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Autore: Princess Of Marshmallows    04/10/2015    2 recensioni
{ • TASSATIVAMENTE VIETATA AGLI STOMACI DEBOLI | psycho!Ticci-Toby | abusi sessuali | torture fisiche e psicologiche | prigionia | bipolarismo | C.I.P.A. | allucinazioni }
“Doveva essersi assopita, perché non si era resa conto dei passi che si avvicinavano sempre di più alla sua stanza, ma quando sentì la porta aprirsi di scatto si svegliò immediatamente, e la luce l’abbagliò per qualche secondo.
Sapeva che sarebbe venuto. La figura si avvicinò a lei lentamente, mentre la ragazza voltò lo sguardo dalla parte opposta mentre si sentiva mancare il fiato dalla paura. Nella sua mente ritornarono nuovamente a galla le immagini di quella mattina. Cominciò a tremare e a battere i denti per il terrore quando sentì i suoi guanti di pelle neri poggiarsi sulla sua gamba.
«Hai paura? È così brutto stare con me?», domandò all’improvviso, facendola sussultare.”

Per il mondo Anastasia Hamilton è morta il sei ottobre duemilatredici nel genocidio di Denver.
Nessuno sa che è ancora viva e si è ritrovata costretta a subire giornalmente torture di ogni tipo.
• Storia precedentemente intitolata "Hopeless Children of the Lonely Night".
Genere: Angst, Dark, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jeff the Killer, Lyra Rogers, Nuovo personaggio, Slenderman, Ticci Toby
Note: Lemon, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate
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Settembre passò spaventosamente in fretta

Part I

Chapter V

La casa di vetro

 

 

Sarà capitato anche a te di sentirti osservato, di voltarti e di constatare che effettivamente qualcuno ti stava guardando.”

Anonimo

 

 

Settembre passò spaventosamente in fretta. Anastasia fece del suo meglio per relegare l’intera faccenda in un angolino della mente e pensare solamente a divertirsi come suo solito, ma più il weekend si avvicinava, più faceva fatica. Restava fuori casa fino a tardi, si ubriacava fino a poter quasi raggiungere il coma etilico nella speranza di riuscire a dormire, ma non appena poggiava il capo sul cuscino i pensieri ritornavano. Malcolm Wilford. Dopo tutto quello che era successo. E se stesse per commettere uno sbaglio colossale?

Se non fosse stato per Diane si sarebbe certamente tirata indietro, ma, in un modo o nell’altro, giunto il ventisette settembre, eccola lì, con la valigia rosa shocking tra le mani mentre il suo autista personale la aiutava a scendere dalla macchina. Fu subito accolta da un freddo aspro mattino della periferia di Denver, con Diane al suo fianco intenta a fumarsi una sigaretta rollata a mano, brontolando mentre la rossa aveva appena terminato la sua e stava ordinando un caffè al chioschetto della stazione.

Quella sarebbe dovuta essere una mattinata allegra, spensierata, elettrizzante. Non avrebbero dovuto fare altro che parlare della festa e di quanto stratosferica sarebbe stata. Avrebbero dovuto informarsi meglio sui ragazzi presenti, cercarli su Facebook e vedere se fossero carini. Avrebbero dovuto scambiarsi pareri sui vestiti che indossavano in quel momento e su quelli che avrebbero indossato durante i giorni successivi, avrebbero dovuto chiedersi come attirare l’attenzione di tutti e fare le pazze. Come tutte le altre volte che dovevano andare a qualche evento.

Ma nulla tutto ciò avvenne. Era come se volessero sviare l’argomento. Tra le due era presente una tensione palpabile, ma nessuna delle due avrebbe saputo spiegarsi il motivo preciso.

Erano agitate e basta.

 

«Vuoi guidare tu?*», domandò Anastasia mentre gettavano le valigie nel bagagliaio della Mercedes noleggiata. Avrebbero potuto andarci nella sua – di macchina – ma la rossa ci teneva troppo e detestava portarla da qualche parte fuori città. Diane si strinse nelle spalle, per poi sbottare di colpo.

«Cazzo!», esclamò visibilmente innervosita, passandosi una mano tra i capelli corti e scuri. «Vedi, è che ‘sta festa mi sta stressando come non mai. Allora stamattina mi sono bevuta un po’ di gin tonico per calmarmi. Mi dispiace, Ana».

