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Autore: Sophie_moore    03/10/2015    3 recensioni
Questa storia si è classificata prima al contest "Neo Superheroes vs Badass Villains" indetto da Myddr e Valira sul forum di EFP
Non ho mai amato nessuno durante la mia vita. Né in quella precedente, né tanto meno in quella attuale. Onestamente, non sono neanche sicura di esserne capace.
Quelle cose sdolcinate, i fiori, i ninnoli brillanti, le frase rubate al poeta di turno per far colpo… no, non fanno per me e non mi interessano. Solo a pensarci mi viene il voltastomaco.
"Non è vero."
[...]L'arma batteriologica che mio padre voleva che delineassi divenne ben presto un programma per la creazione di mutazioni genetiche. Scoprimmo che determinati individui, se sottoposti a radiazioni continue e non letali dalla tenera età, sviluppavano una certa propensione per il mutamento del DNA in una struttura molto più articolata della semplice doppia elica conosciuta.
Genere: Angst, Azione, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al contest “Neo Superheroes vs Badass Villains” indetto da Myddr e Valira sul forum di EFP.




Ex Homine



I am the shadow, and the smoke in your eyes




Non ho mai amato nessuno durante la mia vita. Né in quella precedente, né tanto meno in quella attuale. Onestamente, non sono neanche sicura di esserne capace.

Quelle cose sdolcinate, i fiori, i ninnoli brillanti, le frase rubate al poeta di turno per far colpo… no, non fanno per me e non mi interessano. Solo a pensarci mi viene il voltastomaco.

Non è vero.

Digrigno i denti contro il mio riflesso, come se avesse parlato lui, ma conosco fin troppo bene quella voce per poterla confondere con qualcun altro.

Un soffio d'aria muove la specchiera di fronte a me, facendola tremare.

La voce nella mia testa ridacchia con uno scricchiolio e fluttua dall'altra parte del cervello.

Certo che potresti ammetterlo, ormai, continua come una nenia.

Tutte le mattine è così: lei arriva puntuale come uno di quei proverbiali orologi svizzeri, ed io devo scacciarla prima che prenda possesso delle mie facoltà decisionali, magari portandomi a rischiare la pelle per salvare qualcuno. Gratis.

Chiudo forte le palpebre, stringo i pugni e mi costringo a respirare come si deve, lasciandomi sfuggire uno sbadiglio qua e là.

Per un po' tace, permettendomi di fare le mie cose prima di andare a lavoro: John Doe non può arrivare in ritardo, per nessuna ragione al mondo.

Mi va bene. Fare finta di essere un uomo, dico: secca e senza forme come sono non ho proprio alcun problema a farmi passare per un maschio per attraversare il deserto di macerie.

Dovresti smettere di lavorare, sei ricca abbastanza per vivere nel lusso e morirci.

˗ E invecchiare come gli stronzi del governo? No, grazie.

Ne fai parte anche tu, del governo.

˗ Non per mia scelta, ˗ sbuffo, nascondendo ogni traccia di femminilità sul mio viso. I capelli corti e ribelli costretti in un berretto, grandi occhiali da aviatore ed una sciarpa a quadrettoni che una volta doveva avere un qualche significato politico, ma che ora è solo un pezzo di stoffa lercio di polvere. Forse dovrei cambiarlo, o quanto meno lavarlo…


Appena fuori dalla mia abitazione, grazie ad uno dei numerosi passaggi segreti che mi permettono di sgattaiolare fuori senza essere seguita dai giornalisti, mi ritrovo inondata da tutti rumori assordanti della città: automobili che suonano i loro clacson come se non ci fosse un domani, grida, schiamazzi, elettrodomestici che hanno evidentemente qualche problema. Nonostante casa mia si trovi nel quartiere destinato alla nobiltà, a chi faceva parte del Governo, uscirne è sempre traumatico per me. Troppo casino, troppo rumore, troppa vita. Insomma, un immenso fragore che preferirei di gran lunga non ascoltare.

La mia bella Italia è uno scheletro senza più vita, ormai. Dopo l'invasione e la successiva guerra – perché siamo esseri umani, non possiamo perdere l'occasione di causare altro dolore quando già ne è stato causato parecchio – non è rimasto granché delle magnifiche chiese e dei monumenti storici, è stato tutto raso al suolo, distrutto e rovinato. Di recente sono stata a Pisa: la torre ormai è alta la metà se non di meno, le macerie sono crollate tutto intorno creando un muro difficile da oltrepassare. Serve una persona come me per poter vedere all'interno.

Ma Torino, la splendida città che mi ha accolta come una di famiglia, è morta. Le rovine rendono le strade accidentate nella periferia, mentre nella zona residenziale – casa mia, per altro – la guerra non ha quasi lasciato traccia del suo passaggio. Tutta la zona centrale, che va da Piazza Castello a Piazza Vittorio è stata bene o male preservata, le strade con qualche buco ma nulla di cui preoccuparsi troppo; il ponte che collega la piazza alla Gran Madre – la chiesa simbolo di Torino, quella sotto cui si crede sia sepolto il Santo Graal, sconsacrata e riconsacrata una serie di volte – è crollato durante l'invasione, e la guerra non ha di certo aiutato. Da quel punto in poi inizia la periferia, con tanto di sguardi poco rassicuranti e grandi uomini a torso nudo pronti a fare a botte per un tozzo di pane.

