate." Disse.
"Ehilà." Feci io girandogli intorno senza fermarmi.
"Ezio, ti prego!"
Mi fermai bruscamente e tirai su lo skate col piede.
"Non sto facendo niente di male."
"Eri sulla ringhiera, ti ho visto."
"Oh, che palle."
"Abbiamo già discusso l'altra volta."
"Non è un po' prestino per voi istruttori?"
"Direi che è troppo presto per te! Quando arriverà Michael potrai allenarti, ma non da solo."
"Nemmeno se ci sei tu?"
"Nemmeno se ci sono io."
"Oddio. Lo sai che ti odio?"
"Lo so. Posa quello skate."
Vidi oltre la sua spalla una sagoma accanto alla rampa.
Tentai di mettere a fuoco.
"Quella chi è?" Chiesi cercando di vedere da lontano la piccola figura femminile immobile.
"Lei." Stefano si girò verso la direzione in cui guardavo anch'io.
"Si chiama Belle."
 
BELLE
 
Il ragazzo smise di fissarmi, salì nuovamente sullo skate e sparì vicino alle scale.
Probabilmente doveva esserci un'altra stanza sotto la balconata. Avevo visto di sfuggita il suo cappello azzurro a visiera piatta.
Mamma si avvicinò a me.
"Andiamo, Belle." Detto questo si diresse verso quello che inizialmente mi era sembrato uno scivolo, ma che in realtà era una rampa.
Cominciò a correre giù per la discesa e io ebbi un brivido.
Quando arrivò in velocità alla fine della rampa, si lanciò rotolando in aria e cadendo tra i morbidi cubi di spugna.
Riemerse gridando di gioia.
Osservai papà fare la stessa cosa e visto che ormai mancavo solo io, li seguii.
Si fecero da parte e mi lanciai in front. Il mondo ruotò e atterrai rimbalzando tra mia madre e mio padre.
Scoppiammo a ridere e non avrei saputo dire chi dei tre avesse realmente tredici anni.
 
NING
 
 
Erano cambiate tante cose dal primo krap invaders a cui avevo partecipato con i ragazzi.
A sedici anni arrivai a Schio senza avere idea di quello che avrei trovato.
Rimasi estasiata dalla quantità di strutture e da quello che mi parve come uno spazio immenso per allenarsi, tutto all'interno dello stesso stabile.
Ma erano passati più di vent'anni e la Krap aveva acquistato nuove aree, come l'edificio dall'altra parte della strada, proprio difronte a quello principale; una parte del terreno di una villa comunale, adibita a Parkour Park, nella periferia di Schio, e una casa accanto al Krapannone che fungeva da albergo con letti, riscaldamento e bagni. 
La Krap si era arricchita abbastanza da poter creare un paradiso per i traceur.
Durante gli eventi i ragazzi si distribuivano principalmente nei primi tre spazi, nel resto della città, e nei sotterranei del Krapannone, dove negli ultimi anni era stata costruita una discoteca abbastanza grande da poter ospitare trecento persone. 
Quando di notte apriva la discoteca, in contemporanea cominciavano i concerti nel Parkour Park esterno. 
Non si poteva certo dire che ci fosse da annoiarsi.
"Dove te ne andrai in questi giorni?" Mi domandò la mia collega prima delle vacanze invernali.
"Ritorno a Schio, stavolta porto anche mia figlia."
"Di nuovo nella città dei giovani. Era ora che ci portassi Belle. Lei dovrebbe avere più diritto di te di andare in un posto del genere, durante un evento del genere."
Scherzò lei, che sapeva perfettamente di cosa stesse parlando, poiché i media avevano discusso talmente tanto del krap invaders che ormai tutti lo conoscevano.
Bastava avere uno smartphone per ricevere informazioni al riguardo.
Molti prodotti si avvalevano di atleti per girare spot pubblicitari che contenessero almeno qualche secondo di corse e salti tra muretti e palazzi.
Belle era nata in un mondo dove nominare il parkour era come nominare il calcio o la pallavolo, mentre io ero nata negli anni in cui la parola “parkour” doveva essere seguita da una lunga spiegazione, alla fine della quale non sempre si era stati del tutto compresi.
Benché mia figlia ed io praticassimo la stessa disciplina, completamente diverso era il modo in cui avevamo mosso i primi passi all'interno di essa.
Avevo visto il mondo del parkour mutare, ma senza mai perdere la sua vera essenza, e i suoi valori.
 