«Non c’è bisogno che ti dispiaccia», sistemò le gambe nel posto di guida, segretamente tranquillizzata dal fatto che non fosse l’unica a sentirsi così male per uno stupido compleanno. Chiuse con forza lo sportello e accese il motore. «Non avrei comunque voluto farmi scorazzare da te in ogni caso. La nostra guida è come un karaoke: il mio è epico, il tuo è solo imbarazzante o allarmante».

A quelle parole Diane scoppiò in una risata fragorosa. «Ma se quando canti sei stonata come una campana!».

«Una campana molto sexy», precisò Anastasia, ammirando il proprio nello specchietto retrovisore e facendosi l’occhiolino. L’amica roteò gli occhi, vagamente divertita dal narcisismo dell’amica.

«Comunque sì, effettivamente guidare non fa per me. Infatti di solito prendo il tram per andare in giro».

«Buon per te», disse la rossa non sapendo bene come rispondere.

Diane guardò fuori dal finestrino mentre l’altra inseriva la marcia. Fecero un breve giro a zigzag del parcheggio, prima di capire come uscirne.

Durante la guida la bruna notò che l’amica le stava lanciando occhiate in tralice, ed improvvisamente le indicò con un cenno della testa il navigatore satellitare.

«Accendi quell’aggeggio, per piacere, e inserisci il codice postale che ci ha dato Ashley. È la nostra unica speranza di uscire vive da Denver».

 

I cartelli segnaletici di vari paesini nei pressi di Denver balenavano fuori dal finestrino creando un’immagine quasi poetica, la strada si snodava come un nastro grigio su e giù dalle colline su cui brucavano le pecore. Il cielo era plumbeo e pesante, e le piccole costruzioni in pietra che a tratti sfilavano accanto alle due sembravano discretamente seminascoste, quasi si vergognassero di essere notate. Diane non doveva darle indicazioni – dato che ci stava pensando il navigatore – e siccome leggere in macchina le aveva sempre dato la nausea, chiuse gli occhi per tagliare fuori Anastasia ed il rumore della radio, rimanendo da sola nella sua testa con le domande le quali non riusciva a smettere di porsi.

Che cosa hai mente, Mal?

Perché hai deciso di festeggiare il tuo compleanno in un posto così lontano da tutto e da tutti? E con così poche persone? Come fai a conoscere Emily? Non ricordavo che vi foste mai conosciuti. Hai davvero invitato Anastasia per il motivo che mi hai scritto in chat? Ci hai pensato davvero?

Guardò la sua amica: chissà come avrebbe reagito quando Malcolm gliel’avrebbe detto. Sperava davvero che la prendesse bene. In fondo erano passati più di dieci anni. Ormai non avrebbe avuto senso arrabbiarsi con lui.

Mal, qual è il vero scopo di questa festa?

Immaginò il suo ex ragazzo che scuoteva la testa ammonendola di avere pazienza, di aspettare. Gli erano sempre piaciuti i segreti. Il suo passatempo preferito era scovare qualcosa su qualcuno e poi fargli cenno di tanto in tanto. Non divulgarlo, no, bensì limitarsi a dei velati riferimenti durante la conversazione, cenni talmente sfumati che solo il diretto interessato e lui avrebbero compreso. In modo da fargli capire che lui sapeva.

 

Si fermarono in un autogrill per il pranzo e una pausa sigaretta, dopodiché si rimisero in viaggio verso il bosco, dove le strade si trasformarono in sentieri di campagna e il cielo sopra le due amiche diventò immenso. Man mano che la carreggiata si restringeva, gli alberi sembravano farsi sempre più vicini sul manto d’erba ben rasata che ricopriva il terreno torboso, finché non se li ritrovarono direttamente al loro fianco, simili a sentinelle sul ciglio della strada, da cui li separava solo un sottile muretto di pietre a secco.

All’ingresso del bosco vero e proprio, la copertura del navigatore satellitare si affievolì, poi l’apparecchio smise di funzionare del tutto.

Anastasia cacciò uno strillo snervato, per poi corrugare la fronte e sbuffare: «Che palle».

«Aspetta un attimo, Ana», disse l’amica frugando nella borsa. «Ho stampato la piantina che mi ha inviato Ash via e-mail».

«Caspita, vorrà dire che ti nominerò Girl Scout dell’anno», ironizzò, ma la bruna colse una nota di sollievo nella sua voce. «Cosa c’è che non va nell’iPhone, comunque?».