È davvero deprimente il paesaggio che mi circonda, pare una bestia che, ferita mortalmente, aspetta la fine della sua esistenza senza avere neanche la forza di muoversi. Ed io sono uno di quei parassiti che si nutrono della sua debole energia vitale, uno di quelli che succhiano gli ultimi aneliti di vita.

Alzo lo sguardo verso quella che era la chiesa più chiacchierata della città e punto il grosso tendone che sbuca alle sue spalle: quello è il quartier generale dell'agenzia di trasporti per cui lavoro come traghettatore. Sono un po' il Caronte della situazione, porto le anime da una parte all'altra della devastazione.

˗ Hey stecco, la vuoi un po' di roba?

Stringo i pugni nelle tasche e tiro dritto. Non sono un tipo che attacca briga, ma se mi viene proposta della droga difficilmente riesco a trattenermi dall'alzare e menare le mani.

˗ Non oggi, ˗ ringhio, cercando di rendere la mia voce il più roca possibile.

Sembra che si siano rincoglioniti tutti dopo la catastrofe: chiunque avesse partecipato aveva perso qualcuno di caro, è la guerra e funziona così, ma chi era come me… aveva pagato il prezzo maggiore, per quello siamo stati tutti ricompensati “a dovere”. Come se un titolo nobiliare, qualche migliaio di euro ed un posto al nuovo Governo potessero farla tornare indietro… gli esseri umani hanno sempre la presunzione che i soldi e le ricchezze materiali possano alleviare il dolore di una perdita.

Mia sorella è morta durante l'invasione zombi, sacrificandosi per proteggere un manipolo di umani normali con le sue barriere. Aveva tenuto al sicuro quasi tutta Torino, o meglio, i personaggi pubblici.

Non aveva idea di cosa fosse l'istinto di conservazione, non lo conosceva, per cui si era immolata con piacere, senza rimpianti.

Cos'è una vita in confronto a centinaia di vite?”, mi aveva chiesto, mentre discutevamo come al solito. Le avevo risposto che la sua vita valeva quanto la popolazione mondiale, che non meritavano la sua protezione e lealtà, perché l'avrebbero tradita alla prima occasione utile. Eravamo beste da macello, vittime totalmente sacrificabili.

Avrei quasi voluto essermi alleata con quei mostri maledetti e distruggere la razza umana, tanto era il ribrezzo che provavo. E continuo a provare, sia chiaro.

Tu sei sopravvissuta, io no. Avevi ragione tu.

˗ Certo che ho ragione io, l'ho sempre saputo, anche prima di tutto questa merda che ci ha rosicchiati fino all'osso.

Comunque, la guerra non l'abbiamo combattuta. Quella tra umani ed umani, dopo aver debellato “prontamente” l'invasione, (“mostri contro mostri”, dicevano, ma mai a voce alta), eppure molti di noi erano stati eliminati da cellule nemiche.

Mostri contro mostri, no?

Siamo stati presi di mira per paura che ci ribellassimo e sterminassimo gli umani, che prendessimo il potere con la forza.

Personalmente, dopo la guerra appena finita con i non-morti, non avevo la minima voglia di vivere, a malapena trovavo l'energia per alzarmi dal letto, figurarsi ficcarsi in mezzo ad un'altra guerra per il potere! Eppure erano entrati in casa mia, armati di gas, lacrimogeni e mitragliette.

Sorrido a ripensare a come fu l'arredamento del mio giardino finché un ammasso di mosche e vermi non lo distrusse.

Non avresti dovuto ucciderli tutti.

Mi fermo in mezzo alla strada, attirando inevitabilmente l'attenzione di un paio di barboni che mi guardano con gli occhi spalancati, confusi e terrorizzati.

˗ Non avrebbero dovuto attaccarmi. Sapevano benissimo chi sono, ˗ ringhio, stringendo i denti fino a farmi male.

Era una battaglia impari, non avrebbero potuto vincere.

Mia sorella riesce a rimproverarmi col suo buonismo da quattro soldi anche da morta.

˗ Pensavano di riuscirci, gliel'ho solo lasciato credere.

Sapevi sarebbero morti nel momento in cui sono entrati in casa.

La ignoro e procedo, i barboni alle mie spalle che continuano a fissarmi come se fossi un succulento panino. È sempre una rottura quando non mi lascia stare e continua a parlare e borbottare qualcosa, non riesco a concentrarmi su quello che vorrei e il lavoro non fila liscio come al solito.

Attraverso le macerie del ponte che collega Piazza Vittorio alla Gran Madre, non senza rischiare puntualmente di rompermi entrambe le caviglie, e arrivo al capannone bianco dove le automobili rimaste fanno bella mostra di sé.

˗ John, sei arrivato presto.

Il signor Rossi – mi sorprendo sempre di quanto sia stereotipato quest'uomo – mi guarda dall'alto in basso, come se cercasse qualcosa per farmi tornare a casa. Non piaccio al mio capo, no.

Gli rispondo con un cenno del capo, attenta sempre a non scoprire neanche un centimetro di pelle o quello è capace che mi fa secca all'istante, e mi metto nella mia macchina, una vecchia Ford Focus blu scuro, che ormai è diventata opaca per quanto è vecchia. Esteticamente fa schifo, è piena di graffi, striature di fango incrostato, sangue rappreso e penso sia la casa di una serie di insetti, ma funziona e tanto mi basta. I sedili sono solo blocchi di gommapiuma, hanno perso tutta la stoffa che li ricopriva a forza di starci dentro e non poterli cambiare. Le fabbriche sono chiuse, le auto non sono necessarie alla povera gente, per cui c'è qualche artigiano qua e là che costruisce i pezzi di ricambio ma niente di più. Dopo guerra ed invasione sarebbe stato strano se ci fosse stato ancora qualcosa di aperto.

