Part I
Chapter V
La casa di vetro
“Sarà capitato anche a te di
sentirti osservato, di voltarti e di constatare che
effettivamente qualcuno ti stava guardando.”
Anonimo
Settembre passò
spaventosamente in fretta. Anastasia fece del suo meglio per relegare
l’intera faccenda in un angolino della mente e pensare solamente a
divertirsi come suo solito, ma più il weekend si avvicinava, più
faceva fatica. Restava fuori casa fino a tardi, si ubriacava
fino a poter quasi raggiungere il coma etilico nella speranza di riuscire a
dormire, ma non appena poggiava il capo sul cuscino i pensieri ritornavano.
Malcolm Wilford. Dopo tutto
quello che era successo. E se stesse per commettere uno sbaglio colossale?
Se non fosse stato per Diane si sarebbe certamente tirata indietro, ma, in un modo
o nell’altro, giunto il ventisette settembre, eccola lì, con la
valigia rosa shocking tra le mani mentre il suo autista personale la aiutava a
scendere dalla macchina. Fu subito accolta da un freddo aspro mattino della
periferia di Denver, con Diane al suo fianco intenta a fumarsi una sigaretta
rollata a mano, brontolando mentre la rossa aveva appena terminato la sua e
stava ordinando un caffè al chioschetto della
stazione.
Quella sarebbe dovuta
essere una mattinata allegra, spensierata, elettrizzante. Non avrebbero dovuto
fare altro che parlare della festa e di quanto stratosferica sarebbe stata.
Avrebbero dovuto informarsi meglio sui ragazzi presenti, cercarli su Facebook e vedere se fossero carini. Avrebbero dovuto
scambiarsi pareri sui vestiti che indossavano in quel momento e su quelli che
avrebbero indossato durante i giorni successivi, avrebbero dovuto chiedersi
come attirare l’attenzione di tutti e fare le pazze. Come tutte le altre
volte che dovevano andare a qualche evento.
Ma nulla tutto ciò avvenne. Era come se
volessero sviare l’argomento. Tra le due era presente una tensione
palpabile, ma nessuna delle due avrebbe saputo spiegarsi il motivo preciso.
Erano agitate e basta.
«Vuoi guidare tu?*»,
domandò Anastasia mentre gettavano le valigie nel bagagliaio della Mercedes
noleggiata. Avrebbero potuto andarci nella sua –
di macchina – ma la rossa ci teneva troppo e detestava portarla da
qualche parte fuori città. Diane si strinse
nelle spalle, per poi sbottare di colpo.
«Cazzo!», esclamò
visibilmente innervosita, passandosi una mano tra i capelli corti e scuri. «Vedi, è che ‘sta festa mi sta stressando
come non mai. Allora stamattina mi sono bevuta un po’ di gin tonico per
calmarmi. Mi dispiace, Ana».
«Non
c’è bisogno che ti dispiaccia», sistemò le gambe nel
posto di guida, segretamente tranquillizzata dal fatto che non fosse l’unica
a sentirsi così male per uno stupido compleanno. Chiuse con forza lo
sportello e accese il motore. «Non avrei
comunque voluto farmi scorazzare da te in ogni caso. La nostra guida è
come un karaoke: il mio è epico, il tuo è solo imbarazzante o allarmante».
A quelle parole Diane
scoppiò in una risata fragorosa. «Ma se quando canti sei stonata come una campana!».
«Una campana molto
sexy», precisò Anastasia, ammirando il proprio nello specchietto
retrovisore e facendosi l’occhiolino. L’amica roteò gli
occhi, vagamente divertita dal narcisismo
dell’amica.
«Comunque sì, effettivamente guidare non fa
per me. Infatti di solito prendo il tram per andare in
giro».
«Buon per te»,
disse la rossa non sapendo bene come rispondere.
Diane guardò
fuori dal finestrino mentre l’altra inseriva la marcia. Fecero un breve
giro a zigzag del parcheggio, prima di capire come uscirne.
Durante la guida la bruna
notò che l’amica le stava lanciando occhiate in tralice, ed improvvisamente le indicò con un cenno della testa
il navigatore satellitare.
«Accendi quell’aggeggio, per piacere, e
inserisci il codice postale che ci ha dato Ashley. È la nostra unica
speranza di uscire vive da Denver».
