Harald
Martewall
Padre.
Il
barone è tornato a casa.
La
sua veste è gocciolante e il suo mantello pesa
sulle spalle. È tornato in un giorno in cui il cielo non è stato
clemente, in
un modo che oramai gli abitanti del territorio si aspettano. Le nubi
sono scure
e opprimenti nelle ombre della sera, e rilasciano una pioggia
torrenziale.
Il
barone si sfrega con una mano la barba castana,
la pelle pallida e tirata sugli zigomi dalla stanchezza. Ma è solo un
momento
distratto, e poi il suo sguardo si irrigidisce di nuovo, come animato
da un
movimento che è risalito dalla schiena, ora più dritta e austera.
Sembra di
nuovo infaticabile, il barone, anche se il suo viaggio è finito.
Si
ferma nella sala d’ingresso, finalmente lontano
dalla tempesta e ascolta per un momento, senza dire nulla, le voci
concitate
degli ufficiali che ordinano ai servi di mettere i cavalli al riparo.
Impartisce lui stesso qualche istruzione, davanti ai volti dei suoi
famigli
che, lo sente, sono felici di vederlo. Cede ad uno di loro il mantello
con un
sospiro di piacere, non sopportando più di sentire il tessuto freddo e
bagnato
sul collo.
Sorride
distrattamente. Lui stesso è molto felice di
essere di nuovo a casa. E non solo per il calore del fuoco acceso.
Dal
corridoio fanno capolino delle giovani balie dai
capi coperti da un panno bianco, una di loro porta in braccio un bambino che quasi scompare tra le pieghe delle sue
vesti. Lo vedono e gli vanno incontro con sorrisi ampi e saluti
cortesi. Il
barone le osserva inchinarsi di fronte a lui e poi tende le braccia con
un
piccolo sorriso.
La
piccola Leowyn adesso è tra le sue braccia e
dorme profondamente. Il barone le accarezza la piccola testolina ma
alza lo
sguardo quando sente i passi dell’ ambasciatore che lo raggiungono, e
lo guarda
negli occhi mentre, delicatamente, riaffida la piccola alle cure delle
donne.
Il messaggero ha in mano una lettera e il barone sa che resterà con lui
per
discutere riguardo al suo contenuto, una volta che l’avrà letta.
La
porta dietro alla sue spalle si apre lentamente
mentre un’altra folata di vento piega i rami degli alberi fuori dalle
finestre
di vetro opaco. Il barone si accorge allora di non essersi allontanato
dall’entrata e si volta mentre il portone sbatte con un tonfo sordo.
Ricambia
lo sguardo profondo di un bambino con le
guance sporche di fango e gli occhi rossi per il vento e la pioggia che
hanno
raccolto. Il loro grigio intenso non ha perso però quel guizzo vivace
che ha
sempre avuto nel suo colore frastagliato, che pare più chiaro ancora
alla luce
danzante del camino. Le spalle del bambino sono magre sotto la camicia
ampia e
sporca anch’essa di fango, gli stivali logori e i capelli castani
arruffati e
fradici.
Il
barone riesce a non far trapelare il suo sorriso
dalle labbra, ma non dai suoi occhi, per un solo istante. Gli bastano
pochi
passi per raggiungere il bambino, e lo fa nonostante la presenza del
messaggero
sembri rendere l’aria più pesante. Anche il bambino se ne è accorto,
ovviamente. Punta lo sguardo sull’uomo con quegli occhi curiosi che
sembrano
scrutare nel profondo della sua persona, con un velo costante di
malinconia.
Sembra
esserci tutto, nello sguardo di suo figlio, o
almeno così ha sempre pensato il barone. C’è tutto meno che la
tranquillità e
la remissione.
È
sempre segnato da una sorta di vivace ma non per
questo serena irrequietezza.