In sostanza aspetto di morire per abbandonare questo mondo inutile e senza la minima speranza.

Il signor Rossi mi batte due volte sul vetro del finestrino, così lo abbasso con la manovella – sì, la manovella, manco automatico è sto catorcio – per sentire cos'ha da dirmi.

˗ Due uomini, Roma. Chiedono di te.

Annuisco e metto in moto. Il motore romba forte, troppo forte per essere un rumore normale, ma non ci do troppo peso. Uno dei due fari si accende – dovrei decidermi a cambiare almeno la lampadina –, aggiusto lo specchietto retrovisore puntandolo sui sedili posteriori e attendo di sentire le portiere che si aprono.

Non ti senti un po' emozionata?

Mi giro di scatto e la figura magrolina di mia sorella mi saluta, sculettando sul sedile del passeggero.

˗ Porca puttana!

Dovresti smettere di dire parolacce, sei una donna ormai.

Ha una smorfia così imbronciata che sembra vera. Ma è morta. E io non posso mettermi a parlare con lei mentre ci sono dei clienti in macchina, anche perché potrebbero capire che sono una donna e sarebbero cazzi amari.

˗ Taci, ˗ dico a mascelle serrate, mentre stringo convulsamente le mani sul volante ruvido e appiccicoso di sudore. Fa davvero schifo.

Sei veramente maleducata, la mamma non ti ha insegnato nulla?

Guardo fuori dal finestrino e vedo che i due uomini stanno parlando con Rossi, così posso mandare a fare in culo mia sorella in santa pace.

˗ Quella ci ha insegnato solo a trovare la vena giusta per piantarci dentro un ago.

Ma tu ora sei una nobildonna.

˗ E tu sei morta, ˗ rimango in silenzio. I ricordi fluiscono nella mia mente come un fiume in piena, vedo flash del mio passato che ho cercato di cancellare in ogni modo da me conosciuto. Vedo la prima volta che Miriam ha preso una insufficienza e mia madre stava riversa sul divano di casa con la bava alla bocca e il colorito di una mozzarella ammuffita, e ho dovuto io sgridarla e strigliarla per bene. Quando siamo andate a fare degli esami e per i minorenni non accompagnati serviva la firma del genitore, mi ricordo di averle preso la mano e averla guidata, talmente era fatta. Neanche si ricordava come si chiamava. Ma sarà ancora viva? ˗ Che affare, eh? Grazie mille mamma.

Mia sorella mi fa un sorriso triste e dispiaciuto, sa come la penso e sa che ho perfettamente ragione. A volte penso che il destino riservato a me sia un brutto scherzo di quel qualcuno che da lassù si diverte a vedermi come un topolino in gabbia.

Le portiere della Ford si aprono con uno scricchiolio sinistro e con una specie di tonfo. Due uomini si siedono dietro di me, gli sguardi di chi sta scappando da qualcosa di enorme e spaventoso.

Non dico nulla, incrocio gli occhi di quello alla mia destra e lui mi annuisce. Non sono un traghettatore di molte parole, per cui mi va bene avere passeggeri di meno parole ancora.

Pigio sull'acceleratore mentre alzo il piede dalla frizione e la macchina parte con un rombo che mi riempie la testa per una manciata di secondi. Le gomme slittano sul quello che rimane dell'asfalto e ci muoviamo dentro una nuvola di polvere grigio scuro.

L'uomo di destra si guarda le spalle, poi, quando si rende conto che siamo abbastanza lontani dalla Chiesa, esordisce: ˗ Io so chi sei.

Annuisco dallo specchietto, mantenendo lo sguardo fisso sulla strada piena di curve che ci separa dall'autostrada.

˗ No, io so chi sei, Selene.

Mi trattengo a forza dall'inchiodare in mezzo alla strada. Non che ci sia gente, per carità.

Oh no…

˗ Dobbiamo arrivare vivi a Roma o provvederò a smascherarti, ˗ il suo accento è molto duro e scandito, non sembra italiano.

Sbuffo, prendendo dei profondi respiri per calmare la testa che mi pulsa. Mi viene da vomitare.

˗ Come sai chi sono? Sei uno di loro?

Non so con che forza sia riuscita a pronunciare questa frase, ma è uscita e la nausea si è un po' alleviata.

Lui dà uno sguardo al compare, la loro espressione è indecifrabile, e poi torna a fissare nello specchietto, ˗ Abbiamo disertato. Ora vai.



Non sono mai stato un uomo d'azione. Preferisco guardare le cose dietro la sicurezza di un vetro antiproiettile, o dentro ad un camion blindato. Sono sempre stato il topolino per gli esperimenti, uno di quelli che correva da una parte all'altra alla ricerca di qualcosa che ancora non riesco a comprendere.

La mia posizione di prestigio mi è stata gentilmente concessa da mio padre: era stanco di vedermi girare a caso come una trottola e mi ha affibbiato alla ricerca per una nuova arma batteriologica al dipartimento della difesa. Dislocato in un'isoletta sperduta.

