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Autore: HammerSmithPalais    11/10/2015    0 recensioni
«Siamo una generazione invecchiata male» dice Sam, la sigaretta fumante tra l’indice e il medio. «Basta guardarci,» con il capo mi fa un cenno, studia dall’alto in basso il mio vestito, «basta guardare come andiamo in giro. Ecopelle attillata, latex, borchie, cinghie, anfibi eccetera eccetera. Insomma, dovremmo lasciare queste cose hai giovani , siamo ridicoli ad andare in giro così, dei pagliacci.» (Anacronismo, III)
Una donna che vive costantemente nel 76, con i suoi spettri, cicatrici e trampoli; un ragazzo con il suo complesso di edipo, che impugna la sua chitarra come una mitragliatrice, pronto a compiere stragi di sangue sul palco; e infine una bad girl, dallo spirito ribelle, e si sà, per quelle come lei, non c'è mai il lieto fine.
Genere: Generale, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate, Triangolo
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Beh, salve a tutti! Questa è una storia a cui tengo molto e spero possa piacervi. Divisa in tre parti, di cui questa è la prima: Anacronismo. Anacronismo è a sua volta divisa in tre parti, e viene narrata dal pov di Marilyn Fay. Questa per lo più è una storia di disagio, tutti e tre i protagonisti combattono con qualcosa che è dentro di loro ma non si comforma con la realtà in cui vivino. Spero possa piacervi, e fatemi sapere cosa ne pensate!


20th Century Boy.

 
Questa è una storia nata da una canzone,
da un manga,
 da una fissa perenne.
La canzone è 20th Century Boy,
il manga è 20th Century Boy,
la fissa al momento
preferisco tenermela per me.
 
 
Dicembre 1996
 
It’s plain to see you were meant for me.
 
I.
 
 
 
C
 
 i sono posti che non fanno altro che richiamarmi in testa i tempi andati, posti in cui sono rimasti impigliati pezzi di storia come la galea di Nelson a Trafalgar, involontariamente: perché se avessi potuto, se avessi saputo che avrei rimesso piede qui dentro, proprio all’Endless tra tutti i posti, giuro, avrei evitato di viverle qui le cose più brutte, non so in che modo, ma avrei evitato di incidere indelebilmente sulle pareti la mia  storia.
«È sempre uguale, vero?» dice John. È eccitato per il fatto che io sia qui,  come un bambino; un bambino che scopre che il padre mai presente assisterà alla sua recita scolastica.
Non mi stavo riferendo a qualcosa di particolare, non stavo parlando di me: John sembra davvero così, a sentirlo parlare, si direbbe che c’era anche lui quando  io c’ero.
Alzo la testa, l’insegna verde acido continua a lampeggiare abbagliando per il contrasto luce/notte. Quest’insegna, che è la stessa da anni – solo che allora non aveva le lucette - recita “Endless March”.
Ci sono posti, e io no, questa sera non volevo essere qui. Non è stato un mio desiderio, io non vorrei mettere mai più piede in questo posto. No, non l’ho fatto per me ma solo per te, perché io do una possibilità all’Endless e tu a Marjory.
È una notte fredda e non lo dico. Quando entriamo i ricordi rischiano di prendere forma sulle pareti ammuffite e sul soffitto basso dove pendono lampade sferiche ormai fuori moda, sui divanetti neri ormai consunti, sui tavolini perennemente coperti di macchie, dall’assolo di chitarra di Take good care che risuona in sottofondo nell’aria, dalle casse attaccate agli angoli della sala.
Non dovrei lasciarmi influenzare ma canticchio le parole della prima versione, quella piena di sbavature. Non posso farne a meno.
Non c’è quasi nessuno, poca gente, per di più nella parte adibita ai fumatori; facce che mai avrei pensato di vedere qui, proprio qui.
Ci sono posti… ma se vent’anni fa mi avessero detto che il nostro rock avrebbe fatto tendenza oggi, vent’anni fa, quando era l’ultima speranza per noi inetti a vivere, non ci avrei creduto.