«
Signore…» l’ambasciatore richiama il barone con
una stizza che cerca invano di rimanere nascosta. Lui e suo figlio
ancora non
si sono parlati, il messaggero scalpita perché vuole portare a termine
il suo
dovere nel minor tempo possibile e non capisce perché quel bambino che
pare
essere sbucato dal nulla e non essere nulla
stia attirando così tanto l’attenzione del barone. Le donne invece
sanno bene
chi sia il nuovo arrivato, quelle più vecchie lo osservano con biasimo,
quelle
più giovani con un misto di confusione e preoccupazione. Si preoccupano
per lui
anche se non lo capiscono, perché è quello che devono fare, ma sanno
che non è
il loro compito controllare che il bambino non esca quando gli è
proibito. Loro
devono occuparsi quasi esclusivamente di Leowyn, per fortuna.
Il
messaggero, che nulla sa della vita nel castello
di Dunchester, si chiede anche come il bimbo possa permettersi di
osservare sia
lui stesso che il barone con quella fissità attenta e irriverente.
Il
barone non lo ascolta. Per una volta, non ha
voglia di mettere da parte i suoi desideri. Il suo volto potrà anche
essere
severo come sempre, ma il suo cuore trabocca di gioia e questo non può
ignorarlo, non dopo un viaggio che è sembrato così interminabile. Non
gli
sfugge, inoltre, la gioia dello sguardo di suo figlio nel rivederlo
dopo lungo
tempo.
Il
viso del bambino è molto sottile, tanto che il
barone può stringergli le guance tra le dita, con il pollice da una
parte e le
altre quattro dall’altra, che premono vicino all’orecchio. Lo vede nei
suoi
occhi, che si aspetta di essere rimproverato. E infatti qualunque altra
sera
suo padre non ci penserebbe due volte ad afferrare la verga. Se solo
pensa al
buio che c’è fuori dal castello, al vento pericoloso per chiunque non
abbia un
riparo sopra la testa, alla pioggia che col suo frastuono potrebbe
coprire
qualsiasi suono e infine al bambino che è uscito da solo, sente il
sangue
ghiacciarsi nelle vene dal terrore. Gli stringe di più la mascella, le
unghie
che incidono leggermente la pelle. Il bambino lo guarda con gli occhi
grandi e
senza paura.
Il
barone non sa se ha più voglia di abbracciarlo o
di prenderlo a schiaffi, e suo figlio sa che sarà punito, ma non gliene
importa,
il grigio dei suoi occhi risplende di
felicità
benché, capendo la situazione, eviti di sorridere apertamente.
«
C’è mio figlio sotto questo strato di fango?»
chiede freddamente Harald Martewall, severo.
Geoffrey
lo osserva senza mutare espressione, poi
accenna ad un sorrisetto impertinente, che sembra voler riservare solo
al
padre.
«
C’è lui, padre. » annuisce, e Harald sente il suo
mento pesare di più sulla mano.
Harald
è stanco. È troppo stanco per sgridarlo, lo
capisce in un mezzo sospiro. Ma se fosse solo colpa della stanchezza,
non si
sentirebbe così ben disposto. Per quella che è forse la prima volta,
non
punisce suo figlio perché non vuole farlo. Non vuole rovinare
quell’intesa tra
i loro sguardi, quel momento di comprensione che condividono spesso e
di cui
non potrebbe mai stancarsi, i piccoli gesti di Geoffrey per far
trasparire il
suo affetto anche quando ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare.
Come
l’appoggiare quasi impercettibilmente il mento
sul suo polso.
«
ora non è il momento adatto… » inizia Harald,
perché nonostante tutto non può dimenticare la paura di poco prima, la
sorpresa
e la sottile rabbia, e il vento fischiante non fa che ricordarglielo. «
della
tua nuova bravata parleremo domani. »
Si
volta per chiedere alle serve di preparare un
bagno al bambino, specificando che non serve che l’acqua sia calda. Se
non si è
ammalato sotto la pioggia scrosciante non si ammalerà di certo nella
grande
tinozza delle sue stanze.
Quando
si gira di nuovo verso suo figlio vede uno
sguardo diverso nei suoi occhi, una speranza infranta, e gli si stringe
il
cuore. Vorrebbe parlargli, avere tutto il tempo di farlo, confrontarsi
con lui
e anche rimproverarlo, magari, che sarebbe qualcosa di preferibile
rispetto a
quel vuoto di attenzioni.
Invece
lo osserva andarsene a capo chino, salutando
a voce bassa, e il messaggero deve richiamarlo due volte prima di
ricevere un
minimo di considerazione.