I cartelli segnaletici di
vari paesini nei pressi di Denver balenavano fuori dal finestrino creando
un’immagine quasi poetica, la strada si snodava come un nastro grigio su
e giù dalle colline su cui brucavano le pecore. Il cielo era plumbeo e
pesante, e le piccole costruzioni in pietra che a tratti sfilavano accanto alle
due sembravano discretamente seminascoste, quasi si vergognassero di essere
notate. Diane non doveva darle indicazioni –
dato che ci stava pensando il navigatore – e siccome leggere in macchina
le aveva sempre dato la nausea, chiuse gli occhi per tagliare fuori Anastasia
ed il rumore della radio, rimanendo da sola nella sua testa con le domande le
quali non riusciva a smettere di porsi.
Che cosa hai mente, Mal?
Perché hai deciso di festeggiare il tuo
compleanno in un posto così lontano da tutto e da tutti? E con
così poche persone? Come fai a conoscere Emily? Non ricordavo che vi
foste mai conosciuti. Hai davvero invitato Anastasia per il motivo che mi hai
scritto in chat? Ci hai pensato davvero?
Guardò la sua
amica: chissà come avrebbe reagito quando Malcolm gliel’avrebbe
detto. Sperava davvero che la prendesse bene. In fondo erano passati più
di dieci anni. Ormai non avrebbe avuto senso arrabbiarsi con lui.
Mal, qual è il vero scopo di questa festa?
Immaginò il suo ex
ragazzo che scuoteva la testa ammonendola di avere pazienza, di aspettare. Gli
erano sempre piaciuti i segreti. Il suo passatempo preferito era scovare
qualcosa su qualcuno e poi fargli cenno di tanto in tanto. Non divulgarlo, no,
bensì limitarsi a dei velati riferimenti durante la conversazione, cenni
talmente sfumati che solo il diretto interessato e lui avrebbero compreso. In
modo da fargli capire che lui sapeva.
Si fermarono
in un autogrill per il pranzo e una pausa sigaretta, dopodiché si
rimisero in viaggio verso il bosco, dove le strade si trasformarono in sentieri
di campagna e il cielo sopra le due amiche diventò immenso. Man mano che
la carreggiata si restringeva, gli alberi sembravano farsi sempre più
vicini sul manto d’erba ben rasata che ricopriva il terreno torboso,
finché non se li ritrovarono direttamente al loro fianco, simili a
sentinelle sul ciglio della strada, da cui li separava solo un sottile muretto
di pietre a secco.
All’ingresso del
bosco vero e proprio, la copertura del navigatore satellitare si
affievolì, poi l’apparecchio smise di funzionare del tutto.
Anastasia cacciò
uno strillo snervato, per poi corrugare la fronte e sbuffare: «Che
palle».
«Aspetta un attimo, Ana», disse l’amica frugando nella borsa.
«Ho stampato la piantina che mi ha inviato Ash
via e-mail».
«Caspita,
vorrà dire che ti nominerò Girl
Scout dell’anno», ironizzò, ma la bruna colse una nota
di sollievo nella sua voce. «Cosa c’è che non va nell’iPhone, comunque?».
«Ecco cosa
c’è», le mostrò il proprio telefono che continuava a
funzionare a tratti, impossibilitato a caricare le mappe da Google.
«Scompaiono da un momento all’altro». Guardò le pagine
stampate. La Casa di Vetro, c’era scritto
nell’intestazione di ricerca. Stanebridge Road. «Okay, tra poco ci
sarà una svolta a destra. Una curva e poi una svolta destra, deve essere
vicinissima…», la traversa passò accanto alle due e Diane
commentò, in un tono tutto sommato neutro:
«Era quella, l’abbiamo mancata».
«Ma
che cazzo di navigatore sei?», sbottò Anastasia.
«Cosa?».
«Dovresti indicarmi
una svolta prima di arrivarci,
sai», ribatté imitando la voce metallica del navigatore
satellitare. «girare a sinistra tra –
cinquanta – metri. Girare a sinistra tra – trenta – metri.
Faccia inversione non appena sarà prudente, ha saltato la svolta».
«Beh, allora
fa’ inversione non appena sarà prudente, bella
mia, hai saltato la svolta».
«’Fanculo alla prudenza», Anastasia schiacciò
con forza il pedale del freno e fece una nervosa inversione di marcia in tre
manovre in corrispondenza di una curva successiva. Diane chiuse gli occhi,
aggrappandosi al sedile, fino a ficcare le unghie al suo interno.
