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Autore: Elikin    07/10/2015    1 recensioni
I libri parlano sempre di storie di possesso. Sempre. Vengono propinate sotto varie sfaccettature. Può trattarsi di un eroe coraggioso che sconfigge un mostro, di una coppia di innamorati sfortunati o anche semplicemente di un giovane apparentemente destinato a morire. Ognuna di quelle storie nasconde un profondo egoismo ed attaccamento ai propri sogni, a se stessi, al destino di altre persone.
I libri però, miei maestri di vita ed unica ancora con il mondo esterno, non sono mai stati capaci di farmi provare il calore di una carezza sul capo, la stretta allo stomaco che ti prende quando vedi una persona che ami morire davanti ad i tuoi occhi. La paura cristallina di quel momento di consapevolezza che precede la morte.

[La storia partecipa a "L'Amore è l’incontro tra due Fiori delicati! Yuri-Shoujo Ai contest", indetto da zenzero91]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Christa Lenz, Ymir
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Autore: Elikin
Titolo: Pagine vermiglie
Fandom: L'attacco dei giganti
Nome fiore: Ortensia (distacco e freddezza)
Prompt usati: Libro e maledizione
Introduzione: "I libri parlano sempre di storie di possesso. Sempre. Vengono propinate sotto varie sfaccettature. Può trattarsi di un eroe coraggioso che sconfigge un mostro, di una coppia di innamorati sfortunati o anche semplicemente di un giovane apparentemente destinato a morire. Ognuna di quelle storie nasconde un profondo egoismo ed attaccamento ai propri sogni, a se stessi, al destino di altre persone.
I libri però, miei maestri di vita ed unica ancora con il mondo esterno, non sono mai stati capaci di farmi provare il calore di una carezza sul capo, la stretta allo stomaco che ti prende quando vedi una persona che ami morire davanti ad i tuoi occhi. La paura cristallina di quel momento di consapevolezza che precede la morte."


 
 
Castello di Utgard, anno 850.
Due ore prima dell'alba.


Un rumore sordo e spaventoso. Dei passi giganteschi, il sangue che cola, membra tagliate e urla strazianti.
È questa la sinfonia mortifera messa in atto dai giganti, giorno dopo giorno. Morte dopo morte.
Dovrebbero rappresentare la paura, la rabbia e l’impotenza. Dovrei essere terrorizzata all’idea che si possa essere aperta un’altra breccia nel muro, all’idea di essere bloccata in questo rudere che una volta era un castello mentre la morte è libera di girare tra noi.

Dovrei. Ma non lo sono. Non è per questo che sono nata.

Ho sentito dire che sia normale provare attaccamento verso le cose, nei confronti delle persone, ma soprattutto verso la vita. Tuttavia non ho mai potuto sperimentare questa sensazione, provare sulla mia pelle questi sentimenti egoistici e frementi. Li ho sempre ritenuti non miei, sin da bambina.
La solitudine e il distacco sono sempre stati i miei compagni, delle costanti che mi hanno accompagnata fin dalla nascita. Sono cresciute con me, diventando sempre più forti, come delle grandi e spesse ombre. Oscure, vigili.
Tuttavia questo non mi ha impedito di provare ad avvicinarmi al mondo. Ho avuto modo di imparare. Osservando gli altri, ascoltando le loro parole, leggendo e scoprendo mondi nati dall’immaginazione di qualcun altro, ho trovato nuovi modi di vedere le persone, di comprenderle. Nonostante non fossi mai stata come loro, sono riuscita a capire.

I libri parlano sempre di storie di possesso. Sempre. Vengono propinate sotto varie sfaccettature. Può trattarsi di un eroe coraggioso che sconfigge un mostro, di una coppia di innamorati sfortunati o anche semplicemente di un giovane apparentemente destinato a morire. Ognuna di quelle storie nasconde un profondo egoismo ed attaccamento ai propri sogni, a se stessi, al destino di altre persone.
I libri però, miei maestri di vita ed unica ancora con il mondo esterno, non sono mai stati capaci di farmi provare il calore di una carezza sul capo, la stretta allo stomaco che ti prende quando vedi una persona che ami morire davanti ad i tuoi occhi. La paura cristallina di quel momento di consapevolezza che precede la morte.

I libri parlano anche di questo, però. Di angoscia, del vuoto, del dolore di una persona sola. Di maledizioni.
Come altro definire la mia vita del resto?