Non
è stata una serata piacevole come aveva sperato
quando ancora era in viaggio verso casa.
Quando
finalmente gli è possibile congedare il messaggero,
la mente di Harald è più ingombra di preoccupazioni di prima, le spalle
più
curve e il volto più teso e tirato. Per quanto riguarda il suo umore, è
ciò
che, più di tutto il resto, lo fa sentire stranamente debole e
impotente.
E
distante.
Distante
come non lo era mai stato, persino.
Distante dai suoi figli, da quei desideri che aveva sempre accantonato
con la
speranza che, un giorno, sarebbe stato ripagato di tutti i suoi sforzi.
Ma la
speranza era smorzata da poche, scarne gioie che lo appagavano
lasciandogli al
contempo il gusto della delusione nella bocca, dell’insoddisfazione. Lo
accontentavano quel poco che bastava per farlo andare avanti su una via
estremamente tortuosa.
Il
barone metteva tutta l’anima in ciò che faceva.
Perché era un uomo d’onore e di valore.
Ed
è strano come, quella sera, non senta nessun tipo
d’orgoglio, né quella sua costante decisione ferrea in ogni azione, ma
si senta
solo vuoto e stanco.
La
speranza ora lascia il posto a un piccolo dubbio.
A una piccola, sussurrata, confusa paura. Il tempo gli sta sfuggendo di
mano, e
lui deve fare di tutto per costruire dei ricordi che gli facciano
affiorare il
sorriso sulle labbra anche nei momenti più tetri.
Le
gambe lo portano da sole, non le muove un suo
preciso ordine.
Si
dirige deciso verso una direzione ben definita
nella sua mente, forse perché sa che lui è ancora sveglio, o forse
perché, tra
tutti, è la persona che gli somiglia di più. Sul suo volto vede la sua
stessa
forza idealista, la sua solitudine e qualcosa che Harald tenta
costantemente
d’afferrare e di capire. Qualcosa di così prezioso, da dover restare
nascosto
persino ai suoi occhi, il frutto di un amore viscerale. Come
se Geoffrey avesse sempre avuto, non
sapendo d’averla, una cura per ogni tormento di suo padre e il potere
di
sconvolgere la sua vita in una sola parola.
Harald
trova la luce debole delle candele che ancora
filtra dalla fessura sotto all’entrata. Spinge piano la porta,
osservando suo
figlio rimasto sopra alle coperte del letto in fondo alla stanza, i
capelli
asciugati da un panno che gli pende dalle spalle, il viso pulito, i
gomiti
sottili poggiati sulle ginocchia e una spada di legno sciupata tra le
mani. Ha
l’espressione seria di un piccolo soldato.
O
forse è solo quella di un bambino abbandonato che
non vuole dare a nessuno la soddisfazione di vederlo imbronciato.
Harald
si avvicina e si sente come se un grande peso
gli sia stato appena levato dalle spalle quando incrocia il suo
sguardo. Si
sente felice e dispiaciuto al tempo stesso, perché quello scambio
silenzioso è
durato un solo istante ma è bastato per fargli capire che c’è sempre
qualcosa
che Geoffrey non gli perdona.
A
volte dimentica che è solo un bambino.
Perché
Geoffrey è così… strano, complesso, e i suoi occhi
sono così grandi, da far dimenticare che anche lui è
un bambino. Non come gli
altri, forse. Ma soffre nell’essere imprigionato a metà strada.
Harald
si siede sul letto, e vorrebbe costringerlo a
guardarlo e a rivolgergli uno di quei suoi sorrisi così belli, ma sa
che non
basterà il poco che sarebbe sufficiente con chiunque altro per
riuscirci. Con
Geoffrey non sono mai bastate le promesse vuote, lui vuole spiegazioni.
Il
barone gli tocca la spalla spingendolo
leggermente all’indietro. Allora il bambino alza lo sguardo su di lui
con una
muta domanda nella testa, quella testa che osserva e pensa scavando
nell’essenza delle cose, si scosta una ciocca di capelli castani dagli
occhi.