Alla fine, per quanto io sia un totale incapace sulle cose pratiche della vita, ho una mente molto estesa e adatta per elaborare schemi complessi.

L'arma batteriologica che mio padre voleva che delineassi divenne ben presto un programma per la creazione di mutazioni genetiche. Scoprimmo che determinati individui, se sottoposti a radiazioni continue e non letali dalla tenera età, sviluppavano una certa propensione per il mutamento del DNA in una struttura molto più articolata della semplice doppia elica conosciuta.

Ogni scoperta che facevo era un passo avanti per la razza umana! Sapere che ci saremmo potuti evolvere in qualcosa di più grande, più preciso in confronto a quell'accozzaglia di geni e cellule, con magari dei poteri che trascendevano la logica, mi spronava a lavorare sempre più assiduamente, giorno e notte.

Estrapolammo dai ratti mutati le informazioni genetiche che avrebbero portato a questa evoluzione così straordinaria ed iniziammo a fare esperimenti sugli esseri umani.


˗ Esperimento 0, cavia umana, uomo. Buone condizioni di salute, fumatore, condannato per triplice omicidio.

Annuii e spuntai tutte le informazioni che il mio collaboratore aveva appena elencato sulla mia cartellina blu.

˗ Possiamo iniziare.

Con un cenno, lui prese in mano una siringa dall'ago finissimo, il liquido che ne uscì era di uno strano rosso, come fosse stato sangue.

La cavia stava legata ad un lettino da ospedale, i lacci di cuoio che gli bloccavano spalle, tronco, polsi e caviglie per ogni evenienza; aveva una mascherina nera sugli occhi in modo che non potesse associare i volti alle voci che sentiva; ed una specie di morso in bocca, efficiente nel caso in cui avesse decido si mordersi la lingua o sabotare il nostro esperimento in qualche altro modo.

Il mio collaboratore, tale Hakuzuki, picchiettò sulla fiala contenente il liquido e poi annuì nella mia direzione, pronto per infilarlo nella vena del detenuto tra le nostre grinfie.

Gli risposi con un cenno e lui procedette.

In un paio di secondi tutto il centro si ammutolì per vedere che effetto avrebbe fatto il nostro mutageno su un essere umano per la prima volta. Io per primo non stavo nella pelle di scoprire cosa sarebbe successo.

Ma non successe nulla.

Per la prima mezz'ora dall'iniezione, la cavia non dava segni di cambiamento. Stavamo perdendo tutti le speranze, anni di lavoro buttati nel cesso così, ma poi l'uomo ebbe un sussulto.

E poi un altro, e poi un altro ancora. Finalmente stava succedendo qualcosa!

Ebbe le convulsioni per una decina di minuti, pianse e si spaccò i denti sul ferro del morso nel tentativo di chiudere la bocca.

Ero pronto con una dose di morfina visto che si stava dimenando troppo e non volevo perderlo. Mi avvicinai, puntai l'ago sulla vena del braccio opposto ma non appena provai a premere le convulsioni si placarono. La cavia si rilassò.

E dopo morì, gocciolando sangue sul pavimento.


Mi riscuoto dai miei pensieri quando sento la voce di Klaus, forte e decisa come sempre.

˗ Perché lo fai?

La nostra traghettatrice, John Doe, si toglie gli occhiali da aviatore e ci mostra i suoi occhi.

˗ Prima non vuoi che parli e ora mi fai domande? ˗ Non sembra sia molto abituata a parlare con le persone, per cui la sua voce è roca e graffiante.

˗ Rispondi. Perché lo fai? ˗ Klaus ha quell'espressione da tedesco che spaventava tutti ai tempi della guerra: dura e spietata, senza scrupoli.

˗ Aiutarvi? Mi pagate, ˗ risponde, secca.

˗ Lavorare, ˗ la corregge Klaus, ringhiando sottovoce. Non credo che questa Selene gli piaccia in modo particolare.

Lei scrolla le spalle, gli occhi di ghiaccio che lo fissano senza alcun timore. Mi sento un parassita a confronto di questi due titani che si fronteggiano, nonostante io sia molto più vecchio di loro.

˗ Stessa risposta, vengo pagata. Tanto mi basta.

˗ Non ti vuoi vendicare?

Percepisco una strana vibrazione nella guidatrice, sembra pronta a mollare tutto e a farci vedere di che pasta è fatta la Guerriera del Vento, com'era soprannominata in guerra, ma alla fine decide di stare al volante e sposta lo sguardo sulla strada

˗ Di cosa?

˗ Miriam.

Klaus pare essere ancora più incazzato del solito in questo momento. Probabilmente ricorda cos'è successo alla sua famiglia.

˗ È la guerra, e la guerra uccide. Se tutti pensassimo a vendicarci, la razza umana avrebbe cessato d'esistere da un sacco di tempo.

Il mio compagno di viaggio rimane in silenzio.

Selene ha ragione, tutto sommato. È sorprendente come questa donna riesca a non mostrare alcun sentimento attraverso gli occhi o il suo corpo. Sembra una specie di automa.

˗ E poi, vendicarmi non la farà tornare da me. Sarebbe uno spreco di risorse, non vorrebbe che sprecassi la mia vita cercando di farle giustizia. Per cui, va bene così, circa.

Klaus annuisce ed incrocia le braccia al petto.

˗ Io mi vendicherò, invece, ˗ asserisce, ed il tono che usa mi mette i brividi.

Selene sogghigna.