 
 
BELLE
 
Oltre i vetri, nella sala relax, vidi il ragazzo col cappello azzurro a visiera piatta che se ne stava seduto sul divano, con un piede a terra e l'altro sullo skate.
Fissava l'orologio che portava al polso destro. Mancino, pensai.
Aprii la porta e lui si girò.
"Ciao." Lo salutai.
"Ciao..."
"Sei del krapannone?"
"Sì." Rispose, alzandosi in piedi.
Era un ragazzino della mia età, col viso ancora glabro e i lineamenti delicati; il naso dritto e perfetto sul volto sottile.
Indossava la t-shirt celeste col simbolo della Krap in nero: una sorta di fiocco fatto di pixel, almeno credo. Quello era uno dei due misteri dell'associazione. Il primo riguardava il nome.
"Del corso di skate, immagino." Lui abbassò lo sguardo sullo skateboard accanto al divano.
"Ah. No, no... Non sono uno skater. Questo me l'ha prestato Michael, l'istruttore di skateboard." Sentii forte il suo accento, e mi chiesi se davvero non si rendesse conto di quanto fosse palese che quella era la sua patria.
"Capisco... Ti ho visto salire sulla ringhiera." Siccome non sembrava entusiasta della nostra conversazione, io rimasi indifferente, senza far trasparire l'imbarazzo che mi stava pian piano assalendo.
"Me la cavo in qualche cosa con lo skate." Finalmente accennò un sorriso. "Ma faccio parkour." 
Annuii. "Wow." Dissi solo.
"Allora... Tu cosa fai?" Chiese, degnandosi finalmente di guardarmi negli occhi. Mi accorsi che i suoi erano rotondi, di un verde chiaro e molto espressivi.
"Parkour."
"Oh. Figo."
"Già."
"Sei di Roma?"
"Sì." Dissi con aria sorpresa. "Si sente...?"
"E' palese." Quella risposta mi innervosì.
Incrociai le braccia al petto e guardai oltre i vetri della sala relax. 
"Perché sei qui così presto?"
"Speravo di poter utilizzare le strutture senza nessuno che mi disturbasse."
Per un momento mi sentii come se fossi l'intrusa.
"Quindi non ti riscaldi adesso?"
"No. Ormai preferisco aspettare gli altri."
Era proprio scemo. E anche piuttosto arrogante.
Mi tolsi il cappotto e il capello, e li abbandonai sul divano vicino a lui.
"Ciao. Io vado a riscaldarmi."
Ebbi la sensazione che stesse per dirmi qualcosa come “Attenta, le strutture mordono”, oppure “Fai attenzione a non inciampare tra i tubi”.
"Ciao. Forse ci vediamo dopo." Mi salutò soltanto.
Speriamo di no, dissi tra me e me.
 
Il primo tentativo di farmi un amico lì, era appena fallito miseramente.
Mi legai i capelli e iniziai a correre per la palestra e ad arrampicarmi sulle strutture.
Vidi di sfuggita mia madre accanto ai tubi insieme a mio padre. Sembrava stesse per dirmi qualcosa, ma lui la zittì scuotendo la testa.
"Lacia stare. Lascia che si sfoghi un po'."
"Non ha nemmeno fatto riscaldamento."
"Quante volte hai fatto riscaldamento tu, quando avevi la sua età, prima di arrampicarti come una scimmia sugli alberi? E poi quando le ricapiterà di trovare il krapannone vuoto?"
"Tu sei davvero... Un cattivo istruttore."
"Sono anche il padre di tua figlia, che non dimentica com'è essere piccoli."
Papà le sorrise, nonostante il rimprovero da parte di mamma.
Lei ricambiò il sorriso, sempre più innamorata del suo uomo.
 
