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Autore: nettie    09/10/2015    3 recensioni
Tu eri il mio bagno caldo, lo sei stato per così tanto tempo da lasciarmi ustionata. Sei stato troppo, troppo caldo.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Storie brevi scritte in un lasso di tempo breve. '
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“Don’t talk to me, I don’t believe a world.

Don’t try to make me feel alright.

All the love in all the world

is not enough to save my soul tonight.”

 

Mi sento intorpidita, è una strana sensazione, perché non lo sono veramente.

Vago per casa come un fantasma, tocco i muri lisci e freddi con i polpastrelli, con il dorso della mano; mi piace il rumore, è rilassante, mi da la sensazione di casa. Brancolo nel buio nonostante sia pieno giorno, avverto un grande peso sullo stomaco, le gambe stanche. Così continuo a vagare silenziosamente per quella casa tanto grande quanto vuota, i piedi nudi costretti ad un crudo contatto col pavimento di marmo, lucido, quasi mi ci posso specchiare. In un angolo, lì, c’è sempre una donna: ha qualche ruga sul volto e sul collo, le mani curate e gli occhi grandi, come i miei, color nocciola. Ha un vecchio sorriso sul volto, proprio quel sorriso che una volta mi incuteva una tremenda sicurezza. Ebbene sì, mia madre è sempre lì, sempre a chiedermi se io stia bene o meno, sempre a cercare di far qualcosa per me, e io che - crudele - continuo a non risponderle semplicemente perché non so neanche io come sto. Come vuole che stia? Devo stare bene? Devo essere felice dopo che mi è crollato tutto addosso? Come cazzo devo sentirmi? Non lo so, me lo dica lei: io non lo so. Ad ogni sua domanda la risposta è composta di semplici e profondi silenzi che probabilmente la feriscono ancor più di quanto non sia già. Indosso la stessa vestaglia da giorni e non dormo quasi più, la macchinetta del caffè è la mia migliore amica. La notte e il giorno si fondono fra loro, ho perso ormai la cognizione del tempo - non che mi importi poi più di tanto. Ho delle occhiaie oscene, ma non mi importa neanche di questo: non devo farmi bella per nessuno, quindi perché dovrei farmele passare?

Poi, mi siedo sul divano e rimango in silenzio, senza dire nulla, senza fiatare, cerco di fare il meno rumore possibile. Ogni tanto mio padre prova a sedersi accanto a me, mi mette una mano sulla spalla e mi chiede come sto. L’uomo che mi ha vista nascere, che mi è stato veramente accanto per tanto, tanto tempo, ora si sente inutile, e come posso biasimarlo? Non so cosa fare, non so proprio cosa fare. Sento i suoi occhi su di me e rabbrividisco, penso di sapere cosa sta cercando di dirmi ma non lo voglio capire. Mi limito ad abbassare la testa con fare rassegnato, poi sospiro appena come se non volessi farmi sentire, allora lui capisce tutto e non può far altro se non carezzarmi lentamente i capelli, un po’ come quando ero bambina. Il problema è che non lo sono più, ma è come se … se lo fossi. La sua mano calda e grande percorre la mia schiena e poi torna su, sul capo, poi scivola sulla nuca, un dolce movimento continuo e costante che mi fa ricordare troppe cose che pensavo di aver dimenticato. Mi sento ancora una bambina in cerca di riparo, un riparo che però non arriverà più. Un riparo che magari non c’è mai stato veramente.

Le mani si torturano l’un l’altra; loro in cerca di pace, io in cerca di una risposta. I miei occhi grandi scrutano con paura il mondo circostante, tremanti, stanchi, stremati. I movimenti sono rallentati, ho freddo e mi stringo in quella vestaglia bianca, sgualcita, che tanto mi tiene compagnia. Tutto sembra essersi fermato nel tempo, dolore incluso, ghiacciato, congelato. Ed è lì, che stagna nel petto e che brucia, corrodendomi piano piano come il peggiore dei veleni. Le ombre mi circondano e converso amichevolmente con loro, mie uniche amiche e consolatrici. Mi stringono e mi abbracciano, mi carezzano cullandomi fra le loro materne braccia, e lì non mi sento io. In questo Inferno non mi rimane più tanto da vivere, solo qualche respiro e una manciata di passi che durano all’infinito, quest’infinito che mi sta torturando, questo ciclo straziante nel quale sono rinchiusa, del quale non trovo la via d’uscita, questa statica realtà che mi fa da gabbia e da dimora. Queste ombre consistono nella mia unica e sola compagnia: devo confessare che a volte ne sono intimorita.