«Ecco cosa c’è», le mostrò il proprio telefono che continuava a funzionare a tratti, impossibilitato a caricare le mappe da Google. «Scompaiono da un momento all’altro». Guardò le pagine stampate. La Casa di Vetro, c’era scritto nell’intestazione di ricerca. Stanebridge Road. «Okay, tra poco ci sarà una svolta a destra. Una curva e poi una svolta destra, deve essere vicinissima…», la traversa passò accanto alle due e Diane commentò, in un tono tutto sommato neutro: «Era quella, l’abbiamo mancata».

«Ma che cazzo di navigatore sei?», sbottò Anastasia.

«Cosa?».

«Dovresti indicarmi una svolta prima di arrivarci, sai», ribatté imitando la voce metallica del navigatore satellitare. «girare a sinistra tra – cinquanta – metri. Girare a sinistra tra – trenta – metri. Faccia inversione non appena sarà prudente, ha saltato la svolta».

«Beh, allora fa’ inversione non appena sarà prudente, bella mia, hai saltato la svolta».

«’Fanculo alla prudenza», Anastasia schiacciò con forza il pedale del freno e fece una nervosa inversione di marcia in tre manovre in corrispondenza di una curva successiva. Diane chiuse gli occhi, aggrappandosi al sedile, fino a ficcare le unghie al suo interno.

«Che cosa stavi dicendo a proposito del karaoke?».

«Ma dài, guarda che è una strada senza uscita. Non stava arrivando nessuno».

«A parte gli altri invitati alla festa», aprì gli occhi con una certa cautela e scoprì che stavano ripartendo a tutta birra nella direzione opposta.

«Okay, è qui. Sembra un viottolo di campagna, sulla cartina, ma Ash lo ha segnalato ben bene».

«È veramente un violottolo!».

Una brusca sterzata e l’auto attraversò sobbalzando il varco tra il fogliame, per poi cominciare ad inerpicarsi su per un sentiero accidentato e fangoso.

«Credo che il termine tecnico sia “strada sterrata”», disse Diane con un filo di voce, mentre Anastasia girava intorno ad una fossa piena di melma che aveva più le sembianze di un abbeveratoio per ippopotami, dopodiché svoltò di nuovo alla curva successiva. «Che sia questo il vialetto d’accesso? Sarà lungo quasi un chilometro».

Erano arrivate all’ultima pagina che la bruna aveva stampato, talmente grande, stavolta, che si trattava praticamente di una foto aerea, su cui non era contrassegnata nessuna casa.

«Se questo è il loro vialetto privato», disse Anastasia, con la voce che sobbalzava al rimo dei solchi sulla strada. «dovrebbero fargli un po’ di manutenzione, porca puttana. Se si rompe il telaio dell’auto noleggiata, io faccio causa a qualcuno. Non m’importa chi, ma col cazzo che pago i danni».

«Ma se tuo padre ti dà una paghetta di quindicimila dollari al mese! Eddai Ana, non fare la tirchia».

«Non sto facendo la tirchia!», strillò quella innervosita. Diane roteò gli occhi. «Nella vita bisogna sempre farsi rispettare. Se ti rompono qualcosa, la pagano loro. Chissenefrega se c’hai i soldi che ti escono dal culo».

Ed ecco che, superata l’ultima curva, scoprirono di essere arrivate. Anastasia superò uno stretto cancello, parcheggiò e spense il motore, poi scesero entrambe, fissando sbalordite la casa che si parava dinanzi.

Non sapevano bene cosa si aspettassero, ma di certo non quello. Un cottage dal tetto di paglia, magari, con tanto di travi in legno e soffitti bassi. Ciò che invece si ergeva in mezzo alla radura nel bosco era una straordinaria accozzaglia di vetro e acciaio che sembrava essere stata tirata su a casaccio da un bambino che si fosse stancato di giocare con i soliti mattoncini. Appariva così fuori posto che le due se ne restarono lì impalate a guardarla, a bocca aperta dallo stupore.

Quando la porta si aprì ebbero una fugace visione di luminosi capelli biondi e di qualche chilo di troppo, e provarono una sensazione di panico totale. Era tutto un errore, non sarebbero mai dovute venire, ma ormai era tardi per tornare indietro.

«Ehilà!!!», esclamò la figura con un tono da tre punti esclamativi, e allora compresero che non poteva che non poteva trattarsi che di Ashley. Si avvicinò alle ragazze, per poi urlare euforica: «Santo Cielo! È davvero fantastico vedervi qui! Voi dovreste essere…».