˗ Fai cosa ti pare, basta che mi paghi per il lavoro compiuto. Per quel che mi riguarda puoi anche morire appena fuori dalla mia macchina.

Klaus annuisce e si mette a guardare fuori dal finestrino.

Il tempo fa schifo, il cielo è grigio anche se è mattina presto e sembra una cosa sola con l'asfalto bruciato e pieno di buchi dell'autostrada.

Non c'è anima viva. È comprensibile, dopo tutto quello che è successo nessuno ha voglia di uscire di casa.

Noi stiamo andando a Roma perché Klaus ha un contatto da quelle parti. Ho provato a fargli cambiare idea, davvero, ma proprio non ne vuole sapere: deve vendicare sua moglie e suo figlio, e per farlo è disposto a tutto.


˗Tu sai cos'è successo.

Venni preso per le spalle e portato in uno stanzino buio, dove mi trovai di fronte ad un omone grande e grosso, volto squadrato ed una grossa targhetta identificativa con un nome impronunciabile. Un tedesco.

˗ Successo quando? Di cosa parla? ˗ provai a fare finta di nulla, ma sentivo delle gocce di sudore freddo che mi facevano rizzare i peli sulla schiena. Aveva uno sguardo di ghiaccio, quasi bianco. Ero terrorizzato.

˗ Zombi.

Per una decina di secondi mi sentii la testa leggera, come se tutti i ricordi fossero in mano a qualcun altro, poi mi colpirono violentemente tutti insieme, schiacciandomi come un enorme masso avrebbe fatto con una formica.

˗ Per colpa tua mia moglie è morta.

La voce di quell'armadio tremò per un istante, e quel tremolio mi fece intuire che qualcosa non andava.

˗ Tu hai creato quei mostri, loro hanno fatto uccidere mia moglie… ˗ strinse i denti ed i pugni. Mi preparai ad essere colpito da qualche parte, perché quella bestia dal cognome terribile non sembrava essere così calmo.

˗ Tu pagherai per i tuoi peccati. Mi aiuterai. O ti uccido, qui.

Il suo forte accento tedesco sbucò all'improvviso, facendomi barcollare sul posto. Si diceva che i tedeschi sembravano sempre arrabbiati mentre parlavano, ma quella volta potevo vedere una tale furia omicida nei suoi occhi da farmi pensare che sembrassero incazzati a prescindere dalla lingua parlata.


Gli esseri umani che non resistevano all'iniezione morivano come mosche. Avevamo trovato il modo di annacquare il gene, renderlo meno letale, ma si prolungava solo l'inevitabile.

Finché non riuscimmo a vedere un risultato positivo: il primo “supereroe”, se così si poteva definire. Il gene modificato aveva finalmente fatto qualcosa di buono, trasformando una semplice donna in una macchina da guerra, pronta all'assalto.

Da lì partì tutto. Dopo mesi mettemmo in commercio il gene sotto forma di vaccino anti influenzale, sotto costrizione dei vertici del governo mondiale. Ognuno voleva avere delle possibilità nel caso di una futura guerra, e noi diventammo ricchi, ricchi sfondati.

Un brivido mi percorre la schiena.

˗ Voi sapete come sono nati, non è vero?

La voce di Selene è fredda, calma, quasi innaturale se devo dirla tutta.

Klaus mi guarda: credo sia indeciso se dirle la verità o lasciarla nella sua ignoranza.

˗ Vaccino. Dovevamo essere risorse in caso di guerra, perché non si può mai sapere, e invece siamo diventati dei mostri.

˗ Non capisco.

Prendo un respiro profondo per farmi forza. È ora di raccontare tutta la verità, questa ragazza merita di sapere perché sua sorella è morta.

˗ Con una serie di esperimenti abbiamo scoperto un gene particolare che predisponeva alla mutazione genetica. Insomma, faceva sì che l'organismo ospite sviluppasse determinati poteri, impossibili da prevedere. Molti dei primi esperimenti umani morirono a breve distanza dall'iniezione, ma diluimmo il contorno del gene così che non mietesse più vittime. Molte di loro continuarono a morire, ma altre svilupparono capacità eccezionali.

˗ Quando si arriva a loro?

Rabbrividisco. La sua voce, i suoi occhi, quell'espressione così incazzata che mi fa tremare sul sedile. Klaus ridacchia.

˗ Loro sono gli esperimenti non riusciti. Sono gli esseri umani che, ricevuta l'iniezione, sono morti e poi tornati in vita, senza coscienza o volontà.

˗ Il vaccino è stato iniettato a tutti?

˗ No, no, solo ad una piccola parte della popolazione. Sono stati scelti orfani, militari e persone bisognose di soldi per questi esperimenti. I sopravvissuti sono stati ripagati.

Sento una leggera brezza che mi aleggia intorno. Poco a poco diventa sempre più fredda e pare girarmi solo attorno al collo.

All'improvviso non riesco più a respirare. L'aria che sentivo pochi secondi fa mi riempie i polmoni e la gola, impedendomi di prendere ossigeno. Sto soffocando?

˗ Ascolta tua sorella!

Klaus urla, io inizio ad avere gli occhi appannati e la testa comincia a pulsarmi violentemente.

Poi, come è arrivata, sento l'aria fluirmi fuori dall'esofago e tossisco, così, senza preavviso.

˗ Non dicevi di non volerti vendicare?