«Che cosa stavi
dicendo a proposito del karaoke?».
«Ma dài, guarda che
è una strada senza uscita. Non stava arrivando nessuno».
«A parte gli altri
invitati alla festa», aprì gli occhi con una certa cautela e
scoprì che stavano ripartendo a tutta birra nella direzione opposta.
«Okay, è qui. Sembra un viottolo di campagna,
sulla cartina, ma Ash lo ha
segnalato ben bene».
«È veramente
un violottolo!».
Una brusca sterzata e
l’auto attraversò sobbalzando il varco
tra il fogliame, per poi cominciare ad inerpicarsi su per un sentiero
accidentato e fangoso.
«Credo che il
termine tecnico sia “strada sterrata”», disse Diane con un
filo di voce, mentre Anastasia girava intorno ad una fossa piena di melma che
aveva più le sembianze di un abbeveratoio per ippopotami,
dopodiché svoltò di nuovo alla curva successiva. «Che sia questo il vialetto d’accesso?
Sarà lungo quasi un chilometro».
Erano arrivate
all’ultima pagina che la bruna aveva stampato, talmente grande, stavolta,
che si trattava praticamente di una foto aerea, su cui
non era contrassegnata nessuna casa.
«Se questo è
il loro vialetto privato», disse Anastasia, con la voce che sobbalzava al rimo dei solchi sulla strada. «dovrebbero fargli un po’ di manutenzione, porca
puttana. Se si rompe il telaio dell’auto noleggiata, io faccio causa a
qualcuno. Non m’importa chi, ma col cazzo che pago i danni».
«Ma se tuo padre ti
dà una paghetta di quindicimila dollari al
mese! Eddai Ana, non fare
la tirchia».
«Non sto facendo la
tirchia!», strillò quella innervosita. Diane roteò
gli occhi. «Nella vita bisogna sempre farsi
rispettare. Se ti rompono qualcosa, la pagano loro. Chissenefrega se c’hai i
soldi che ti escono dal culo».
Ed ecco che, superata
l’ultima curva, scoprirono di essere arrivate. Anastasia superò
uno stretto cancello, parcheggiò e spense il motore, poi scesero
entrambe, fissando sbalordite la casa che si parava dinanzi.
Non sapevano bene cosa si
aspettassero, ma di certo non quello. Un cottage dal tetto di paglia, magari,
con tanto di travi in legno e soffitti bassi.
Ciò che invece si ergeva in mezzo alla radura nel bosco era una
straordinaria accozzaglia di vetro e acciaio che sembrava essere stata tirata
su a casaccio da un bambino che si fosse stancato di giocare con i soliti
mattoncini. Appariva così fuori posto che le due se ne restarono
lì impalate a guardarla, a bocca aperta dallo stupore.
Quando la porta si aprì ebbero una fugace visione di luminosi capelli
biondi e di qualche chilo di troppo, e provarono una sensazione di panico
totale. Era tutto un errore, non sarebbero mai dovute venire, ma ormai era
tardi per tornare indietro.
«Ehilà!!!», esclamò la figura con un tono da tre
punti esclamativi, e allora compresero che non poteva che non poteva trattarsi
che di Ashley. Si avvicinò alle ragazze, per poi urlare euforica:
«Santo Cielo! È davvero fantastico
vedervi qui! Voi dovreste essere…».
Spostò lo sguardo
da Diane ad Anastasia, e scelse l’alternativa
più facile: “la bella
Anastasia”, con il viso fin troppo truccato per l’occasione,
gli abiti scollati, i capelli lunghi e lucenti ed il corpo da modella. Diane alzò per qualche attimo gli occhi al cielo.
«Anastasia Hamilton,
giusto?».
«In persona»,
confermò tenendole la mano. «Ma puoi
chiamarmi anche Ana, se ti fa piacere», le
regalò uno dei suoi sorrisi falsi migliori. «E tu dovresti essere
Ashley, se non sbaglio».
«Certosamente!».
Anastasia lanciò a
Diane un’occhiata come per sfidarla a non ridere, ed
in effetti l’amica dovette trattenere una risata. Era impossibile credere
che qualcuno dicesse davvero “certosamente”, perché in tal caso gli avrebbero
fatto perdere l’abitudine a forza di cazzotti a scuola o a furia di
sghignazzate all’università. Ma magari Ashley era fatta di un materiale più resistente.