*
*
*
Tra gli aloni di fumo e la base rock psichedelica che parte dopo la fine di Take good care,  mi sembra di essere capitata in un girone dell’inferno.
E non solo perché nel poster attaccato  al portone d’ingresso sono riportate nella traduzione di Henry Wadsworth le parole del poeta Alighieri: Abandon all hope, you who enter here.
Luci rosse, verdi, gialle e oro di espandono in ogni direzione creando strani effetti magici.
Ragazzi vestiti in pelle da capo a piedi, con gli anfibi dalla suola altissima, quegli spuntoni che s’intravedono nei collari, braccialetti, cinte. Ragazze in gonne e autoreggenti, corpetti, anche loro con gli anfibi e gli spuntoni, il trucco sciolto  nella parte inferiore degli occhi.
Sebbene abbastanza in tema questi ragazzi di oggi, non colgo in loro la vera essenza dell’Endless.
Percepisco le loro occhiate truci alle mie spalle – quasi mi avessero letto nel pensiero – camminando affiancata a John; una ragazza con i capelli a caschetto, rigorosamente tinti di nero, mi guarda con aria truce, finisce la sigaretta e butta il mozzicone ai miei piedi, mentre sto passando.
Ho recepito il messaggio: non devo guardarli sebbene loro guardino me. Era così anche per me: nessuno doveva o poteva guardarmi senza che scattasse un meccanismo di autodifesa.
Pezzi di vita mi passano davanti: io su quel divano sull’angolo, dove ora è sdraiato un eroinomane, ho bevuto il mio primo e unico bicchiere di laudano; oppure lì, vicino al vecchio juke box, dove un gruppo di ragazze dark lolita sta cercando di far partire una canzone, ai miei tempi si diceva che quella sospetta macchia bianca sul tappeto fosse opera di Jimmy Jewett e di una delle sue sciacquette; o più in là, sulla parete dove si trova l’acquario dove  si susseguivano i pesci rossi del vecchio Eneas, c’è ancora la foto polaroid di me e Sam che beviamo assenzio scambiandoci baci e amore, perché l’alcool mi fa anche quell’effetto; o sul palco dove le band si esibivano inseguendo sogni sconosciuti, rimane ancora la scia di una melodia a me troppo nota; oppure lì, nascosta dietra il palo portante dell’edificio Mary Jane non faceva altro che fare la posta a Ted… e quelle ragazze che mi stanno guardando, non potrebbero star guardando John?
Stanno guardando John perché porta quella giacca di pelle piena di zip e catenelle, quei pantaloni con l’attaccatura della cinta al ginocchio richiamano al bondage, quegli scarponi neri da motociclista che stridono contro il parquet non lucidato dell’Endless. Lo guardano perché è bello.
John. Il mio ragazzo.
John è la cosa più bella che mi sia mai capitata e io ne sono molto fiera.
Mi accosto più vicino a lui, le nostre braccia si sfiorano e riesco a percepire lo sfrigolio della  sua giacca di pelle sul  tessuto rosso del mio vestito. 
John si volta a guardarmi, è –  facciamo una quindicina di centimetri– più  alto di me, quindi deve abbassare il volto, e sia l’angolazione del viso, sia l’espressione confusa che assume, sia le luci, creano un mix di effetti che rendono la sua espressione una maschera grottesca.  
Lo prendo per mano prima che possa dire qualcosa, e lo trascino – o meglio lui si lascia trascinare, perché se volesse oppormi resistenza non lo sposterei nemmeno di un millimetro – al divanetto nero più vicino.
L’uno sopra l’altro, vicini al bracciolo destro del divanetto, c’è una coppia di ragazzi che continua a sbaciucchiarsi da quando abbiamo messo piede nel locale.
Mi siedo al bracciolo opposto, il più lontano possibile da loro, e John si ritrova nel mezzo.
«Fate con comodo» dice, quando i ragazzi si staccano e lo guardano, le guance più scure del resto del viso. «Non mi da alcun problema» aggiunge per rassicurarli, e io so che sta dicendo davvero.  Non è bugiardo come me.
Dalle casse partono le note di Yes, the river know.  