˗ Non è vendetta, ˗ ringhia, ˗ è solo giustizia. Il modo in cui avete trattato il genere umano è agghiacciante e meritate tutti di morire.

˗ Tu portaci a Roma, ci penso io alla giustizia che tanto decanti.

˗ Ma come cazzo parli?

˗ Che problemi hai?

˗ Mi leggi nella mente, no? Lo sai che problema ho.

Klaus tace, mentre io sto continuando a prendere fiato. Mi sono quasi pisciato addosso dalla paura. Non sono un guerriero, non sono uno che si lancia in battaglia: io sono uno di quelli che il massimo rischio che corre è di inciampare nei lacci delle scarpe. Non so neanche quanto tempo è passato e ho già la sensazione che sarà un viaggio eterno.



Dovresti provare a fare amicizia con loro.

Lancio un'occhiataccia a Miriam che, appollaiata sul sedile come un uccello sul trespolo, mi osserva preoccupata.

˗ Con della terapia si può guarire.

˗ Guarire da cosa?

Vuole farmi andare via… così dovresti stare meglio, senza avermi sempre attorno.

Scuoto la testa, riportando le pupille sull'asfalto davanti a me, ˗ Lei non se ne andrà mai.

˗ Si chiama PTSD.

˗ Che cazzo di roba è?

È il disturbo post traumatico da stress. Ne soffre chi ha subito un forte trauma.

˗ Non ho subito nessun trauma.

Miriam sorride e scuote la testa, mentre sento il bestione dietro di me che sbuffa. Lo vedo che incrocia le braccia al petto e guarda dal finestrino.

˗ Fidati che ti aiuta.

Nene, perché non gli dai ascolto? Sono anni ormai, lasciami andare…

˗ Volete smetterla, tutti e due? ˗ grido, con il cuore che mi batte nella gola. È una sensazione davvero terribile, soprattutto perché sento una specie di strana leggerezza nella mente. Il crucco alle mie spalle starà scrutando nei miei ricordi per cercare qualcosa da usare contro di me, farmi entrare in terapia, o chissà cos'altro. Beh, che si accomodi: ce n'è per tutti i gusti, qui dentro.

˗ Piuttosto, dille del progetto “Salomone” e degli Ex.

˗ Io ero nella squadra Ex-12.

Mi sento sollevata nel cambiare discorso, almeno posso pensare ad altro. Non che le scoperte mi porteranno a cose positive, mi sa, ma almeno è sempre qualcosa di diverso.

˗ Gli “Ex” erano le squadre di supereroi, ˗ fa il gesto delle virgolette con le mani l'uomo tarchiato. Ringhio una risposta tra i denti, ˗ ovvero quelle composte da persone mutate.

˗ Questo lo so. Il progetto “Salomone”.

˗ Io mi chiamo Solomon Vorobyov, sono russo, e ho partecipato alla creazione del progetto “Salomone”, ovvero un progetto in tempo di pace che guardava alla guerra. Gli “zombi”, come li avete chiamati voi, sono stati i nostri esperimenti falliti. Ci preparavamo per una futura guerra o battaglia con un'arma batteriologica. Nella Bibbia, Salomone è stato un re buono e giusto con un regno prosperoso.

˗ L'obiettivo era creare un mondo perfetto, in pratica, ˗ lo interrompo bruscamente. I vaneggiamenti sulla religione ed il simbolismo mi fanno venire l'orticaria. Se ci fosse mai stato un Dio, da qualche parte, avrebbe impedito che i suoi giocattolini si rompessero e si facessero i dispetti così. Anche i bambini sanno che devono prendersi cura delle loro cose, o rischiano che vengano loro tolti, ˗ Vi ringrazio di cuore per averci buttati in questo inferno, davvero, grazie, grazie. È morta mia sorella, ma infondo a chi importa?

Nene smettila…

˗ No! ˗ prendo un respiro profondo e continuo: ˗ No. Prima di giocare con la vita degli altri, perché non avete provato a giocare con la vostra? Ah già! Che scema che sono! Voi amate la vostra inutile esistenza, è molto meglio sacrificare chi magari non ha avuto una famiglia! Ma certo, ma certo! Vi sono grata davvero, perché avete dato un senso al nostro insulso deambulare.

˗ Noi volevamo essere sicuri di essere pronti, per un-

˗ Chi se ne fotte! Avete sacrificato metà del genere umano per cosa? Per una probabile guerra! Oh, scusa tanto! Signor Einstein, ti è mai passato per la mente che la guerra per essere combattuta deve prima scoppiare?

Adesso smettila! Abbiamo pagato tutti, forse prima, ma non devi prendertela così. Sarebbe finita in questo modo comunque, presto o tardi, perché la natura umana è questa.

˗ E tu sei morta per questo! Lo capisci? Supereroi un cazzo, bestie da macello a cui è stata negata anche una morte decente.

Sterzo con violenza, pigiando sull'acceleratore: esco dall'autostrada per finire su un terreno arido e senza vegetazione, all'altezza di quella che doveva essere l'uscita per entrare in una stazione di servizio. I freni stridono e si alza una polvere grigia – sembra morente anche lei – al mio passaggio. Sono passate quattro ore, tra un insulto e un altro, e già voglio abbandonarli e tornarmene a casa, a lasciarmi morire nella vasca da bagno.

Spalanco la portiera con un calcio, tiro il freno a mano e mi lancio fuori come se ne valesse della mia vita. È ironico che proprio io abbia bisogno di aria.