Harald
è così felice di essere lì, di vedere le sue
iridi brillare di fronte al suo sorriso. È così felice di poter di
nuovo stare
vicino a lui, di sapere che l’indomani si preoccuperà di nuovo e si
arrabbierà di nuovo. Gli passa una mano tra i capelli
spettinati con l’affetto che dimostra poche volte.
«
Vuoi che ti racconti cosa ho fatto in tutto questo
tempo? » chiede, la voce profonda e scura.
Geoffrey
lo osserva confuso e stupito, stringendo le
labbra.
«
Non siete arrabbiato?»
Harald
sorride debolmente e scuote la testa. Oramai
la rabbia è svanita e non è venuto per rimproverare suo figlio, ma
perché ha
bisogno della sua vicinanza. Per questa volta Geoffrey può scamparla.
«
E tu?»
Geoffrey
sembra pensarci per un momento, poi scuote
la testa.
«
Bene…» sorride Harald, preparandosi a raccontare
una storia a suo figlio come non l’ha mai fatto prima, scoprendo di non
essere
poi tanto scarso nel provarci. Alterna racconti veri a momenti più
avventurosi,
sorvola sulle lunghe discussioni politiche e fa apparire la sua storia,
vera
solo per metà, più magica ed eroica di quanto sia in realtà, sapendo
che suo
figlio penderà dalle sue labbra con gli occhi sbarrati dalla sorpresa.
Perché,
non ci sono dubbi, è giusto che sia così.
Quello
è il loro personale momento di magia.
*
Harald
Martewall era arrivato da tempo a un punto in
cui non poteva far altro che vederlo tornare sapendo che se ne sarebbe
andato dopo
poco tempo. È una delle conseguenze della guerra, una di quelle che
nella sua
famiglia si accetta oramai con una certa rassegnazione. Ma non questa
volta.
Questa volta, qualcosa è cambiato. Forse Harald non ha mai fatto i
conti con la
realtà prima d’ora, non ha mai messo in conto che suo figlio potesse
non
tornare.
Il
sollievo di sapere che è vivo lascia presto il
posto alla paura.
Fin da quando
suo figlio era solo un bambino, il barone sapeva che, pur potendo
scegliere una
strada diversa da quella militare, Geoffrey sarebbe diventato un uomo
d’arme.
Era
lampante, il suo talento con la spada, ma vi era
anche qualcosa di più profondo che rimaneva immutabile nell’espressione
del suo
viso, tra i tratti schietti del ragazzino che sarebbe diventato il
bell’uomo
che desiderava così ardentemente tornare a vedere.
Il
suo destino si poteva percepire nelle sue
risposte secche, nello sguardo penetrante e talvolta distante, nella
cupa
sofferenza dei suoi occhi di fronte alla salma del fratello.
Harald
chiude gli occhi con dolore. Pensare di poter
perdere quel giovane cavaliere, di cui è così fiero, che è stata la
cosa più
preziosa che abbia mai posseduto… è insopportabile.
Il
barone si sforza di accantonare per un momento i
ricordi, i pensieri, tutto quello che gli porta a far perdere lo
sguardo oltre
le finestre, in mezzo alla pioggia incessante che gli ricorda un
momento ben
preciso passato con suo figlio.
«
Signore, gli esattori del re sono qui. »
Quanto
ci sarebbe voluto per mettere insieme
abbastanza denaro da pagare il suo riscatto e farlo tornare a casa?
Harald
stringe i pugni furiosamente. Non c’è nulla che non potrebbe fare pur
di
riaverlo , là dove si trova il suo legittimo posto. Eppure suo figlio è
ancora
in Francia, in una prigione, e può solo ringraziare che non sia morto.
«
Signore…?»
Harald
volta di scatto la testa verso Kerwick ed
Ewen, li scruta come se volesse bruciarli con lo sguardo. Perché il
barone vorrebbe
distruggere ogni cosa, con la stessa furia appassionata di suo figlio,
come
oramai la vecchiaia e la malattia gli impediscono di fare. Sente un
oppressivo
senso di impotenza al pensiero di essere quasi completamente bloccato
su uno scranno,
mentre suo figlio soffre in una prigione e lui non può fare altro che
abbandonarlo perché, nonostante tutti i suoi sforzi, non viene mai
raggiunta
una cifra sufficiente per i francesi.