Spostò lo sguardo da Diane ad Anastasia, e scelse l’alternativa più facile: “la bella Anastasia”, con il viso fin troppo truccato per l’occasione, gli abiti scollati, i capelli lunghi e lucenti ed il corpo da modella. Diane alzò per qualche attimo gli occhi al cielo.

«Anastasia Hamilton, giusto?».

«In persona», confermò tenendole la mano. «Ma puoi chiamarmi anche Ana, se ti fa piacere», le regalò uno dei suoi sorrisi falsi migliori. «E tu dovresti essere Ashley, se non sbaglio».

«Certosamente!».

Anastasia lanciò a Diane un’occhiata come per sfidarla a non ridere, ed in effetti l’amica dovette trattenere una risata. Era impossibile credere che qualcuno dicesse davvero “certosamente”, perché in tal caso gli avrebbero fatto perdere l’abitudine a forza di cazzotti a scuola o a furia di sghignazzate all’università. Ma magari Ashley era fatta di un materiale più resistente.

La bionda strinse la mano ad Anastasia, per poi rivolgersi alla ragazza dai capelli bruni al suo fianco, accogliendola con un sorriso radioso.

«Oh mamma, allora tu devi essere per forza Didì!».

«Diane», rispose di riflesso.

«Diane?», aggrottò le sopracciglia, confusa.

«Il mio nome è Diane Courtney», soggiunse. «Mal è abituato a chiamarmi Didì, ma dalle altre persone, come ti avevo scritto via messaggio privato, preferisco solo Diane».

Nel suo profondo aveva sempre detestato essere Didì. Era un nome da animaletto domestico, che dava adito a prese in giro e strane rime. Didì via di qui, se ti scappa la pipì.

Didì era morto e sepolto da un pezzo – a meno che non riguardasse Malcolm – o almeno questo era quello che sperava.

«Oh, ma certo! Io ho una cugina che si chiama Diane! Noi la chiamiamo Diaz».

Diane cercò di nascondere un sussulto.

Diaz proprio no. Mai Diaz. Solo una persona, nella vita, l’aveva chiamata così.

La pausa si prolungò, finché Ashley non la interruppe con una risata un po’ fragile.

«Ah! Giusto. Okay. Beh, comunque vedrete che ci divertiremo un sacco! Mal non è ancora arrivato, ma in qualità di organizzatrice di questa festa mi è sembrato mio dover arrivare qui per prima ad accogliervi».

«Quali orrende torture hai in programma di infliggerci, dunque?», domandò Anastasia mentre trascinava la valigia oltre la soglia di casa. «Mutandine con la P di principiante? Boa di piume di struzzo? Cazzi di cioccolato?».

Ashley fece un risolino nervoso. Guardò la bruna, poi di nuovo la rossa, cercando di capire se stesse scherzando. Anastasia aveva un modo di porsi difficile da decifrare, per chi non la conosceva, e ricambiò il suo sguardo tutta seria: Diane si rese conto che l’amica si stava chiedendo se fosse il caso di aumentare la presa.

«Carina…ehm…la casa», disse Diane cercando di cambiare discorso, anche se in realtà “carina” non era l’aggettivo più adeguato. Nonostante gli alberi che fiancheggiavano l’edificio, il posto sembrava terribilmente esposto, e l’ampia vetrata della facciata era un invito a guardarci dentro a tutta la valle. Inquietante, l’aggettivo più adatto era decisamente inquietante. Si sfiorò le braccia, incerta. Si sentiva osservata, come se ci fosse qualcuno dietro agli alberi che la stesse spiando. Si domandò se anche la rossa sentisse la stessa sensazione.

«Vero che è graziosa?», ribatté raggiante Ashley, sollevata di trovarsi di nuovo in acque sicure. «In realtà è di mia zia, la usa per le vacanze, ma d’inverno non ci viene spesso…è troppo isolata», fece una breve pausa, per poi continuare. «Alle medie e soprattutto al liceo io e Mal passavamo sempre qui almeno due settimane, durante l’estate. Ci siamo divertiti un sacco, rimanevamo per molto tempo a fissare il bosco dalla vetrata. Beh, poi io mi sono dovuta trasferire a Boulder e non ci siamo più andati… Oh! Comunque il soggiorno è per di qua…», disse mentre attraversavano un atrio altissimo ed echeggiante che dava su un lungo stanzone dal soffitto basso, la cui parete opposta era interamente di vetro, rivolta verso il bosco.