˗ Devi portarci a Roma!

Il bestione crucco mi segue le sopracciglia a V e la fronte corrugata.

˗ Mi hai sentito?

˗ Non ti avvicinare, ˗ sussurro solo, mentre intorno a me inizia a soffiare un venticello freddo.

˗ Devi portarci a Roma., ˗ ribadisce allora il crucco.

Un grosso vortice di vento si alza, portando con sé pugni di terra, e colpisce con violenza il crucco, sbalzandolo a molti metri di distanza da me.

Selene, devi piantarla. Che ti succede?

˗ Che mi succede? Succede che quel pezzo di stronzo che sta nella mia macchina ha creato tutto sto gran casino e ha ancora il coraggio di accampare scuse!

Sei una donna adulta, fai parte della nobiltà di questo nuovo mondo, non puoi impazzire in questo modo.

˗ Pronto? ˗ urlo, passandole una mano davanti al viso, ˗ Sei morta! E io continuo a vederti, non credo di essere proprio normale.

Miriam si mette a gambe e braccia larghe, mi fissa negli occhi con un'intensità da farmi quasi tremare le gambe. Vuole proteggere il crucco.

˗ Sono tornati…

Robiola, lì, il russo, mi raggiunge e va sa sbattere contro il muro d'aria che mi circonda. Vorrei ridere, vorrei farlo davvero, ma sta piangendo. È terrorizzato.

˗ Sono tornati?

˗ Loro…

Cade in ginocchio e si copre il volto con le mani sporche di polvere.

Mi guardo attorno, leggermente spaesata, e mi cedono le gambe.

Nene sono tornati. Entrate in macchina…

˗ Come cazzo è possibile che siano tornati? ˗ prendo Robiola dal colletto e lo scuoto. Mi rendo conto che la voce vacilla, ma non posso controllare tutte queste emozioni.

˗ Non lo so… non lo so…

Lo schiaffeggio e lui mi guarda stralunato, mentre le lacrime gli solcano le guance.

˗ Li hai creati tu, razza di idiota. Com'è possibile che siano tornati? ˗ ci riprovo, magari adesso risponde in modo sensato.

˗ Io non lo so! Non volevo!

˗ Selene… non ti piacerà quello che vedrai.

Mi giro di scatto verso il crucco, che mi sta a debita distanza. Sembra dispiaciuto. Continuo a guardare attorno a me, ma non trovo niente che potrebbe farmi sentire peggio di quanto non stia già.

˗ Entrate in macchina e chiudetevi dentro, ci penso io, ˗ sussurro. Loro due si annuiscono ed in un attimo sono dentro la mia Ford Focus a tremare come delle foglie.

Prendo dei profondi respiri per rimanere calma e concentrarmi. Non voglio tornare indietro con la memoria e ricordare la guerra, ricordare cos'ho dovuto combattere per sopravvivere. Non voglio ricordare il sorriso di Miriam quando mi disse addio prima di morire.

Sono una decina gli zombi che si stanno muovendo verso di noi. Li riconosco perché è difficile che degli esseri umani si aggirino da queste parti a piedi e non in macchina. Ah sì, poi anche perché sono lenti e dondolano come se non avessero ossa.

Dio, se ci sei, è ora che batta un colpo.



Non mi sento al sicuro. Non mi sento per niente protetto. La carrozzeria di questa macchina è tutta ammaccata, la vernice è staccata, e poi i finestrini non sono rinforzati. Come può pretendere che ce ne stiamo qui a non fare niente? Se le prendessimo la macchina non credo che ne soffrirebbe, potremmo scappare.

˗ Non ci pensare neanche.

˗ Perché?

Klaus ha lo sguardo fisso su quella ragazza smilza e ciondolante, studia ogni sua mossa.

˗ Selene non perirà. È una donna determinata.

˗ Ma se morisse?

Fa un sorrisetto enigmatico, ˗ Tiene troppo alla sua vita per morire. Ci porterà a Roma.

Mah, sarà. Io comunque non mi fido.

Selene fa qualche passo in avanti, stringe i pugni. La sciarpa a quadrettoni svolazza dietro di lei libera, come se fosse un mantello da supereroe.

Dopo poco una decina di esseri entrano nel suo campo visivo, ed un vortice d'aria alza la polvere.

˗ È il suo potere. Controlla l'aria, ˗ mi spiega Klaus.

Questa donna è straordinaria. Senza muoversi di un centimetro distrugge gli zombi. Li fa a pezzi con delle correnti d'aria in un modo che fa quasi impressione. Sembra quasi come lanciare un prosciutto attraverso l'elica di un aeroplano: il risultato è un ammasso di brandelli di carne di varie dimensioni e densità. Mi viene da vomitare.

˗ Lo vedi? I due mostri creati a confronto.

Rabbrividisco a questa affermazione.

La verità è che non ho mai pensato alle conseguenze che avrebbero avuto le mie azioni, ero solo troppo emozionato per la sensazionale scoperta. Sono stato fiero di me per decenni interi, sono stato orgoglioso del mio operato, perché il progetto Salomone era utile alla creazione di un mondo migliore. E invece avevo solo dato il via alla sua distruzione inevitabile.

Per quanto voglia, non posso porvi rimedio.

˗ Pagherai per i tuoi peccati, a Roma. Non sarà molto, ma contribuirai. E faremo in modo che nessun altro segua il tuo esempio.

Annuisco.