 
Mamma mi disse che una volta se scrivevi “Parkour”, il computer sottolineava la parola in rosso come sbagliata, e il T9 degli smartphone la sostituiva con un'altra.
 
 
Da una come me ci si aspetterebbe che sia in grado di faticare sempre e comunque senza mai mostrare segni di cedimento, ma i ritmi di mio padre non li regge nessuno. A volte nemmeno la mamma.
Quel giorno, dopo il riscaldamento, papà aveva deciso di concludere la mattinata di workshop con venti minuti di potenziamento gambe.
Al quinto minuto erano a terra doloranti tutti i principianti.
Al decimo minuto erano sfiniti anche i più esperti.
Nessuno aveva idea del fatto che io fossi sua figlia e così una ragazza accanto a me commentò con: "Questo è un pazzo. Solo un folle può proporre un programma del genere il primo giorno."
"Vero." Dissi soltanto, a corto di fiato.
Fui d'accordo con lei sul primo punto, ovvero che mio padre fosse un pazzo, ma non fui d'accordo sul fatto che un programma del genere non fosse indicato per il primo giorno. Una volta mamma mi aveva proposto lo stesso programma quand'ero ancora principiante, e avevo resistito.
Papà era in piedi e se qualcuno l'avesse visto in quel momento per la prima volta nella mattinata, non avrebbe mai pensato che si stesse allenando già da due ore. Non una goccia di sudore gli rigava il viso. Ciò che per noi era una gran fatica, per lui non era ancora abbastanza da togliergli il fiato.
Non era lui incredibilmente forte. Eravamo noi incredibilmente deboli.
Mi rialzai prima degli altri. Visti dall'alto sembravano una massa di pesci lasciati a morire al sole che ogni tanto agitavano pigramente le pinne.
Una visione piuttosto squallida, ma è questo che intende un traceur quando dice che il potenziamento è la parte più noiosa dell'allenamento.
E badate: ho detto noiosa, non faticosa. Non lo vuole mai ammettere nessuno.
 
 
 