Anastasia lanciò una veloce occhiata colma di insicurezza a Diane, la quale percepì alla perfezione e ricambiò. La rossa si sentiva eccessivamente denudata, in un posto del genere: un po’ come essere sul palcoscenico di un teatro, intenti a recitare la propria parte di fronte a una platea di occhi nascosti là fuori tra gli alberi. Con un brivido voltò la schiena al vetro, per poi guardarsi intorno. Nonostante i grandi e soffici divani, quel luogo sembrava stranamente spoglio, e dopo una decina di secondi comprese il perché. Non era solo l’assenza di disordine e l’arredo minimalista – due vasi sopra il caminetto, un unico dipinto di Turner appeso al muro – bensì il fatto che non ci fosse nemmeno un libro in tutta la stanza. Non dava proprio la sensazione di essere una villa per le vacanze: in qualsiasi altro posto fosse stata c’era sempre qualche vecchio volume di Dan Brown o di Agatha Christie. Questo posto ricordava più che altro uno show-room. O un palcoscenico, appunto.

«La linea telefonica fissa lì», Ashley indicò un telefono a disco dell’aria piuttosto vintage, che risultava curiosamente stonato in un ambiente così moderno. «Non c’è campo sui cellulari o sui computer, perciò usatelo pure».

Più che dal telefono, tuttavia, lo sguardo di Anastasia fu attirato da un oggetto che appariva ancora più fuori luogo: un fucile ben lucido appoggiato a dei sostegni di legno fissati sopra il muro sopra la mensola del caminetto. Sembrava quasi che fosse stato dimenticato da qualche cacciatore. Chissà se funzionava.

Rendendosi conto che Ashley stava ancora parlando, si sforzò di distogliere lo sguardo.

«…e al piano di sopra ci sono le camere da letto», terminò. «Volete una mano con i bagagli?».

«No, grazie, posso farcela da sola», rispose Diane, proprio mentre Anastasia sorrise beffarda e disse: «Beh, se proprio insisti…».

Ashley parve colta alla sprovvista ma, fattasi coraggio, prese l’enorme valigia a rotelle di Anastasia e cominciò a trascinarla su per gli scalini.

«Sei crudele», le sussurrò Diane, ricevendo in tutta risposta una semplice e divertita alzata di spalle.

 

«Come stavo dicendo», ansimò una volta svoltato l’angolo della prima rampa. «ci sono quattro stanze da letto. Ho pensato che io ed Emily ne occuperemo una, voi due un’altra e Malcolm e Felix un’altra ancora, savandisìr**».

«Savandisìr», le fece eco Anastasia tutta seria, mentre Diane era troppo impegnata per elaborare l’informazione che avrebbe dovuto condividere la stanza con una persona così disordinata come la sua amica; sperava fino all’ultimo che sarebbe riuscita ad ottenere una stanza tutta per sé.

«Perciò rimarrebbe soltanto Tyl – voglio dire Tyler – che se ne starebbe da solo. Siccome lui e il suo fidanzato hanno adottato da poco un bimbo di sei mesi, secondo me tra tutti noi è quello che ha più diritto ad una stanza tutta per sé!».

«Cosa? Non è che il marmocchio se lo porta dietro, vero?», Anastasia si mostrò sinceramente allarmata. Ashley si sganasciò dal ridere e poi si mise la mano sulla bocca, imbarazzata, per soffocare il rumore.

«No! È solo che, capite, magari avrà più bisogno di noi di una notte di riposo».

«Ah, meno male», Anastasia sbirciò dentro una delle stanze. «Qual è la nostra allora?».

«Le due sul retro sono le più grandi. Tu e Didì potete prendere quella a destra, se volete, ci sono due letti singoli. Nell’altra invece c’è un letto matrimoniale, però Mal ha detto che non ha problemi a condividerlo con Felix».

Si fermò ansimante sul pianerottolo ed indicò con un gesto una porta di legno chiaro sulla destra.

«Ecco qui».

Dentro erano presenti in bella mostra due lettini bianchi ed ordinati, accompagnati da una toeletta con specchiera, il tutto anonimo come in una camera d’albergo, e – giusto di fronte  ai letti – la solita raccapricciante parete di vetro rivolta a nord in direzione del bosco di pini. Qui era ancora più difficile da capire, questa faccenda del vetro. Poiché sul retro la casa era appoggiata su un terrapieno, non c’era la vista spettacolare che si godeva sul davanti. Anzi, l’effetto era più che mai claustrofobico: un muro verde scuro che si stava già sfumando verso la tenebra, ora che il sole era tramontato.