Bene, siamo in vena nostalgica questa sera. Prima quella canzone e ora questa, ma va tutto bene.
No.
Rischiano di farmi  piangere.
Mordo il labbro e respiro, molto lentamente. Servirebbe una busta di carta per farlo bene, ma ora come ora non saprei dove trovarla senza allarmare il mio ragazzo.
«C’è qualche problema?» chiede John.
Si, c’è qualche problema. C’è il problema che il dottor Rocher mi ha raccomandato di non sottopormi a ulteriori stress dopo il lavoro, e che tu sapendolo benissimo mi hai portato qui lo stesso.
«I miei occhi mi stanno giocando brutti scherzi.»
«Davvero?» dice John, avvicinandosi al mio viso. Mi alza il mento con la mano sinistra, e io mi ritrovo i suoi occhi scuri. «In effetti sono un po’ umidi…» scherza.
Giro il viso di lato, stropicciandomi le palpebre con il braccio, e tirando su con il naso.
«Lascia perdere. Il fatto è che…»
«Stanno suonando Yes, the river know» finisce lui per me, alzandosi. Mi conosce troppo bene.
Mi porge una mano, gli occhi gli si ristringono inteneriti e dice : «Vuoi ballare, Marilyn?»
«No.» Devo procedere con i piedi di piombo, qui, o rischio di ferirlo. «Piuttosto andiamo a bere qualcosa.»
John non ci rimane nemmeno male, si precipita al bancone bar in meno di dieci secondi, e si siede sul primo seggiolino che si trova davanti.
Non colgo tutto questo entusiasmo, quindi procedo più lentamente. La prima volta che sono entrata all’Endless ero già ventenne.
Quando arrivo al bancone John ha già il suo boccale di birra alla spina in mano, l’adorabile labbro superiore ricoperto da uno strato di  schiuma bianca; sta parlando con il barista, un ragazzo dai rigorosi capelli tinti di nero a formare la cresta più alta e affilata che io abbia mai visto – deve chinare il collo per passare attraverso la porta d’ingresso dell’Endless? – il  viso sottile e gli occhi dalle iridi pallide contornati da uno strato sbavato di matita.
«Come hai fatto?» Mi siedo sul seggiolino accanto.
«A fare cosa?» John, di rimando, lecca via lo strato di schiuma dalle labbra con aria innocente.
«L’alcool.»
Dalla tasca del giubbotto tira fuori una tessera e se la rigira tra le dita. Con il braccio scatto verso di essa, ma lui schiva con facilità il mio tentativo portando il braccio in alto.
Ho i riflessi lenti, non posso farci nulla.
«Un documento falso. Fammi vedere la foto».
«Bastava chiedere» dice John, sfoggiando la sua tipica ironia. Mi considera ridicola, nei panni dell’adulto responsabile. Mi immobilizza il braccio sinistro con la mano per essere sicuro che non gli giochi altri brutti scherzi, o che non gli sequestri il documento, e lo fa svolazzare davanti ai miei occhi.
La foto ritrae un tizio sulla ventina dal viso paffuto, un accenno di barba e lunghi capelli castano scuro fino all’altezza delle spalle. Nome: Fich Martin. Età: ventun anni.
Ventun anni.
Rivolgo al barista lo sguardo più truce.
«E lui dovrebbe assomigliare all’uomo nella foto?»
L’unica cosa che quel tipo ha in comune con John sono il colore e la lunghezza dei capelli.
Il barista alza le spalle. «Come due gocce d’acqua» assicura. Fa l’occhiolino al mio ragazzo mentre shakera un drink. Se non fosse per la cresta esagerata vent’anni fa avrebbe potuto piacermi.
«Siamo identici, Marilyn, lo dice anche Jeff» conferma John, sorseggiando tranquillamente la sua birra.
No, tu sei identico a me; ergo: non puoi assomigliare a quel tipo.
Con la mano gli agguanto la guancia liscia come una pesca.
«E la tua non-barba? Anche quella è identica a quella dell’uomo?»
Nessuno si prende la briga di rispondermi.
«Anche tu ti chiami Fich Martin?»