NING
 
 
"E così... Alla fine lo hai sposato." Mi prese alla sprovvista Backie.
Mi passò la bottiglia trasparente col contenuto verde fosforescente, e ne presi un sorso.
"Piuttosto dovresti dire “alla fine ti sei sposata”." 
Lei sorrise e si mise seduta accanto a me sul pavimento, con la schiena poggiata al muro.
Guardavamo entrambe nella direzione di Diego che stava in mezzo ai ragazzi, concentrato a spiegare quale fosse il modo migliore per ammortizzare il salto dalla struttura che avevano scelto.
"Sei sempre stata uno spirito troppo libero per cose del genere."
"Sì, ma alla fine il matrimonio non è poi quella gabbia che pensavo."
"L'avete fatta proprio a vostra immagine e somiglianza." Disse indicando col mento Belle, nel gruppo di ragazzi.
"Ha scelto lei di seguirci su questa strada." Bevvi ancora un sorso dalla bottiglia.
"Chi lo avrebbe mai detto che la mia amica avrebbe sposato proprio lui."
"Nel senso che non eravamo fatti per stare insieme?"
"No. Nel senso che lui ti ha sempre fatto gli occhi dolci da quando avevate quindici anni e tu non lo hai mai degnato di uno sguardo."
Scoppiai a ridere.
"Strana la vita, eh?"
"Abbastanza."
"Una volta mi hai detto che non bisognerebbe mai prendersi una cotta per uno come loro."
"Lo penso ancora. Mai prendersi una cotta per un traceur. Dovresti avvertire tua figlia." Scherzò lei.
"Non mi darebbe ascolto, essendo io la prima a darle il cattivo esempio."
"E tu, Backie? Niente di tutto questo?"
"Di tutto questo?" Ripeté sbarrando gli occhi.
"Dài, non far finta di non aver capito."
"Ho un compagno ad Aix-en-Provence."
"Ah." Feci, riuscendo appena a trattenere la sorpresa.
"E... Dove lo hai conosciuto? Scusa, forse non sono affari miei."
"Niiing! Ti prego."Sospirò. "Senti, mi dispiace di essere sparita e di non essere riuscita a mantenere i contatti. Non avevo scuse, gli impegni erano tanti, ma avrei dovuto mettervi prima del lavoro e dell'allenamento, tu, Mush, Diego, Chestnut... Perdonami." Tirò giù quella cascata di scuse che mi travolsero.
Non sentivo “Mush” e “Chestnut” da quando ero una ragazzina.
"Perciò, smettila di parlarmi come se mi conoscessi appena. Preferisco ancora farmi chiamare Backie, piuttosto che col mio vero nome, e sono sempre io, quella del parkour."
"Come vedi, la stessa cosa vale per me: sono sempre Ning."
"Ho conosciuto il mio compagno nella palestra dove tengo un corso di acrobatica. Lui invece fa il personal trainer. Stiamo insieme da sette anni e no, abbiamo scelto di non sposarci."
"Sette anni..." Ripetei tra me, stupita. "A parte questo, sono felice che alla fine tu sia riuscita a trovare lavoro lì. Me lo aveva detto Fabrizio, sai."
"Fabrizio." Sorrise, ma con un velo di tristezza. Mi chiesi se non me lo fossi solo immaginata. "Siete riusciti a mantenere i contatti con lui?"
"Sì. Sai del progetto a cui stava lavorando, no? Se ne è parlato molto sul web."
"Ermes..."
"Ne ha mandato un paio a Belle."
Backie scosse la testa e si battè una mano sulla fronte. Sorrise ad occhi chiusi. E allora capii.
"Ti manca?" Chiesi senza farmi troppi problemi, proprio come avrei fatto quando avevo quindici anni.
"No." Ma era un sì.
"Cos'è successo quando sei partita? Pensavo che Mush ti avrebbe seguita."
Sembrava quasi che il soprannome “Mush” non combaciasse con l'uomo che era diventato Fabrizio. Ci faceva pensare solo al ragazzino che era stato.
"La vita è strana, no?" Disse soltanto stringendosi nelle spalle, e compresi che non me lo avrebbe detto cos'era successo tra loro quando lei aveva deciso di trasferirsi in Francia. Certe cose non si raccontano a cuor leggero.
Lui e Backie stavano insieme.
"Domani le dico che voglio andare con lei ad Aix." Mi informò con aria allegra,  dopo aver preso questa decisione importante.
"Per quanto tempo, Mush?"
"Non hai capito! Io con Backie ci vado a vivere. Mi troverò un lavoro lì, qualcosa di facile per me. Ci proverò."
"Non vuoi proprio lasciarla andare, eh?" Lo provocai.
"Scherzi?! Io... Io..."
"Ok, ok! Risparmiami la parte in cui mi dici nel dettaglio ciò che provi per lei!"
Non seppi bene cosa successe, ma infine Mush rimase a Roma, mentre Backie intraprendeva una strada nuova all'estero.
"Signore, mi serve il vostro aiuto!" Ci chiamò Diego.
"Dici che dovremmo andare a soccorrerlo?" Chiesi a bassa voce.
"Ma sì..." Ci alzammo e lo raggiungemmo in fretta.
Al diavolo il passato. Al diavolo cos'era successo e che non sapevamo. 
Al diavolo anche chi ci mancava ancora dopo tutti quegli anni.
Al diavolo tutto questo. Per il momento. 
Adesso eravamo lì, insieme, e avevamo una marea di ragazzi da guidare.
 