Ai lati stavano raccolte pesanti tende color crema, e le due dovettero frenare l’impulso di tirarle con uno strattone per coprire l’enorme distesa trasparente.

Dietro di loro Ashley lasciò cadere a terra con un tonfo la valigia di Anastasia. Diane si girò e la bionda le rivolse un sorriso luminosissimo che la fece apparire tutto ad un tratto quasi carina.

«Avete delle domande?».

«Sì», replicò Anastasia, visibilmente seccata da tutte quelle pareti di vetro. Perché si sentiva osservata? «Qui dentro si può fumare?».

Ashley assunse di colpo un’espressione dispiaciuta.

«Purtroppo mia zia non vuole che si fumi in casa. Però lì c’è un balcone», armeggiò per qualche istante con una porta scorrevole nella parete di vetro, riuscendo alla fine a spalancarla. «Puoi fumare qui, se vuoi».

«Buono a sapersi», si limitò a proferire Anastasia con tono altezzoso.

Dopo aver lottato di nuovo con la porta, Ashley la richiuse. Si raddrizzò, rossa in volto per lo sforzo, pulendosi le mani sui jeans.

«Perfetto! D’accordo, adesso vi lascio disfare i bagagli. Ci vediamo di sotto, sì?».

«Certosamente!», esclamò entusiasta Anastasia, e Diane cercò di coprirla con un: «Grazie!» a voce più alta del necessario, risultando stranamente aggressiva.

«Uhm, già. Okay», concluse Ashley incerta, poi indietreggiò verso la porta e uscì.

«Ana…», disse Diane in tono di avvertimento, mentre lei attraversava la stanza per guardare il bosco là fuori.

«Che c’è?», domandò girandosi appena, distratta. E poi soggiunse: «Dunque Malcolm, Felix e Tyler devono essere decisamente dei maniaci sessuali, a giudicare da quanto Ashley sia determinata a tenere separati i loro furibondi cromosomi di tipo Y dalle nostre delicate parti femminili».

Diane non poté fare a meno di sbuffare divertita. D’altronde era sempre così, con la rossa: riusciva sempre a farla franca in situazioni che per altri risulterebbero imperdonabili.

«Beh, senza contare che Tyler probabilmente è gay, non credi?», commentò Diane mentre trascinava la sua valigia, senza notare che lo sguardo dell’amica si era fatto improvvisamente serio. «È fidanzato con un uomo e hanno anche adottato un bambino, anche se Ash ha detto che l’ha messo nella camera singola perché–».

«Diane», la interruppe la rossa, con un tono di voce mediamente riflessivo. «Non lo trovi strano?».

«Cosa dovrei trovare strano?», domandò, cercando di far suonare la sua voce leggera ed indifferente.

Anastasia si passò le mani tra i capelli, scompigliandoseli. «Oh, insomma!», sbuffò. «Tutto! Tutto è strano!», esclamò, per poi iniziare a contare sulle mani. «Questa casa, gli alberi là fuori, il fucile nel soggiorno, quella cicciona di Ashley, l’improvvisa gentilezza di Wilford nei miei confronti, il fatto che Emily Crownover sia stata invitata a questa festa…voglio dire, Emily frequenta la nostra scuola, se avesse iniziato a frequentare uno come Malcolm Wilford si sarebbe venuto a sapere».

«Già. Quando stavamo insieme non mi ha mai accennato al fatto che fossero amici, quindi immagino che si siano conosciuti dopo che ci siamo lasciati», Diane sbatté la propria valigia sul letto, poi, pensando al beauty-case, usò più cautela nell’aprire la cerniera lampo. «Ma, voglio dire, Mal in fondo ha sempre conosciuto tanta gente, quindi il fatto che conoscesse Emily non mi scandalizza più di tanto».

Bugia numero uno, pensò Diane chiudendo gli occhi. Quando aveva visto il nome della cheerleader sulla lista degli invitati era rimasta sconvolta. Non aveva la minima idea di come, quando e dove si fossero conosciuti. Era convinta di sapere con chi uscisse, il suo ex.