La bionda strinse la mano
ad Anastasia, per poi rivolgersi alla ragazza dai capelli bruni al suo fianco,
accogliendola con un sorriso radioso.
«Oh mamma, allora tu
devi essere per forza Didì!».
«Diane»,
rispose di riflesso.
«Diane?»,
aggrottò le sopracciglia, confusa.
«Il mio nome
è Diane Courtney», soggiunse. «Mal è abituato a
chiamarmi Didì, ma dalle altre persone, come
ti avevo scritto via messaggio privato, preferisco solo Diane».
Nel suo profondo aveva
sempre detestato essere Didì. Era un nome da
animaletto domestico, che dava adito a prese in giro e
strane rime. Didì via di qui, se ti scappa la pipì.
Didì era morto e sepolto da un pezzo – a meno che non riguardasse Malcolm – o almeno questo
era quello che sperava.
«Oh, ma certo! Io ho una cugina che si chiama Diane!
Noi la chiamiamo Diaz».
Diane cercò
di nascondere un sussulto.
Diaz proprio no. Mai Diaz. Solo una persona, nella vita,
l’aveva chiamata così.
La pausa si
prolungò, finché Ashley non la interruppe con una risata un
po’ fragile.
«Ah! Giusto. Okay. Beh, comunque vedrete che ci
divertiremo un sacco! Mal non è ancora arrivato, ma in
qualità di organizzatrice di questa festa mi è sembrato
mio dover arrivare qui per prima ad accogliervi».
«Quali orrende
torture hai in programma di infliggerci, dunque?», domandò
Anastasia mentre trascinava la valigia oltre la soglia di casa. «Mutandine con la P di principiante? Boa di piume di
struzzo? Cazzi di cioccolato?».
Ashley fece un risolino
nervoso. Guardò la bruna, poi di nuovo la rossa, cercando di capire se
stesse scherzando. Anastasia aveva un modo di porsi difficile da decifrare, per
chi non la conosceva, e ricambiò il suo sguardo tutta seria: Diane si
rese conto che l’amica si stava chiedendo se fosse il caso di aumentare
la presa.
«Carina…ehm…la
casa», disse Diane cercando di cambiare discorso, anche se in
realtà “carina” non era l’aggettivo più
adeguato. Nonostante gli alberi che fiancheggiavano l’edificio, il posto
sembrava terribilmente esposto, e l’ampia vetrata della facciata era un
invito a guardarci dentro a tutta la valle. Inquietante, l’aggettivo
più adatto era decisamente inquietante. Si sfiorò le braccia, incerta. Si sentiva osservata,
come se ci fosse qualcuno dietro agli alberi che la stesse
spiando. Si domandò se anche la rossa sentisse la stessa sensazione.
«Vero che è
graziosa?», ribatté raggiante Ashley, sollevata di trovarsi di
nuovo in acque sicure. «In realtà è di mia zia, la usa per
le vacanze, ma d’inverno non ci viene spesso…è troppo
isolata», fece una breve pausa, per poi continuare. «Alle
medie e soprattutto al liceo io e Mal passavamo sempre qui almeno due
settimane, durante l’estate. Ci siamo divertiti un sacco, rimanevamo per molto
tempo a fissare il bosco dalla vetrata. Beh, poi io mi sono dovuta trasferire a
Boulder e non ci siamo più andati… Oh!
Comunque il soggiorno è per di qua…»,
disse mentre attraversavano un atrio altissimo ed echeggiante che dava su un
lungo stanzone dal soffitto basso, la cui parete opposta era interamente di
vetro, rivolta verso il bosco.
Anastasia lanciò
una veloce occhiata colma di insicurezza a Diane, la
quale percepì alla perfezione e ricambiò. La rossa si sentiva
eccessivamente denudata, in un posto del genere: un po’ come essere sul
palcoscenico di un teatro, intenti a recitare la propria parte di fronte a una
platea di occhi nascosti là fuori tra gli alberi. Con un brivido
voltò la schiena al vetro, per poi guardarsi intorno. Nonostante i
grandi e soffici divani, quel luogo sembrava stranamente spoglio, e dopo una
decina di secondi comprese il perché. Non era solo l’assenza di
disordine e l’arredo minimalista – due vasi sopra il caminetto, un
unico dipinto di Turner appeso al muro – bensì il fatto che non ci
fosse nemmeno un libro in tutta la stanza. Non dava proprio la sensazione di
essere una villa per le vacanze: in qualsiasi altro posto fosse stata c’era sempre qualche vecchio volume di Dan Brown o di Agatha Christie. Questo posto ricordava
più che altro uno show-room. O un palcoscenico,
appunto.