 
 
BELLE
 
All'altezza dei miei occhi, sulla parete accanto alla sala di hip hop, era disegnato in grande il simbolo della Krap, stavolta in nero. Lo vedevo apparire ovunque, in ogni colore e in stili diversi.
Ma quello che avevo davanti agli occhi era semplice e lineare.
Passai le dita sulla vernice scura del simbolo, poi mi guardai i polpastrelli: puliti.
Chissà perché avevano tardato così tanto ad inventare vernici non tossiche.
Per un sacco di anni i disegnatori di strada avevano indossato mascherine durante la realizzazione dei propri murales.
Anche capucci in testa, per nascondersi, ma questo non era cambiato.
"Tutto bene?"
Mi girai di scatto. Vidi il ragazzo del cappello azzurro a visiera piatta.
"Sì, tutto bene." Risposi senza alcun entusiasmo.
"A che corso eri?"
"Quello di Diego. Il tizio di Roma, hai presente?"
"Sì, ho presente... Che guardi?" Chiese con curiosità.
"Il vostro simbolo." Dissi passando lo sguardo dalla parete alla sua t-shirt. "Che cos'è?"
"Nessuno lo sa." Rispose.
"Qualcuno dovrebbe saperlo."
"Probabilmente una volta. Saranno tutti morti quelli che hanno messo su questo posto, e probabilmente anche il disegnatore."
"Da quanto tempo fai parte dell'associazione?"
"Tre anni." Fece un passo avanti e sentii il fastidioso odore di sudore che aveva addosso.
Oramai avrei dovuto esserci abituata, anche nel corso di mio padre a Roma c'erano un sacco di maschi dall'odore particolarmente forte, ma percepii il suo come estraneo.
Arricciai il naso.
"Quanti anni hai?"
"Quindici." Disse inclinando leggermente la testa di lato guardandomi in faccia.
Io abbassai lo sguardo sulla sua maglietta zuppa.
"E tu?"
"Tredici."
"Oh. Ti facevo più grande."
"Quattordici ad agosto, in realtà."
"Ah! Sei del 2036."
"Già. Non conoscevo nessuno del 2035." Il sorriso mi venne fuori in modo naturale.
"Onorato di essere il primo." Raddrizzò la schiena sorridendo a sua volta.
Si tolse il cappello e passò una mano tra i capelli scuri e sudati.
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi senza rimetterselo in testa, e io sentii di nuovo il suo odore.
"Diego è il tuo istruttore?"
Annuii. "L'ha fondata lui la nostra associazione. Insieme a Ning, la donna che seguiva i ragazzi nello stesso workshop."
"Come si chiama l'associazione?"
"Ragnatela."
Indicai la tarantola stampata sulla mia t-shirt.
"Tecnicamente le tarantole non fanno ragnatele, ma volevamo un ragno gigante come simbolo, ed eccolo qui, questo animaletto malefico."
"Figo, mi piace."
"Io l'adoro!" Quando mi resi conto del sorriso che stavo sfoggiando, ritirai subito quell'espressione da ebete per ritornare a indossare la maschera dell'indifferenza. Non ero lì per rimorchiare, né per farmi rimorchiare. 
Soprattutto da un ragazzino che si era presentato in modo tanto arrogante.
"Stavi andando a pranzo?"
"Sì." Veramente no.
"Aspetti qualcuno?"
"No..." Veramente sì: mia madre.
"Ti va se ti porto a mangiare da un'altra parte? Qua la roba fa un po' schifo."
Disse guardando la mensa allestita nella sala accanto.
Ci riflettei più di quanto l'educazione concedesse.
"Va... bene." Sì, sembravo proprio una cretina. "Recuperiamo le giacche a vento e andiamo. Ok?"
"Ok." Fece lui.
 