«Senza dimenticarci della sua adorata migliore amica dai tempi delle medie Ashley Dickinson», Anastasia prese le scarpe da ginnastica – le quali si trovavano in cima alla sua valigia – che sistemò vicino alla porta; un piccolo, rassicurante segnale di “uscita di emergenza”. «Ma chi è questa? Ma chi se l’è mai cagata?», sbuffò, per poi guardarla negli occhi. «È stato strano che vi siate presentate, avreste dovuto già conoscervi», pausa. «Ma almeno Wilford ti ha mai parlato di lei, quando stavate insieme?».

Diane distolse lo sguardo, quasi intimorita da quegli occhi verdi investigativi. «Certo», sussurrò appena. Bugia numero due. Malcolm non ne aveva mai fatto parola – su Ashley Dickinson – solo poco dopo l’invito alla sua festa. Eppure era convinta di sapere tutto, del suo passato. «Ma non ci siamo mai conosciute semplicemente perché lei dopo il liceo si è trasferita a Boulder, tutto qui».

«Ad ogni modo, chissà perché siamo qui», si domandò Anastasia gettandosi all’indietro su uno dei lettini, per poi togliersi le scarpe con un calcio. «Non so tu, ma io al suo posto non avrei mai invitato una mia ex e una persona che mi sta antipatica alla mia festa. È assurdo, non trovi?».

Diane non replicò, non sapeva cosa dire.

Anastasia assunse uno sguardo pensieroso. Forse era il momento giusto per farle quella domanda. Quella che non aveva avuto il coraggio di scriverle via Whatsapp.

«Diane», cominciò. Per qualche motivo aveva un groppo in gola, e le si accelerò il battito cardiaco. «Diane, perché tu e Malcolm…».

Ma prima ancora che potesse finire la frase, la camera fu invasa dal rumore di forti colpi battuti sul portone di casa che riecheggiavano nel corridoio.

C’era qualcuno alla porta.

All’improvviso Anastasia capì che non era affatto sicura di essere pronta a ricevere risposta alle sue domande.

 

~

 

Anastasia voleva solo dormire, ma aveva delle luci sparate negli occhi. La visitarono e la sottoposero ad una TAC, poi le tolsero i vestiti, irrigiditi dal sangue secco.

Cos’è successo? Cosa ho combinato?

Venne trasportata su una barella lungo corridoi dalle luci abbassate per la notte, oltrepassando corsie di pazienti addormentati. Alcuni di loro si svegliavano al suo passaggio, e la ragazza intuì in quale stato si trovasse vedendo le loro espressioni di shock, il modo in cui giravano la faccia dall’altra parte come per evitare di posare lo sguardo su qualcosa di orribile o pietoso.

Le fecero domande a cui non sapeva rispondere, le dicevano cose che non riusciva a ricordare.

Poi alla fine la collegarono ad una macchina e la mollarono lì, confusa e intontita dai farmaci.

E comunque non era del tutto sola.

Si girò a fatica su un fianco e vide qualcosa che la sorprese attraverso la porta a vetri: una donna poliziotto pazientemente seduta su uno sgabello.

Le facevano la guardia, ma non sapeva il motivo.

Così rimase lì, sdraiata a fissare la finestrella di vetro rinforzato dietro la testa della poliziotta. Avrebbe voluto uscire per farle delle domande, ma non ne aveva il coraggio, in parte perché non era sicura le sue gambe sarebbero riuscita a reggerla per tutto il tragitto fino alla porta. Ma anche perché non era sicura che sarebbe riuscita a reggere le risposte.

Restò distesa per quello che le sembrò un tempo molto lungo ad ascoltare il ronzio del macchinario e il ticchettio della porta a siringa della morfina. Il dolore alla testa e alle gambe si attutì, diventò distante. E poi alla fine la giovane si addormentò.

 

C’era del sangue nel suo sogno: una chiazza di sangue che si allargava, imbrattandola tutta mentre la ragazza si inginocchiava nel tentativo di fermarla, ma non ci riusciva. Le stava inzuppando il pigiama, e sempre più velocemente si spandeva su tutto il pavimento di legno sbiancato…

Ed è a quel punto che Anastasia Hamilton si svegliò.

Per qualche secondo rimase immobile e basta, con il cuore che le batteva fortissimo e gli occhi che si stavano lentamente abituando alla soffusa illuminazione notturna della stanza. Aveva una sete moribonda e le faceva male la vescica.

C’era un bicchiere di plastica sul comodino giusto dietro la sua testa, e con un enorme sforzo riuscì ad allungare la mano e ad agganciare il bordo con un dito tremolante, per poi tirarlo verso sé.