«La linea telefonica
fissa lì», Ashley indicò un telefono a disco
dell’aria piuttosto vintage, che risultava
curiosamente stonato in un ambiente così moderno. «Non
c’è campo sui cellulari o sui computer, perciò usatelo
pure».
Più che dal
telefono, tuttavia, lo sguardo di Anastasia fu attirato da un oggetto che
appariva ancora più fuori luogo: un fucile ben lucido appoggiato a dei
sostegni di legno fissati sopra il muro sopra la mensola del caminetto.
Sembrava quasi che fosse stato dimenticato da qualche cacciatore. Chissà
se funzionava.
Rendendosi conto che
Ashley stava ancora parlando, si sforzò di distogliere lo sguardo.
«…e al piano
di sopra ci sono le camere da letto»,
terminò. «Volete una mano con i bagagli?».
«No, grazie, posso
farcela da sola», rispose Diane, proprio mentre Anastasia sorrise
beffarda e disse: «Beh, se proprio insisti…».
Ashley parve colta alla
sprovvista ma, fattasi coraggio, prese l’enorme valigia a rotelle di
Anastasia e cominciò a trascinarla su per gli scalini.
«Sei crudele»,
le sussurrò Diane, ricevendo in tutta risposta una semplice e divertita
alzata di spalle.
«Come stavo
dicendo», ansimò una volta svoltato l’angolo della prima
rampa. «ci sono quattro stanze da letto. Ho
pensato che io ed Emily ne occuperemo una, voi due
un’altra e Malcolm e Felix un’altra ancora, savandisìr**».
«Savandisìr», le fece
eco Anastasia tutta seria, mentre Diane era troppo impegnata per elaborare
l’informazione che avrebbe dovuto condividere la stanza con una persona
così disordinata come la sua amica; sperava fino all’ultimo che
sarebbe riuscita ad ottenere una stanza tutta per sé.
«Perciò rimarrebbe soltanto Tyl – voglio dire Tyler – che se ne starebbe da
solo. Siccome lui e il suo fidanzato hanno adottato da poco un bimbo di sei
mesi, secondo me tra tutti noi è quello che ha più diritto ad una stanza tutta per sé!».
«Cosa? Non è che il marmocchio se lo porta
dietro, vero?», Anastasia si mostrò sinceramente allarmata. Ashley si sganasciò dal ridere e poi si mise
la mano sulla bocca, imbarazzata, per soffocare il rumore.
«No! È solo che, capite, magari avrà
più bisogno di noi di una notte di
riposo».
«Ah, meno
male», Anastasia sbirciò dentro una delle stanze. «Qual
è la nostra allora?».
«Le due sul retro sono le più grandi. Tu e Didì potete prendere quella a destra, se volete, ci
sono due letti singoli. Nell’altra invece c’è un letto
matrimoniale, però Mal ha detto che non ha problemi a condividerlo con
Felix».
Si fermò ansimante
sul pianerottolo ed indicò con un gesto una
porta di legno chiaro sulla destra.
«Ecco qui».
Dentro erano presenti in
bella mostra due lettini bianchi ed ordinati,
accompagnati da una toeletta con specchiera, il tutto anonimo come in una
camera d’albergo, e – giusto di fronte ai letti – la solita
raccapricciante parete di vetro rivolta a nord in direzione del bosco di pini.
Qui era ancora più difficile da capire, questa
faccenda del vetro. Poiché sul retro la casa
era appoggiata su un terrapieno, non c’era la vista spettacolare che si
godeva sul davanti. Anzi, l’effetto era più che mai
claustrofobico: un muro verde scuro che si stava già sfumando verso la
tenebra, ora che il sole era tramontato.
Ai lati stavano raccolte
pesanti tende color crema, e le due dovettero frenare l’impulso di tirarle
con uno strattone per coprire l’enorme distesa trasparente.
Dietro di loro Ashley
lasciò cadere a terra con un tonfo la valigia di Anastasia. Diane si girò e la bionda le rivolse un sorriso luminosissimo
che la fece apparire tutto ad un tratto quasi carina.
«Avete delle
domande?».