Il cosiddetto Jeff sbatte sul bancone un bicchiere da cocktail vuoto.  Prende due bottiglie, una per mano, e incrociando le braccia comincia a riempire il bicchiere. Passa ad altre due bottiglie, sempre con lo stesso fare maldestro, versa il drink che prima stava shakerando finché il bicchiere è colmo di un liquido color porpora. Fa scivolare il cocktail nella mia direzione, fino a che raggiunto l’orlo del bancone non si scontra con il mio addome. Lascio la guancia di John e indico il drink.
«Io non lo volevo.»
Jeff deve trovare quest’affermazione molto divertente perché comincia a ridacchiare. «Questo è una specialità dell’Endless, lo offre la casa: il Marilyn Monroe» dice e lancia uno sguardo a John.
Da come si guardano è chiaro che per loro  la cosa dovrebbe farmi piacere.
«Grazie.»
Mi porto il drink alle labbra, gustandone un sorso. Ha un sapore dolciastro.
«È buono.»
Jeff sorride, fa un cenno a John e indietreggia fino a scomparire dietro la porta che porta alle cucine.
«Bel ragazzo…»
«È gay» mi interrompe John.
Ah.  
«Lasciami finire, vuoi? Bel ragazzo, ma non è portato per fare il barman».
Il Marilyn Monroe è a dir poco vomitevole.
«Hai detto che è buono» mi fa notare John, alzando un sopracciglio.
«So quello che ho detto, non volevo offenderlo».
John si porta il boccale ormai mezzo vuoto alle labbra, e beve un lungo sorso. «Da quando in qua t’importa di offendere le persone? Stai invecchiando» dice. Se fosse una cosa possibile, lo odierei quando fa così.
«Non sai quanto tu abbia ragione.»
John sbuffa, alzando gli occhi al cielo. «Jeff non è un barman, è un batterista, stava sostituendo un attimo Olivia al bancone.»
«Olivia?»
Questo nome mi suona familiare.
John sta quasi per rispondere quando sentiamo delle urla provenire dalla sala fumatori, alle nostre spalle. Mi  giro dietro e quella che sento è proprio la voce del vecchio Eneas, sebbene non riesca a vedere proprio niente. Il gruppo di ragazzi rockettari fa muro.
«OLIVIAAAAA!» sbraita la voce di Eneas. «Per cosa CAZZO credi che ti paghi? Per startene cinquanta volte al giorno a FUMARE? MUOVI IL CULO E TORNA DIETRO AL BANCONE! O ti giuro, sulla mia defunta moglie, che quella sigaretta sarà l’ultima che fumerai qui dentro!»
Io e John ci scambiamo un’occhiata.
«Non penso che alla sua età gli faccia bene urlare a quel modo» commenta.
Ma il vecchio Eneas era già vecchio vent’anni fa.
Mi trattengo, John è curioso: non ho nessuna intenzione di riaprire l’argomento “L’Endless negli Anni Settanta”.
Una donna sbuca fuori dall’ammasso di ragazzi della sala fumatori,  ingobbita, come se cercasse di nascondersi ma…
Oh, no cazzo.
«HAI DIECI SECONDI PER PORTARE IL TUO CULO DIETRO QUEL BANCONE, OLIVIA! Uno… Due…Tre…»
Il vecchio Eneas ancora non si vede sebbene le sue urla si sentano benissimo.
«…quattro…»
La donna che si sistema addosso il grembiule nero con incise in un verde smeraldo le parole “Endless March”, che mentre corre si lega in uno chignon improvvisato l’ammasso scuro di capelli ricci, si vede benissimo.
«…Sette…»
Io la conosco.
«…Otto…»
Potrebbe essere chiunque altro.
«…Nove…»
Ma quei capelli, quel nome - «…Dieci» - quel  fancazzismo nel fare le cose.
Mi rigiro, spero non sia troppo tardi. Spero non mi abbia ancora visto.
Olivia mi passa accanto, poggia le mani sul banco e – con  un’agilità che non credevo avesse – lo  scavalca con un salto, ritrovandosi dall’altra parte. Davanti a me. Le do il profilo e guardo John, parando con la mano la parte di viso che può vedere.