L'orologio da polso trillò e rabbrividii vedendo il numero di mia madre apparire sullo schermo. Presi il tappocuffia dalla tasca della giacca a vento e lo inserii nell'orecchio.
Alzai il braccio per avvicinare l'orologio alla bocca, e la conversazione si attivò automaticamente.
"Mamma?"
"Ning, dove sei?" La voce di mia madre rimbombò nell'orecchio destro.
"Mamma, ho il gps acceso, lo sai dove sono."
"Sì, ma che ci fa al calzone napoletano?"
Ezio mi aveva portata a mangiare in una pizzeria gestita da napoletani, che aveva evidentemente riscosso molto successo a Schio, visto che tanti altri ragazzi avevano avuto la stessa idea per pranzo.
"Eh... Sono andata a mangiare fuori con altri ragazzi del krapannone." 
Mi tenni sul vago.
"Ah. Credevo che mi aspettassi per andare alla mensa."
"Lo so, scusa, ma hanno insistito tanto e mi sembrava maleducato rifiutare l'invito. Ora vai da papà?" Mi sentii un po' in colpa.
"No, lui è con Stefano, io sono con Backie adesso, e dopo pranzo andiamo a prednerci una cioccolata calda al bar. Alla faccia tua!
Ci vediamo alle quattro per gli allenamenti liberi, ti ricordi, vero?"
"Sì, sì, mi ricordo, ma'."
"Allora a dopo. Ciao tesoro."
"Ciao ma'." Riattaccai sfiorando lo schermo dell'orologio col dito.
Seduti sulla panchina davanti alla pizzeria guardavamo gruppi di tracciatori che avevano scelto di evitare la mensa del krapannone, fermarsi lungo i marciapiedi con in mano un trancio di pizza o un panino.
Era l'ora in cui tutti smettevano di correre e saltare per ricaricarsi.
Il calzone incartato giaceva sulle mie ginocchia.
Sospirai togliendomi il tappocuffia per rimetterlo in tasca.
"Hai mentito magnificamente." Disse Ezio, che ormai aveva quasi finito il suo trancio di pizza. Gli lanciai un'occhiataccia.
"Tutto ok?" Mi chiese.
"Sì. E' solo mia madre che mi ricorda quanto io abbia bisogno di allenarmi."
"Tua madre si intende di parkour?"
"Sì, un pochino, sì..."
"Che forza. Mi piacerebbe avere almeno un genitore che sappia cos'è il parkour.
Nel senso... Che sappia davvero cos'è."
Scartai il calzone.
"E che cos'è per te?" Chiesi. Tirai un morso e sentii la mozzarella filante sotto i denti.
"Che domanda complicata." Appallottolò la carta della pizza e si pulì la bocca con un tovagliolo.
"Allora ne provo un'altra."
"Sentiamo."
"A che corso eri stamattina?"
"Corso avanzato, con un paio di atleti professionisti."
"Ah. Quelli che vengono dall'estero."
"Esatto."
Finii il mio calzone e ci alzammo per andare a buttare la carta nel cestino vicino alla panchina.
"C'è qualche spot carino da queste parti?" Chiesi.
Lui annuì e ci avviammo lungo il marciapiede.
Il cielo era limpido e il sole mi riscaldava un poco.
"Da quanto tempo sei iscritta alla Ragnatela?"
"Un anno."
"Allora forse posso insegnarti qualcosa. Lo spot è qui vicino."
Girammo l'angolo e ci ritrovammo in un piazzetta con tre panchine e due muretti bassi. Non era un gran che, ma in fondo, chi cercava veri spot, quando nella stessa città c'era il krapannone e il parkour park?
La piazzetta era animata, con ragazzi che ridevano e si riposavano, diversi seduti a terra.
"Te la cavi con i precision?"
"Abbastanza." Risposi.
"Io sto imparando a fare questo, guarda."
Si diresse verso il centro della piazzetta e salì sul muretto che aveva uno spessore piuttosto largo.
Il secondo muretto distava un paio di metri dal primo.
Ezio si tolse la giacca a vento e il cappello.
"Puoi tenermeli?"
Presi la giacca e il cappello e attesi la sua prossima mossa.
Prese qualche passo di ricorsa ed eseguì un side-precision.
Con le gambe tirate al petto, ruotò il suo corpo lateralmente mentre era in aria, poi si aprì ed atterrò in piedi con poca grazia sul secondo muretto.
"Questo è un side." Disse, come se volesse istruirmi.
"Hai spostato troppo l'asse, per colpa del braccio probabilmente. Invece che orizzontalmente, hai ruotato in obliquo. Ti faccio vedere..."
Alcuni ragazzi si erano avvicinati a noi.
Gli lasciai le sue cose, mi tolsi la giacca e gli diedi anche quella.
Salii sul muretto e con meno rincorsa della sua esegui un side-precision più corretto.
Ci avevo impiegato un anno per impararlo bene, e tutto grazie a mia madre che pazientemente mi aveva seguita negli esercizi di propedeutica, correggendomi sempre e spronandomi a fare del mio meglio.
Non era stato affatto facile e se mia madre fosse stata lì, sicuramente mi avrebbe ripresa per aver eseguito un side a freddo, e poi perché lei sicuramente avrebbe visto l'imperfezione che a occhi più giovani e inesperti sfugge.
"Ehi, Ezio." Fece un ragazzo che era lì accanto. "Hai appena fatto una gran figura di merda!" Esclamò e tutti scoppiarono a ridere.
"Ah, ah! Teo, sei un coglione."
Mi sedetti sul muretto. Mi fissò senza dire niente.
"Mi passi la giacca? Fa freddo."
Me la porse e me la rimisi addosso tirando la zip fino al collo.
"Credevo che fossi una principiante."
"Anche i principianti imparano in fretta."
"Ma tu non sei una principiante." Mi guardò dritta negli occhi. "Vero?"
"Che domanda complicata." Dissi.
Si rimise il cappello in testa.
"Comunque, complimenti: era un bel side."
"Ti ringrazio."
La mattinata passò tranquilla senza ritrovarmi nuovamente nella situazione di dover eseguire altri trick.
Ezio mi presentò i suoi amici, e le sue amiche.
Una di loro si chiamava Benedetta, era l'unica a portare i capelli corti, un taglio maschile, ma che poteva permettersi, con quel viso perfetto, pulito, da bambolina. Era anche l'unica che non rideva come una gallina alle battute di Teo ed Ezio, anzi, non sorrideva mai.
Io invece le loro battute non le capivo e basta, per via di un'incomprensione linguistica.
Teo doveva essere quello più legato a Ezio, poiché si permetteva il lusso di tirargli pugni sulle braccia senza scatenare la sua ira. E poi ridevano in continuazione, o parlavano con accento così pesante da non farmi comprendere niente.
Sulla strada verso il parkour park Benedetta mi si avvicinò e mentre tutti erano distratti disse: "Non lasciarti ingannare dalle apparenze." Indicò Ezio con lo sguardo.
"Perché?" Domandai, piuttosto sorpresa.
"Non fraintendere, è una bella persona infondo, ma non aspettarti molto da lui."
A quel punto volevo sapere di più.
"Aspetta... Senti, io lo conosco solo da stamattina." Dissi abbassando la voce.
"Quando comincerà a parlarti della sua vita disastrata, non dargli troppo retta, non è la vittima che vuole farti credere. Se vuoi conoscere qualche ragazzo veramente carino..."
"Non sono qui per rimorchiare!" Per poco non mi feci sentire anche dagli altri.
"D'accordo, scusa... Allora perché non ti alleni con me e le altre durante il workshop di domani mattina?"
"A quale corso?"
"La Krap ha anche un corso di parkour di sole donne, se vuoi unirti, sei la benvenuta." La vidi sorridere per la prima volta.
 