Non provare nulla. Né gioia, né dolore. Nessuna ambizione. Solo distacco da qualsiasi tipo di sentimento, freddezza. È stato un sopravvivere, piuttosto che un vivere pienamente come tutti gli altri. È questo quello che sono io, è questo che sono stata costretta a diventare.
Historia Reiss non è nulla e non sarà mai nulla. Non ha niente dentro. Non prova amore, gioia o affezione. Non sa cosa voglia dire essere tristi per qualcuno. Non sa cosa voglia dire la parola possesso.

Nei libri non ho mai trovato un modo per spezzare una maledizione. Ho solo trovato un modo per sopravvivere, ancora.

Christa Renz è uscita da quelle pagine ingiallite, macchiate di un rosso nauseabondo. Si potrebbe dire che sia nata dal sangue di mia madre, proprio come me. Un’ironia del destino che ho sempre apprezzato. È stata una seconda occasione, un modo per dare alla mia morte una fine meno insignificante, al contrario della mia vita.
Christa Renz è tutto quello che io non sono mai stata. Crede nel prossimo e dà sempre il massimo, qualunque cosa stia facendo. È la ragazza che tutti amano, la ragazza che tutti vorrebbero proteggere, fare propria. Come le eroine dei libri.
Christa Renz non è maledetta. Prova compassione, si sacrificherebbe per gli altri senza batter ciglio. Non è vuota, sa cosa voglia dire avvicinarsi a qualcuno. È qualcosa che ho cercato, che ho bramato. Una maschera calda capace di mitigare il freddo che avevo dentro, ma una maschera non basta contro degli occhi capaci di leggerti dentro, di denudarti completamente.

Lo fanno anche ora. Mi guardano, mi scrutano e cercano di scoprire cosa ci sia sotto di essa. In continuazione, senza sosta.
Continuo a ripetermi che la mia sia una difesa inespugnabile, un modo di vivere efficiente. Eppure i sentimenti di Christa Renz non sono i miei, non lo sono mai stati. Se Daz fosse morto quella volta sulle montagne a me non sarebbe importato, come se al suo posto ci fosse stato chiunque altro. Era a questo che pensavo mentre lo trascinavo? Al fatto che nonostante i miei sforzi quella maschera sarebbe rimasta sempre e solo quello?
Morire. Era quello il mio unico pensiero. Sarebbe stato bello, no? Avrei risolto ogni mio problema alla radice, forse avrei persino sentito qualcosa prima che il freddo si prendesse anche la più piccola parte di me.

Christa Renz avrebbe sconfitto la maledizione di Historia Reiss, per sempre.

Eppure quella volta qualcosa - qualcuno - mi ha salvata. Ha rischiato la propria vita per me, e non l’ha fatto per la maschera, no, ma per l’orribile persona sotto di essa, senza chiedere nulla in cambio se non una promessa bizzarra.
Perché?
Continuo a ripetermelo ogni giorno e ogni notte da quando è accaduto. Non sono una principessa, non sono un eroe; sono soltanto una ragazza maledetta, vuota, priva di sentimenti. Allora perché ha voluto salvarmi? Perché quella volta, quando l’ho vista sana e salva assieme a Daz, ho provato sollievo? Perché, nonostante la sua esistenza rappresenti una minaccia per me, provo soddisfazione nel saperla ancora viva? Perché sono felice che mi abbia salvato la vita?
Dovrei essere vuota. Dovrei essere odiata per quello che sono. Sa tutto di me, più di quanto non ne sappia io…  eppure lei vuole che io viva, che Christa Renz sparisca. Ha rischiato la vita per una cosa del genere.
Ha rischiato la vita per me, per la vera me. Perché? Cos’è questo?

“È Ymir, solo Ymir.” mi continuo a ripetere. Non è una minaccia, è fatta così. Sempre stata così. Di che mi dovrei preoccupare? Eppure quando noto con la coda dell’occhio che mi sta fissando, come ora, convinta che io non me ne accorga, sento uno strano calore nel petto. Per quanto possiamo litigare e farci del male, alla fine non posso fare a meno di tornare da lei e lei da me. Questo significa provare attaccamento per qualcosa?