Sento il suo respiro affannato.
Oh, ti prego, fa che non si accorga di me.
«Olivia» dice John.
Troppo tardi.
«Fanculo il vecchio» rantola Olivia. La voce è quella.
Non oso guardare, ma sono sicura che lei stia guardando me.  
«Un volto nuovo…» dice in tono cordiale, passa qualche secondo,«… o uno già visto.»
Nell’aria risuonano le note di The man who sold the world e la voce di Bowie.
«Sta parlando con te, Marilyn» m’informa John.
Come se non lo sapessi…
«Marilyn… allora sei Marilyn Fay?» esclama Olivia.
«Vi conoscete?»  John è sbalordito.
Gli lancio un’occhiataccia. «Sapevo di non dover venire qui.»
«Guarda che ti sento, stronza!» Olivia ride.
 «Marilyn Fay, chi non muore si rivede» dice poi. «E di te, si è detto molto spesso che eri morta».
Mi giro verso di lei, la guardo, e mi sembra di tornare a vent’anni prima.
È quasi uguale  all’Olivia ventunenne: ha gli stessi occhi, gli stessi capelli con la stessa tinta. Solo, il viso è  segnato da delle rughe che svelano le sue cattive abitudine, due solchi profondi agli angoli della bocca e le zampe di gallina.
È normale, è invecchiata. Anche lei guardandomi potrebbe dire lo stesso di me.
«Marilyn Fay?» domanda ancora John.
«Hai ancora quel vizio di chiamarmi con il mio nome intero.»
Olivia tiene gli occhi puntati su di me fino a che non si accorge che John ha parlato, e allora sfoggia un sorriso tenero. Un tipo di sorriso che non ricordo di aver mai visto sulle sue labbra.
«Marylin Fay, hai già conosciuto lui, vedo. Il nostro Sid, il ragazzo-che-non-sorride-mai» e mentre dice questo, sebbene si rivolga a me, non mi degna di un’occhiata.
«Il ragazzo-che-non-sorride-mai?»
«Sì» fa Olivia, si sporge dal bancone per stampare un bacio sulla guancia  di John. «Il nostro Sid fa impazzire molte ragazzette più grandi di lui…» con l’indice tocca prima l’una e poi l’altra guancia di John, «ma non lo si vede sorridere mai mai mai.»
Ok, è vero che John non è un tipo proprio allegro, ma a sorridere sorride. O meglio: ghigna. E quando ghigna il suo volto assume una bellezza malevola.
«Comunque, volete qualcosa?» Olivia, ritira il boccale ormai vuoto di John e il mio Marilyn Monroe senza che io l’abbia chiesto. Ma non mi dispiace.
«Tesoro per te offre la casa» aggiunge rivolta a John.
«Io un’altra birra, allora.»
«Non è un po’ troppo?»
Il mio goffo tentativo di fare l’adulta fa scoppiare a ridere Olivia così forte che i bicchieri quasi le cadono dalla mano.
«Chi sei, sua madre?»
La guardo male, aspettando che  sfoghi la sua vena ilare. Io non lo trovo divertente. John è il ragazzo-che-non-sorride-mai, quindi neanche lui sta ridendo granché.
«Oh mio dio. Cazzo» dice, ma anziché smettere ora  sta ridendo più forte. «Oh cazzo, cazzo, cazzo. Non ditemi che siete…» è piegata in due dal ridere.
«Sì.»
Olivia spalanca gli occhi, un risolino incredulo le esce dalle labbra carnose, mentre si asciuga le lacrime con la manica della sua camicia: «Avrei… avrei dovuto capire che c’entrava qualcosa con te… Voglio dire: siete uguali.» Sul banco posa un bicchiere di vodka liscio con ghiaccio e una birra alla spina. Dice: «Siete uguali: tutti e due stronzi come poche persone ho incontrato nella mia vita.»
*
*
*
La  vodka liscia mi rende amorevole e incline a dimenticare. Non ricordo più e non riesco a ricordare perché detestavo tanto Olivia. L’alcool mi fa quest’effetto.