I
due cavalieri abbassano lo sguardo con una tetra
consapevolezza negli occhi. Harald osserva molto attentamente il più
giovane,
con freddezza.
Sa
chi è, sa che soffre per l’assenza di Geoffrey,
che è cresciuto dietro alle sue stesse mura e che ha sempre ammirato da
lontano.
Eppure il barone è convinto che nessuno possa capire cosa stia provando
lui
stesso.
«
Perdonatemi se non vi ho prestato attenzione. »
sbotta, con un gesto scontroso della mano. I due cavalieri rialzano a
fatica lo
sguardo. Kerwick non riesce a guardarlo in viso.
«
Chiediamo perdono, signore, per avervi disturbato.
Gli esattori sono insistenti. » dice Ewen, nascondendo senza troppa
convinzione
un astio che il barone condivide con tutta l’anima.
Harald
sposta lo sguardo sul tributo, racchiuso in
una cassa, che avrebbe dovuto cedere al Senza Terra. Stringe le dita
sul
bracciolo del suo scranno.
«
Che Dio mi fulmini se sarò ancora così debole… »
mormora con rabbia e dolore.
Sorride
appena pensando alla scelta che ha preso. Sa
che Geoffrey non sarebbe d’accordo, non subito. Ma sta facendo
esattamente
quello che il bambino con la spada di legno in mano si aspetterebbe dal
suo
eroe.
*
Harald
non si era decisamente aspettato questo.
Non
si era aspettato di provare una tristezza così
profonda, nel perdersi nel buio sconosciuto dei suoi occhi. Gli erano
sempre
sembrati senza fondo, indefiniti come i pensieri indecifrabili al loro
interno
e allo stesso tempo terribilmente presenti, pronti a dimostrare quanto
valessero, quanto tutto ciò che avevano passato li avesse resi più
forti, più
freddi, più sicuri.
Ciò
che vede Harald in quel momento è collera, una
collera bruciante. Il suo desiderio di distruzione e di violenza non è
mai
stato così bruciante e così difficile da tenere a freno anche,
soprattutto, per Geoffrey stesso.
E
Harald, quando mormora che non riesce a
riconoscerlo, quando pensa che non è suo figlio che sta pronunciando
quelle
parole spietate, non mente. E come ogni volta che non si mente per
amore, il
dolore è indescrivibile.
Si sente
improvvisamente molto, molto stanco, quando il muro di risentimento di
Geoffrey
gli piomba addosso insieme alla sua stessa vecchiaia. La consapevolezza
di
essere il destinatario di tanto odio, di essere il creatore
inconsapevole di
tutti quei pensieri che Geoffrey gli ha sbattuto in faccia senza pietà,
arriva
come una pugnalata al petto.
Per
un attimo vacilla. Stringe più forte il bastone.
Eppure
c’è qualcosa nei gesti di Geoffrey, come un
ombra tra i tratti del suo volto, che gli fa capire che suo figlio non
è del
tutto perduto. Che forse il peggiore dei suoi timori non si è avverato.
Ma
è testardo, il suo solitario terzogenito, lo è
soprattutto quando è arrabbiato, o quando è deluso, e purtroppo crede
di avere
tutti i motivi per esserlo, a causa della condizione che Harald si è
trovato
obbligato ad imporgli. Con un'altra guerra alle porte dopo cinque
lunghi mesi
di prigionia.
Geoffrey
si sta sforzando di trovare una nobiltà
nelle sue azioni che non sente più di avere, che gli viene negata dai
suoi
impulsi, dal suo agire con una fredda lucidità al fine di rimettere a
posto la
sua vita piena di contraddizioni. Harald sente il forte bisogno di
salvarlo da
qualcosa di troppo inconsistente per essere sconfitto e non si è mai
sentito
così impotente.
La
decisione si presenta come una sferzata d’aria
gelida.
È
questo il momento di mostrare tutta la sua forza,
prima che Geoffrey arrivi ad essere troppo lontano da lui.