«Sì»,
replicò Anastasia, visibilmente seccata da tutte quelle pareti di vetro.
Perché si sentiva osservata? «Qui dentro si può
fumare?».
Ashley assunse di colpo
un’espressione dispiaciuta.
«Purtroppo mia zia non vuole che si fumi in casa. Però lì c’è un balcone»,
armeggiò per qualche istante con una porta scorrevole nella parete di
vetro, riuscendo alla fine a spalancarla. «Puoi fumare qui, se
vuoi».
«Buono a
sapersi», si limitò a proferire Anastasia con tono altezzoso.
Dopo aver lottato di nuovo
con la porta, Ashley la richiuse. Si raddrizzò,
rossa in volto per lo sforzo, pulendosi le mani sui jeans.
«Perfetto! D’accordo, adesso vi lascio disfare i bagagli. Ci vediamo di sotto, sì?».
«Certosamente!»,
esclamò entusiasta Anastasia, e Diane cercò di coprirla con un:
«Grazie!» a voce più alta del necessario, risultando
stranamente aggressiva.
«Uhm, già. Okay», concluse
Ashley incerta, poi indietreggiò verso la porta e uscì.
«Ana…»,
disse Diane in tono di avvertimento, mentre lei attraversava la stanza per
guardare il bosco là fuori.
«Che
c’è?», domandò girandosi appena, distratta. E poi
soggiunse: «Dunque Malcolm, Felix e Tyler devono essere decisamente dei maniaci sessuali, a giudicare da quanto
Ashley sia determinata a tenere separati i loro furibondi cromosomi di tipo Y
dalle nostre delicate parti femminili».
Diane non poté fare
a meno di sbuffare divertita. D’altronde era sempre così, con la
rossa: riusciva sempre a farla franca in situazioni che per altri risulterebbero imperdonabili.
«Beh, senza contare
che Tyler probabilmente è gay, non
credi?», commentò Diane mentre trascinava la sua valigia, senza
notare che lo sguardo dell’amica si era fatto improvvisamente serio.
«È fidanzato con un uomo e hanno anche adottato un bambino, anche
se Ash ha detto che l’ha messo nella camera
singola perché–».
«Diane», la
interruppe la rossa, con un tono di voce mediamente riflessivo. «Non lo
trovi strano?».
«Cosa
dovrei trovare strano?», domandò, cercando di far suonare
la sua voce leggera ed indifferente.
Anastasia si passò
le mani tra i capelli, scompigliandoseli. «Oh, insomma!»,
sbuffò. «Tutto! Tutto è strano!», esclamò, per poi iniziare a contare sulle
mani. «Questa casa, gli alberi là fuori, il fucile nel soggiorno, quella
cicciona di Ashley, l’improvvisa gentilezza di Wilford
nei miei confronti, il fatto che Emily Crownover sia
stata invitata a questa festa…voglio dire, Emily frequenta la nostra
scuola, se avesse iniziato a frequentare uno come Malcolm Wilford
si sarebbe venuto a sapere».
«Già. Quando stavamo insieme
non mi ha mai accennato al fatto che fossero amici, quindi immagino che si
siano conosciuti dopo che ci siamo lasciati», Diane sbatté la
propria valigia sul letto, poi, pensando al beauty-case, usò più
cautela nell’aprire la cerniera lampo. «Ma,
voglio dire, Mal in fondo ha sempre conosciuto tanta gente, quindi il fatto che
conoscesse Emily non mi scandalizza più di tanto».
Bugia numero uno, pensò Diane chiudendo gli occhi. Quando aveva visto il nome
della cheerleader sulla lista degli invitati era
rimasta sconvolta. Non aveva la minima idea di come, quando e dove si fossero
conosciuti. Era convinta di sapere con chi uscisse, il suo ex.
«Senza dimenticarci
della sua adorata migliore amica dai
tempi delle medie Ashley Dickinson», Anastasia prese le scarpe da
ginnastica – le quali si trovavano in cima alla sua valigia – che
sistemò vicino alla porta; un piccolo, rassicurante segnale di
“uscita di emergenza”. «Ma chi
è questa? Ma chi se l’è mai
cagata?», sbuffò, per poi guardarla negli occhi. «È
stato strano che vi siate presentate, avreste dovuto già
conoscervi», pausa. «Ma almeno Wilford ti ha mai parlato di lei, quando stavate
insieme?».
Diane distolse
lo sguardo, quasi intimorita da quegli occhi verdi investigativi.