«Diciotto anni e dieci mesi che non metti piede qui dentro, Marilyn Fay» sbotta all’improvviso Olivia. È stata per cinque minuti appoggiata coi gomiti al bancone, silenziosa, a guardarmi sorseggiare la mia vodka. «Diciotto anni e adesso ti ritrovo qui. Molti ti davano morta, sai?»
Non mi sembra così improbabile, contando com’ero ridotta in quel periodo.
«Hai tenuto il conto?»
«Perché sei venuta oggi?» continua ad indagare la mia ex nemica.
«È merito mio» dice John, sebbene io direi colpa. «Sono io che gliel'ho chiesto» ripete.
Olivia accenna un sorriso distratto a John per poi riprendere a soppesarmi con lo sguardo, conoscendomi sa che non ero solita fare favori agli altri, ma con John è tutt’altro discorso.
«E tu hai accettato per amor suo?» chiede.
«No. Vuole che dia una possibilità a una ragazza…» dice John acido.
Lo scruto e… me ne ero completamente dimenticata. «Sì, esatto. È proprio quello che voglio».
John alza gli occhi al cielo. Gli lancio un’occhiata di traverso e lui ricambia, con la stessa indole malevole e rabbiosa.
Come abbia fatto a diventare così... a un certo punto, non so dire quando né come, ha cominciato ad assomigliarmi.
Joe me lo rinfaccia sempre, «mi hai rovinato il ragazzo» dice. Non è una bella cosa per un adolescente essere già come me…
«Con chi mi tradisci, tesoro?» Olivia s’intromette nel nostro duello di sguardi. Un sorrisetto compiaciuto si disegna sulle labbra del ragazzo-che-non-sorride-mai.   
Mi porto alla bocca il bicchiere di vodka, con cautela mi bagno le labbra del liquido trasparente. Olivia si ricorda che era il mio liquore preferito, anche se per vent’anni non ho più potuto vedere la vodka nemmeno da lontano.
«Tradisci?»
Olivia strofina un panno umido sul bancone di marmo nero, ripetutamente, forse sperando di togliere quelle macchie di liquido incrostate sulla superficie.
«Ovvio, Marilyn Fay, adoro Sid» Olivia si sporge oltre il bancone, il viso alto, lanciando bacetti a John con la mano e facendo suoni umidicci con le labbra, e lui sembra gradire molto. Addirittura: il ragazzo-che-non-sorride-mai ha sorriso due volte in una serata.
«Mi adora.» John si volta verso me con quel suo sorrisetto compiaciuto. È  venuto su abbastanza narcisista, forse ha ragione Joe.
Ma è normale che ti adori, a dir la verità  con te non può essere altrimenti: o ti si ama follemente o ti si detesta dal profondo. E io, beh, propendo per la prima parte, come è chiaro che faccia Olivia.  
«Chi è la fortunata?» dice Olivia. «Quest’altra con cui tradisci me e tutte le altre?» Continua con questa storia. È petulante. Se non è cambiata nel corso degli anni Olivia deve essere ancora una tipa che liquida tutto con una risata sarcastica.
Non sa quanto la questione sia importante, quanto sia difficile e quanto io ci tenga al fatto che le cose vadano bene, almeno per lui. Che incontri una brava ragazza e finisca tutto bene.
«Non è la mia ragazza. È sola una che mi viene dietro, una delle tante» precisa John sbuffando. Se non fosse che è lui  troverei detestabile chiunque pronunciasse queste parole.
«Non è una delle tante se piace a Marilyn Fay, Sid» osserva Olivia, inclinando la testa.
Mi stai prendendo in giro?
«Deve piacere a me» ribatte John, lapidario. Si è incupito: il fatto che una ragazza sia interessato a lui e mi piaccia lo inquieta molto, di solito non accade mai.
«E non ti piace. Non è molto bella allora, vero?» Olivia sta lucidando dei bicchieri di cristallo con un pezza. Da quando si è messa dietro quel bancone non è rimasta ferma per un momento, forse sniffa ancora cocaina.
«È bella».
«È bella» ripete Olivia.