Quando alle quattro arrivammo al parkour park, c'era già un sacco di gente che si stava allenando.
Vidi Backie e mia madre e le salutai da lontano senza staccarmi dal mio nuovo gruppo.
Lasciai la giacca a vento insieme a quelle degli altri sulle panchine accanto alle strutture. Se qualcuno avesse voluto rubare la mia ci avrebbe trovato dentro solo un tappocuffia.
Iniziai il riscaldamento.
Correndo intravidi mio padre che si stava allenando con Stefano e altri istruttori, più giovani o della sua stessa età.
Papà si tolse la maglietta sudata e molti guardarono ammirati il dragone nero sulla sua schiena.
Ezio e Teo che correvano davanti a me si fermarono per osservarlo.
Allora si fermò tutto il nostro gruppo.
"Avete visto?!" Esclamò Teo.
"Altro che la rosellina sul polso della Paola." Disse quella che doveva chiamarsi Federica prendendo in giro un'altra che correva con noi.
"Allora la prossima volta mi tatuo cento rose sulla schiena." Fece quella che doveva essere proprio Paola.
"Quel tatuaggio è spettacolare." Ezio era rimasto a bocca aperta.
Papà intanto era salito sulla struttura più alta.
Si lanciò sulle sbarre afferrando quella più vicina e dondolando si diede lo slancio per atterrare in precision su una sbarra leggermente più in basso, a circa tre metri da terra. Rimase fermo per qualche secondo, poi lo vidi perdere l'equilibrio e lanciarsi giù. In quell'istante ebbi paura che non sarebbe riuscito ad atterrare correttamente.
Infatti cadde pesantemente a terra scorticandosi una spalla.
"PAPÀ!" Gridai, urtando il fianco di Ezio per correre avanti.
 