L’acqua sapeva di plastica, ma in quel momento provò solo il sollievo di essersi dissetata. Bevette fino all’ultima goccia e poi lasciò ricadere la sua testa sul cuscino, provando una fitta acutissima che le fece vedere le stelle nella notte fioca.

Si accorse per la prima volta dei tubicini che sbucavano da sotto le lenzuola collegandola ad una sorta di monitor, il cui schermo guizzante spandeva ombre verdognole per tutta la stanza. Uno dei tubicini era legato ad un dito della sua mano sinistra, e quando la sollevò per guardarla notò con sorpresa che era insanguinata e graffiata, e che le sue unghie, che prima erano perfette laccate con dello smalto rosso semipermanente, adesso erano spezzate.

Anastasia chiuse gli occhi, cercando di ricordare.

Ricordava… ricordava una macchina… ricordava di essere inciampata in mezzo a vetri rotti… di aver perso una scarpa…

Sotto le lenzuola si strofinò i piedi: uno le doleva, sull’altro c’era una fasciatura. Quanto agli stinchi… si sentiva tirare la pelle da un grosso cerotto chirurgico sulla gamba.

Ma è solo quando si portò la mano sulla spalla, quella destra, che sussultò e abbassò lo sguardo. Vide sbucare dal camicione un enorme ematoma che le arrivava fino al braccio.

Dopo essere faticosamente riuscita a districare la spalla dalla scollatura, Anastasia vide una massa violacea che si diffondeva a raggiera da un centro scuro e gonfio appena l’ascella. Chissà cosa le aveva provocato un livido così strano, solo da una parte… Il ricordo svolazzava appena più in là della punta delle dita, rimanendo però testardamente fuori dalla sua portata.

Ho avuto un incidente? Un incidente d’auto? Sono stata…stuprata?

Fece scorrere dolorosamente la mano sotto il lenzuolo e si passò il palmo sul ventre, sui seni, sui fianchi. Aveva le braccia piene di tagli, ma il corpo sembrava a posto. Si portò la mano tra le gambe, dove palpò lo spessore simile ad un pannolone lì in mezzo, ma niente dolore. Niente ferite né contusioni all’interno delle cosce. Qualsiasi cosa fosse successa, non si trattava di violenza sessuale.

Tirò un sospiro di sollievo, rilassandosi e chiudendo gli occhi, stanca di cercare di ricordare, stanca di aver paura, e la pompa a siringa continuava a ticchettare e a ronzare e all’improvviso le sembrò che niente avesse più importanza.

Fu solo mentre stava scivolando nel sonno che le tornò in mente l’immagine di un fucile appeso al muro.

E tutto ad un tratto capì.

Il livido era dovuto al rinculo. In qualche punto del suo recente passato doveva aver sparato con un fucile…

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice: è anche questo capitolo è terminato, sono orgogliosa di me stessa!

In questo capitolo abbiamo conosciuto Ashley. Una tipa un po’ strana, non trovate? Ed Anastasia non ha resistito al prenderla un po’ per il culo. Tipico.

Finalmente Anastasia e Diane sono al compleanno di Malcolm Wilford, anche se nessuna delle due sembra particolarmente entusiasta.

La casa dove alloggeranno in questi tre giorni è particolarmente inquietante: è una casa di vetro, circondata dagli alberi, e le nostre amiche si sentono particolarmente osservate.

Anche Diane, però, sembra nascondere dei segreti, ed è rimasta sconvolta dal fatto che Malcolm non gli abbia mai parlato di Ashley o di Emily, compagna di scuola delle due ragazze.

E quel fucile? Parecchio inquietante, no?

E buh, credo di aver finito con i dubbi(?). Spero che abbiate apprezzato questo capitolo. Lasciate una recensione. Sono curiosa di scoprire cosa ne pensate, dato che ho fatto questo capitolo con tanto amore awaw.

Oh, una domanda: nel prossimo capitolo preferite ritornare alla prigionia di Anastasia (alias il presente) o volete restare un altro po’ nel passato, e scoprire chi ha suonato alla porta? Questa volta sono abbastanza indecisa, quindi lascio scegliere a voi.

Al prossimo capitolo!

Coffee Pie.

 

 

 

*Negli Stati Uniti la patente si può prendere già a sedici anni.

 

**Savandisìr è un termine molto elegante per dire “non c’era neanche bisogno di dirlo”, per esprimere scontatezza. È un termine anche molto inusuale e raro da sentire, per questo Anastasia la prende in giro.

   
 
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