«Certo», sussurrò appena. Bugia numero due. Malcolm non ne aveva mai fatto
parola – su Ashley Dickinson – solo poco dopo l’invito alla
sua festa. Eppure era convinta di sapere tutto, del
suo passato. «Ma non ci siamo mai conosciute
semplicemente perché lei dopo il liceo si è trasferita a Boulder, tutto qui».
«Ad ogni modo,
chissà perché siamo qui», si domandò Anastasia
gettandosi all’indietro su uno dei lettini, per poi togliersi le scarpe
con un calcio. «Non so tu, ma io al suo posto
non avrei mai invitato una mia ex e una persona che mi sta antipatica alla mia
festa. È assurdo, non trovi?».
Diane non replicò, non sapeva cosa dire.
Anastasia assunse uno
sguardo pensieroso. Forse era il momento giusto per farle quella domanda.
Quella che non aveva avuto il coraggio di scriverle via Whatsapp.
«Diane»,
cominciò. Per qualche motivo aveva un groppo in gola, e le si accelerò il battito cardiaco. «Diane,
perché tu e Malcolm…».
Ma prima ancora che potesse finire la frase, la
camera fu invasa dal rumore di forti colpi battuti sul portone di casa che
riecheggiavano nel corridoio.
C’era qualcuno alla
porta.
All’improvviso
Anastasia capì che non era affatto sicura di
essere pronta a ricevere risposta alle sue domande.
~
Anastasia voleva solo
dormire, ma aveva delle luci sparate negli occhi. La visitarono e la
sottoposero ad una TAC, poi le tolsero i vestiti,
irrigiditi dal sangue secco.
Cos’è successo?
Cosa ho combinato?
Venne trasportata su una barella lungo corridoi dalle
luci abbassate per la notte, oltrepassando corsie di pazienti addormentati.
Alcuni di loro si svegliavano al suo passaggio, e la ragazza intuì in
quale stato si trovasse vedendo le loro espressioni di shock, il modo in cui
giravano la faccia dall’altra parte come per evitare di posare lo sguardo
su qualcosa di orribile o pietoso.
Le fecero domande a cui non sapeva rispondere, le dicevano cose che non
riusciva a ricordare.
Poi alla fine la
collegarono ad una macchina e la mollarono lì,
confusa e intontita dai farmaci.
E comunque non era del
tutto sola.
Si girò a fatica su
un fianco e vide qualcosa che la sorprese attraverso la porta a vetri: una
donna poliziotto pazientemente seduta su uno sgabello.
Le facevano la guardia, ma
non sapeva il motivo.
Così rimase
lì, sdraiata a fissare la finestrella di vetro rinforzato dietro la
testa della poliziotta. Avrebbe voluto uscire per
farle delle domande, ma non ne aveva il coraggio, in parte perché non
era sicura le sue gambe sarebbero riuscita a reggerla per tutto il tragitto
fino alla porta. Ma anche perché non era sicura che sarebbe
riuscita a reggere le risposte.
Restò distesa per
quello che le sembrò un tempo molto lungo ad ascoltare il ronzio del
macchinario e il ticchettio della porta a siringa della morfina. Il dolore alla
testa e alle gambe si attutì, diventò distante. E poi alla fine
la giovane si addormentò.
C’era del sangue nel
suo sogno: una chiazza di sangue che si allargava, imbrattandola tutta mentre
la ragazza si inginocchiava nel tentativo di fermarla,
ma non ci riusciva. Le stava inzuppando il pigiama, e sempre più
velocemente si spandeva su tutto il pavimento di legno sbiancato…
Ed è a quel punto
che Anastasia Hamilton si svegliò.
Per qualche secondo rimase
immobile e basta, con il cuore che le batteva fortissimo e gli occhi che si
stavano lentamente abituando alla soffusa illuminazione notturna della stanza.
Aveva una sete moribonda e le faceva male la vescica.
C’era un bicchiere
di plastica sul comodino giusto dietro la sua testa, e con un enorme sforzo
riuscì ad allungare la mano e ad agganciare il bordo con un dito
tremolante, per poi tirarlo verso sé.
L’acqua sapeva di
plastica, ma in quel momento provò solo il sollievo di essersi
dissetata. Bevette fino all’ultima goccia e poi lasciò ricadere la
sua testa sul cuscino, provando una fitta acutissima che le fece vedere le
stelle nella notte fioca.