- Ohi Christa, mi senti? Sei ancora incazzata per prima?-
Sulle prime non capisco molto bene cosa mi stia dicendo, ci vuole qualche secondo per farmi rendere conto che deve avermi parlato senza che io me ne rendessi conto. Scuoto appena la testa, portando una mano a stropicciarmi un occhio, come  a voler suggerire che sia colpa di un leggero colpo di sonno, sebbene io sia sveglissima. Non ricordo quasi più il motivo del litigio. Forse per le sue parole riguardo la madre di Connie?

- Ti ho chiesto se hai fame o no. Voglio vedere se riesco a trovare qualcosa di commestibile prima che quelli si sveglino.- la sua voce è dura e graffiante come al solito, lievemente sussurrata. Si riferisce di certo ai nostri compagni, intenti a riposarsi mentre l’Armata Ricognitiva fa il turno di guardia. Quegli occhi mi scrutano ancora, senza abbandonarmi mai un attimo. Mi sento a disagio e sono costretta ad abbassare lo sguardo, come sempre.
- Non sarebbe meglio prendere qualcosa da dividere tutti assieme?- provo a proporre con voce timida, torturandomi appena l’orlo rovinato della gonna.
Bugiarda. Falsa. La mia testa lo urla, la mia maschera trema, ma rimane su.
Vorrei non mentire pure a lei che è così sincera e possessiva nei miei confronti, ma non posso farci nulla. È la mia natura, è più forte di me.
- Questo forse potrai farlo tu, di certo non io. Certe volte dici cose così stupide.- mormora appena, assottiglia lo sguardo, chiaramente irritata dalla mia messa in scena. Oserei dire “ferita” se non sapessi che il soggetto del discorso è Ymir. La sento tendersi ed alzarsi, iniziando ad allontanarsi da me. Qui, in questa situazione, proprio come è capitato sulle montagne innevate o a Trost, sento di nuovo quella sensazione di sconforto al pensiero che possa allontanarsi dalla mia vista. Ma è solo perché sa il mio segreto? No… non è solo questo.

- Christa…- parla ancora e in qualche modo è diversa dal solito, proprio come me. È tremante ed esitante per un momento, per quanto Ymir possa esserlo. Tende una mano nella mia direzione e non so bene che voglia farci. Mi sporgo verso di lei, alzando di nuovo la testa e per un momento i nostri occhi si incontrano. Per un momento la mia maschera cade e la maledizione di scioglie. Ho paura, non voglio sapere quello che sta per dire. - … cerca di riposarti. Quando torno ti voglio parlare di una cosa.- mormora, ritirando il braccio, come se ci avesse ripensato, e portandoselo dietro il collo, grattandosi la nuca con un certo nervosismo.

Non aggiunge altro, mi lancia un’ultima occhiata, poi posa la mano sul corrimano di pietra ed inizia a salire i gradini, lasciando ben presto la sala.

Sbatto la schiena contro il muro, incurante del dolore, mentre cerco di non pensare al peggio, di ignorare la situazione precaria nella quale ci troviamo. Le mille nozioni che ho appreso dai libri non riescono a venirmi in aiuto in questo caso.
Ho sempre mentito a me stessa. Non è vero che ho paura, è forse l’unico sentimento che sono in grado di provare, in grado di cancellare tutti gli altri e di accedere una minuscola fiammella di vita in questo corpo vuoto. È in questi momenti, dopo tre anni, che mi rendo conto di quanto l’assenza di quella persona possa pesare su di me. La mancanza del suo sguardo e delle piccole attenzioni che mi rivolge, delle sue parole brusche, delle sue mani callose e forti.

La verità è che quando sono con lei mi sento veramente libera di essere me stessa. Con Ymir non importa essere Historia Reiss, la ragazza maledetta. Quel senso di vuoto e di distacco dalla realtà, la freddezza delle emozioni, viene spazzato via. È quindi di questo che si tratta, quando si parla di possesso? Voler rimanere in vita e volere assolutamente che qualcun altro lo faccia?

Questa consapevolezza si fa sempre più in strada in me, ogni mese, ogni giorno, ogni secondo che passa da quando la conosco. Non so bene cosa possa significare, in verità, non ne ho ancora afferrato tutte le sfaccettature. Lei deve ancora mantenere la sua promessa e io la mia.

Cosa succederà quando abbandonerò la maschera per fidarmi di quella persona e annullerò completamente la distanza tra di noi?
Questo nei libri non sta scritto, immagino che dovrò scoprirlo da me.

 
   
 
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