Cammino, vedo la mia figura riflessa nello specchio ma non mi riconosco. La donna che sto vedendo è solo una sagoma stanca e triste. Ricurva su me stessa, i capelli raccolti in uno chignon disordinato, gli occhi vuoti e spenti. Sento il fiato mancarmi nel petto e spero sempre che questa sia la volta buona per lasciare questo mondo, ma no, no, non succede mai. Le gambe pesano, non voglio muovermi, allora perché lo sto facendo? Perché sto respirando?

Perché, perché, perché?

E allora è pianto, è disperazione, sono le lacrime che scorrono veloci e copiose sul mio viso senza dar segno di tregua. Mi chiudo in camera, sbatto la porta alle mie spalle e giro la chiave nella serratura due volte. Stringo i pugni e mi butto di peso sul letto in quella campana di vetro che mi ha tenuto all’oscuro dall’amore per tanto tempo, quella campana di vetro ora rotta. Rotta, rotta. E sono stanca, sono stanca da morire. Le coperte sono perfettamente composte e la cosa mi disturba; dove sono finite quei tempi in cui passavamo noi e sembrava fosse passato un tornado intero? Dove sei finito? Dove, dove, dove? E’ straziante il solo pensiero di saperti fra le braccia di un’altra, è straziante il solo fatto di dover pensare a te. Torna qui e abbracciami ancora un’ultima volta, stringimi fra le tue braccia e donami un po’ di pace, diventa la mia luce e scaccia quelle ombre che non sono mai state poi così simpatiche. Proteggimi, fammi sapere che ci sei. E mi crogiolo nelle mie stesse lacrime, mi ranicchio in un angolo del letto e continuo a sentire freddo, singhiozzo - no, cerco di reprimere i singhiozzi e soffocarli in gola. Il mio dolore deve essere silenzioso, silenzioso come fosse in lutto, in lutto per la morte di una delle cose più belle che la vita sia mai stata capace di donarmi: il tuo amore.

Apro gli occhi e punto lo sguardo al soffitto, questo letto è così freddo, così vuoto. Sto male, sto tanto male e non ho neanche il coraggio di confessarlo a me stessa. E’ un segreto, il mio dolore è un segreto. Il nostro amore è stato nostro dall’inizio alla fine, perché ora dovrei sputare i nostri giorni bruciati via sul mondo, perché dovrei rendere pubblica una cosa che per così tanto tempo è stata proprietà privata? Non voglio che la gente mi guardi soffrire semplicemente perché neanche io accetto il mio riflesso intorpidito, ancora incredulo. Forse, una parte di me ancora deve realizzare. E’ come se avessi fatto un lungo e rilassante bagno per tanto tempo, e alla fine sono uscita senza trovare l’accappatoio pronto. Quando non si trova l’accappatoio pronto cosa si fa? Si corre come matti per tutta casa a cercarlo in preda al panico, ovviamente, e quando lo trovi ti sembra di aver trovato il paradiso. Ma no, non è così, perché appena te lo metti ti accorgi che il freddo non passa, e ti senti intorpidita.

E tu eri il mio bagno caldo, lo sei stato per così tanto tempo da lasciarmi ustionata. Sei stato troppo, troppo caldo. Stringo i pugni e mi rigiro nel letto, tutto quest’ordine mi fa salire una nausea assurda che non riesco a trattenere, affondo la testa nel cuscino e cerco di addormentarmi invano. No, non ci riesco perché mi sento osservata da qualcosa che non esiste. Allora sospiro - no, boccheggio, boccheggio in cerca di un po’ d’aria e continuo a cambiare posizione nella speranza di trovare quella giusta, nella speranza di rimanerci secca prima o poi. Sento bussare alla porta, una, due, tre volte, quasi con insistenza. Una voce femminile chiama il mio nome con tono preoccupato, al suo seguito una voce maschile dal timbro caldo mi chiede di aprire, perché entrambi devono parlarmi. Ma quella voce maschile dal timbro caldo non è quella dell’uomo che ho sempre amato e che tutt’ora amo, quindi, perché mai dovrei aprire? No, lasciatemi in pace.

 

Lasciatemi in pace.

   
 
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