Si accorse per la prima
volta dei tubicini che sbucavano da sotto le lenzuola collegandola ad una sorta di monitor, il cui schermo guizzante spandeva
ombre verdognole per tutta la stanza. Uno dei tubicini era legato ad un dito della sua mano sinistra, e quando la
sollevò per guardarla notò con sorpresa che era insanguinata e
graffiata, e che le sue unghie, che prima erano perfette laccate con dello
smalto rosso semipermanente, adesso erano spezzate.
Anastasia chiuse gli
occhi, cercando di ricordare.
Ricordava… ricordava una macchina… ricordava di essere inciampata
in mezzo a vetri rotti… di aver perso una scarpa…
Sotto le lenzuola si strofinò i piedi: uno le doleva, sull’altro
c’era una fasciatura. Quanto agli stinchi… si sentiva tirare la
pelle da un grosso cerotto chirurgico sulla gamba.
Ma è solo quando si portò la mano sulla
spalla, quella destra, che sussultò e abbassò lo sguardo. Vide
sbucare dal camicione un enorme ematoma che le arrivava fino al braccio.
Dopo essere faticosamente
riuscita a districare la spalla dalla scollatura, Anastasia vide una massa
violacea che si diffondeva a raggiera da un centro scuro e gonfio appena
l’ascella. Chissà cosa le aveva provocato un livido così
strano, solo da una parte… Il ricordo svolazzava appena più in
là della punta delle dita, rimanendo però testardamente fuori
dalla sua portata.
Ho avuto un incidente? Un incidente d’auto?
Sono stata…stuprata?
Fece scorrere
dolorosamente la mano sotto il lenzuolo e si passò il palmo sul ventre,
sui seni, sui fianchi. Aveva le braccia piene di tagli, ma il corpo sembrava a
posto. Si portò la mano tra le gambe, dove palpò lo spessore
simile ad un pannolone lì in mezzo, ma niente
dolore. Niente ferite né contusioni all’interno delle cosce. Qualsiasi
cosa fosse successa, non si trattava di violenza sessuale.
Tirò un sospiro di sollievo, rilassandosi e chiudendo gli occhi,
stanca di cercare di ricordare, stanca di aver paura, e la pompa a siringa
continuava a ticchettare e a ronzare e all’improvviso le sembrò
che niente avesse più importanza.
Fu solo mentre stava
scivolando nel sonno che le tornò in mente l’immagine di un fucile
appeso al muro.
E tutto ad
un tratto capì.
Il livido era dovuto al
rinculo. In qualche punto del suo recente passato doveva aver sparato con un
fucile…
Note dell’autrice: è anche questo capitolo è terminato,
sono orgogliosa di me stessa!
In questo capitolo abbiamo
conosciuto Ashley. Una tipa un po’ strana, non trovate?
Ed Anastasia non ha resistito al prenderla un po’
per il culo. Tipico.
Finalmente Anastasia e
Diane sono al compleanno di Malcolm Wilford, anche se
nessuna delle due sembra particolarmente entusiasta.
La casa dove alloggeranno
in questi tre giorni è particolarmente inquietante: è una casa di
vetro, circondata dagli alberi, e le nostre amiche si sentono particolarmente
osservate.
Anche Diane, però,
sembra nascondere dei segreti, ed è rimasta sconvolta dal fatto che
Malcolm non gli abbia mai parlato di Ashley o di Emily, compagna di scuola
delle due ragazze.
E quel fucile? Parecchio
inquietante, no?
E buh,
credo di aver finito con i dubbi(?). Spero che abbiate
apprezzato questo capitolo. Lasciate una recensione. Sono curiosa di scoprire
cosa ne pensate, dato che ho fatto questo capitolo con
tanto amore awaw.
Oh, una domanda: nel
prossimo capitolo preferite ritornare alla prigionia di Anastasia (alias il
presente) o volete restare un altro po’ nel passato, e scoprire chi ha
suonato alla porta? Questa volta sono abbastanza indecisa, quindi lascio
scegliere a voi.
Al prossimo capitolo!
Coffee Pie.
*Negli Stati Uniti la patente si può prendere
già a sedici anni.
**Savandisìr è
un termine molto elegante per dire “non c’era neanche bisogno di
dirlo”, per esprimere scontatezza. È un
termine anche molto inusuale e raro da sentire, per
questo Anastasia la prende in giro.