Gli
fa terribilmente male vedere quanto la guerra
l’abbia cambiato. Eppure, se ci riflette, avrebbe dovuto aspettarsi
l’arrivo
del momento in cui Geoffrey avrebbe cominciato a dubitare di se stesso,
a
perdersi in una voglia di vendetta ingiusta e camuffata da
qualcos’altro, a non
perdonarsi con una crudeltà sofferente.
Gli
fa male anche vederlo rimanere fuori dalle mura,
preso da un accecante senso d’abbandono, in balia dei nemici che
continua a
fronteggiare con un coraggio folle. Cosa cerca, per la prima volta lo
vedi nei
suoi occhi che sono ancora un enigma, quando il conte francese lo tira
a forza
al riparo.
Geoffrey
vuole l’oblio della guerra, e cerca la pace
con l’irrequietezza di qualcuno che non saprebbe come comportarsi dopo
averla
trovata. Geoffrey vuole vendetta per la sua sicurezza di sé che è
andata
distrutta, vuole lottare per tornare in superficie ma il peso della
consapevolezza di quel che crede d’essere lo trascina sempre più a
fondo.
Geoffrey vorrebbe che per una volta tutto fosse semplice, ed affronta
con forza
i suoi demoni.
Forse,
per un breve istante di quel tempo folle in
cui è rimasto solo, con i soldati che gli gridavano di superare il
cancello,
ignorando ogni voce ha perfino desiderato che arrivasse il colpo
fatale.
Geoffrey
si trascina dietro il suo inferno ad ogni
passo.
*
Lo
ama con un diverso tipo d’amore.
O
forse è più corretto dire che non ha mai amato
nessuno, come ha amato lui. Perché dovrebbe nasconderlo a se stesso?
Non
ha smesso un istante di essere fiero di lui. E
vorrebbe solo che lui lo sapesse, che capisse che suo padre non lo ha
mai
accusato di nulla. Ricorda la loro strana connessione, che apparteneva
solo a
loro e non si poteva descrivere perché non vi erano al mondo parole
così eterne
e flessibili.
E
questo padre così orgoglioso morirebbe con la pace
nel cuore se sapesse che suo figlio è vivo e sta bene, e la sua anima
ha smesso
una volta per tutte di sanguinare. Ma gli è stata negata anche quella
pace, e
sa che sentirà nella tomba la disperazione di Geoffrey, quel figlio che
era
partito per salvarli tutti.
Quel
figlio che Harald non avrebbe mai, mai voluto mandare
nelle mani dei nemici
come ostaggio. La vita era stata spietata con entrambi.
La
sua unica consolazione è sapere che, anche se
Geoffrey non lo sa, il futuro barone non ha bisogno di lui. Anche se
forse
cadrà di nuovo, si rialzerà, e non perderà se stesso.
E
mentre Harald guarda sua figlia cercando di farle
coraggio, sapendo che almeno lei sarà protetta, ricorda le ultime
parole che ha
detto a Geoffrey e vuole innalzarle al cielo come una preghiera.
Sei
un cavaliere e un uomo d’onore…
Il
boia alza la scure.
…
non metterlo mai più in dubbio.
Angolo
di Tacet
Oh.
Ho
finito. Ok. Non so perché ci ho messo così tanto a decidermi
per scrivere questo capitolo, scusate. La mia musa ispiratrice è perennemente
in sciopero. Comunque, ci siamo, e punto in alto con Harald. Uhm, che
dire… non
l’ho affatto riguardato, anzi, l’ho finito proprio ora, in più il mio
orologio
biologico ha cambiato i suoi schemi e quindi ora ho stranamente sonno… ;) penso e spero comunque di non aver fatto
errori di grammatica, nel caso contrario, mi raccomando, non esitate a
dirmelo.
Altre
cose, altre cose… perdonate il capitolo melenso. non mi
dilungo sulla mia insoddisfazione. E spero di non essere andata troppo
OC. e lo
so che ho privilegiato, attraverso lo sguardo di Harald, Geoffrey
rispetto agli
altri figli, ma pazienza, vero? O.o
Oggi
Jerome non c’è, per fortuna, dorme anche lui.
Scusate
ancora per l’imperdonabile ritardo, mi dispiace! se
riesco a breve mi faccio perdonare ;)
Ciao!!!