La donna tritacarne è ferma, ancora, ma sembra tremare. Di fronte a sé ha una donna, senza un braccio, sbilanciata verso destra e con un enorme foro all'interno del petto.

˗ Che le prende?

Klaus abbassa gli occhi, mi mette una mano sulla spalla e mi fa distogliere lo sguardo.

˗ È sua sorella.

˗ Come è sua sorella, ma era…

La consapevolezza del trauma che sta vivendo mi investe come un camion. Non solo ha perso sua sorella una volta, ora deve combatterla per salvare me, che ho creato tutto questo.

˗ Credo che questi siano gli esperimenti riusciti. Ci mettono più tempo a tornare, probabilmente. Ma tornano, ˗ spiego boccheggiando. Mi manca l'aria.

˗ Guarda cos'hai fatto.

Adesso Klaus mi costringe a guardare la scena. Selene è scossa da dei fremiti violentissimi, l'altra donna si avvicina a lei con una lentezza infinita.

Selene allunga una mano.

Il cadavere la imita.

Regna un silenzio innaturale e tutta la polvere che volava poco fa crolla a terra. È tutto immobile.

Selene ritira la mano. Sillaba qualcosa.

Il cadavere di fronte dondola. E poi esplode in minuscoli pezzetti che si sparpagliano qua e là.

Selene torna nella macchina strofinandosi il braccio sugli occhi. Si mette al posto del guidatore senza dire una parola e si rimette gli occhiali da aviatore.

˗ Selene…

˗ Non ci provare, ˗ le trema la voce. Credo abbia pianto, ˗ e anche tu, stai zitta.


Il resto del viaggio passa nel silenzio più totale. Questi due non battibeccano neanche più, talmente l'atmosfera è pesante. Il cibo è un optional, dopo la situazione che abbiamo vissuto qualche ora fa.

Nessuno di noi ha voglia di spiccicare parola, per cui ce ne stiamo zitti finché la macchina non si ferma sotto un'insegna tutta spaccata su cui si legge a malapena “Roma”.

˗ La corsa finisce qui.

Klaus annuisce, mi spinge fuori dalla macchina e lascia il borsone a Selene. Poi mi raggiunge fuori, lasciando che la nostra autista possa ripartire.

La guardiamo sparire all'orizzonte scuro, oltre questa strada sfasciata sulla sua Ford Focus blu.

Nonostante tutto, non riesco a togliermi dalla mente l'immagine di quella giovane donna con la sciarpa al vento.

Credo non mi abbandonerà mai più.




And now I see the world through diamond eyes




Sophie's space:

Buongiorno truppa! Oggi provo con una storia su un “supereroe”, che di super ha solo i poteri.

Prima di tutto, ci sono alcuni riferimenti lasciati appositamente fumosi:

- Ex Homine: il titolo. Allora dunque, scusandomi in anticipo se l'ho scritto sbagliato (il dizionario lo diceva così, comunque), è la mia interpretazione. Dal latino vorrebbe dire “essere umano”, mentre qui il termine “ex” si riferisce a qualcosa che era e che non è più, per cui un “ex umano”.

- sciarpa a quadrettoni: parlo della Kefiah, il copricapo mediorientale simbolo del patriottismo palestinese. Qui si usa semplicemente come una sciarpa.

- John Doe: è il nome dato ai cadaveri non identificati. In questo caso, Selene non vuole avere un nome specifico, non vuole essere ricordata, per cui sceglie il nome usato per i cadaveri.

- motivo per cui “Robiola” è stato dislocato: nel mio ipotetico universo, anche durante la pace si fanno esperimenti perché “non si sa mai”, giusto per essere pronti nel caso in cui scoppiasse effettivamente una guerra. Poi esperimento tira esperimento e invece di creare un'arma batteriologica si trova un gene capace di modificare la struttura genetica per far nascere dei superpoteri. Ta-dan! Gli esperimenti poi sono in un'isola sperduta perché al massimo esplode l'isola e chissene xD

- zombi: l'apocalisse dura poco, circa un anno. I morti tornano in vita a causa di quel gene dopo qualche mese, non si riproducono, ma essendo testati, ovviamente, prima nelle popolazioni più povere, a nessuno è importato granché. Quando poi sono arrivati in Europa ecco che ci si muove per distruggerli.

- la guerra: la guerra che nasce dopo l'invasione dura circa sei anni, e parte un anno dopo l'invasione.

- squadra ex: Ex è inteso sia come “experiment” sia come “extraordinary”.

- età: Al momento dell'invasione, Selene ha 26 anni, Miriam 24, Klaus 43, Solomon 55. In questo episodio specifico, Selene ha 32 anni, Miriam è morta, Klaus 51 e Solomon 63.

- PTSD: disturbo da stress post traumatico, si riscontra principalmente nei soldati di ritorno dalla guerra ed uno dei sintomi sono le allucinazioni e le voci nella testa. Selene ne soffre dopo aver partecipato all'invasione e dopo aver perso sua sorella in guerra.

- le frasi: le frasi allìinizio e alla fine sono di una canzone, “Diamond Eyes” degli Shinedown. Perché le ho scelte? Perché rappresentano il cambiamento. All'inizio è tutto scuro, offuscato, per Selene che non sa la verità e per Solomon che non capisce i danni che ha fatto, mentre alla fine entrambi vedono il mondo attraverso il diamante, per cui è tutto più chiaro. Sono consapevoli.




  
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