 
 
EZIO
 
"PAPÀ!" Gridò Belle lanciandosi verso l'uomo col dragone sulla schiena.
Rabbrividii sgranando gli occhi. Poi credo di essere impallidito, anche se non ne sono del tutto sicuro.
"Papà...?" Ripetei confuso.
Feci qualche passo verso l'uomo che nonostante la caduta rideva e sembrava stesse bene.
Belle si chinò su di lui con aria preoccupata.
Lui si rialzò in piedi.
Era alto, muscoloso, con le spalle larghe e la pelle olivastra, i capelli riccioluti e brizzolati. Il viso dimostrava cinquant'anni, ma quando sorrise a Belle per tranquillizzarla, ne perse dieci, forse di più, sembrando solo un giovane uomo.
"Tesoro, sto bene, perché pensi sempre che possa farmi male?"
"Ti sta sanguinando la spalla!" Sbraitò lei.
"Mi sono solo graffiato." L'uomo rise ancora più forte.
Gli occhi sottili e scuri di lui erano gli stessi di Belle.
"Complimenti, Diego. Ti sei dimenticato come si ammortizzano le cadute?" Disse facendosi avanti una donna dai capelli ricci e biondi che mi avevano detto si chiamasse Ning, e Belle proprio quella mattina mi aveva infomato sul fatto che era fondatrice di un'associazione sportiva e istruttrice di parkour, la sua istruttrice di parkour.
Allora quell'uomo era Diego. 
"Ah! Ma non avete più fiducia in me."
"Poveraccio... Vuoi che ti porto del disinfettante per quella tremenda ferita?" Fece la donna scherzando e lanciando un'occhiata di intesa a Belle.
"No, mamma. Non se lo merita."
Disse Belle rivolgendosi a Ning.
"Avete finito? Ma chi me le ha mandate 'ste due bacchettone?"
Sbuffò lui.
Guardai la donna, poi l'uomo col dragone sulla schiena.
Aveva appena detto mamma.
Ning era sua madre, Diego era suo padre.
Belle era la figlia di due istruttori di parkour.
Belle non era una principiante.
Praticava il parkour da quando era nata.
Mi accorsi che stavo sudando freddo.
Benedetta, dietro di me, scoppiò a ridere malignamente.
Mi voltai e guardandomi con quei suoi occhi di ghiaccio disse:
"Ezio, questa proprio non te l'aspettavi, eh?"
   
 
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