E in sua difesa, devo dire che Marjory lo è veramente. Cioè, io almeno  penso davvero che sia bella.
John emette una risatina, forse per smorzare la tensione. Picchietta le dita sul bancone, sento il ticchettio, lo fa sempre quando è a disagio. Non ha gradito che abbia parlato bene di Marjory, forse, o non so.
«Non abbastanza bella» mormora, «non è lontanamente bella come Marilyn» continua senza guardarmi in faccia. Guarda Olivia.
Poso il bicchiere di whisky sul bancone, tenendolo con ambedue le mani, perché non voglio rovinare il lavoro di Olivia. Quando mi agito, ho ancora quel tremore al braccio sinistro.
Questo non lo volevo sentire.
Le lacrime pungono ai lati degli occhi per uscire, ma resisto – quando si tratta del mio ragazzo sono parecchio emotiva – nonostante lui pensi che sia un complimento questa frase non è una frase che mi sta bene addosso, guardandomi ora, no no, né si abbina al vestito rosso che porto e al mio aumento di peso; tutt’al più sarebbe potuta almeno centrare alla me stessa di venti anni fa.
Non puoi avere una come me, John. E no, non mi sto vantando. Questo comparare o volere una ragazza che mi somigli non porterà a niente di buono, e non voglio questo per te. Non voglio…
«Beh, è un altro conto» Olivia distrae da pensieri nocivi. Olivia scandisce lentamente le parole, tra il silenzio generale che si è creato. Anche lei, come molti altri, starà pensando che c’è qualcosa di strano nelle dinamiche del mio rapporto con il ragazzo-che-non-sorride-mai. «Ci vorrà tempo prima che trovi qualcuno che riesca a rivaleggiare con Marilyn Fay.» 
«Marjory è molto bella, smettila di divinizzarmi John».
«Non è così bella, non ha nemmeno l’atteggiamento giusto» dice John storcendo la bocca. Sminuisce ogni mia frase con una smorfia, quando non vuole sentir ragione.
E “atteggiamento”: quante volte devo dirti che quella parola mi irrita come poche cose?
Deve sapere anche Olivia cosa intende John con “atteggiamento”, visto che chiede: «Perché, che genere di musica ascolta?» Lucida lo stesso bicchiere da tre minuti, deve sentirsi molto a disagio ma continua a intromettersi nella conversazione. Se non le piace il nostro rapporto, mio e di John, può benissimo andare da un’altra parte a lucidare i suoi bicchiere, invece di continuare a lanciarmi occhiate del tipo “mayday-mayday dobbiamo parlare”.
«Celine Dion e Mariah Carey» risponde John disgustato. «E lei vorrebbe che dessi un’opportunità a una ragazza con quell’atteggiamento.»
«Anch’io, se avessi la tua età, ascolterei Mariah Carey.»
Tutti e due mi guardano con un sopracciglio alzato.
«Naaaah» dice Olivia scuotendo la testa. «Tu, Marilyn Fay, ascoltare Mariah Carey? Non penso proprio. E per quanto riguarda quella Marjory, ora capisco perché non ti piace Sid.»
Grazie, grazie tante Olivia. Grazie per aver sminuito ulteriormente Marjory agli occhi del ragazzo, e grazie, grazie dal profondo del cuore per avermi fatto sentire più vecchia.
«L’unica cosa che ha di simile a Marilyn è il nome» concorda John, continuando con quest’assurdità.
«Tu non vuoi veramente una ragazza come me, John. Se avessi veramente una ragazza come me, ti butteresti dall’ultimo piano di un grattacielo.»
Non ribatte nessuno, sento il disagio che si dilaga nell’aria, assieme a uno di quei pezzi delle rock band che oggigiorno hanno successo e, ok, questa avrei potuto risparmiarmela.
Non avrei dovuto dirlo, lo capisco dal modo in cui mi avete guardato e l’attimo dopo vi siete scambiati un’occhiata, ma ormai l’ho fatto, quindi venitemi incontro, vi prego. «Non suona più nessuno dal vivo?»
Olivia lancia una sguardo incerto a John, poi sospira. «Non oggi e non più come una volta.» La voce è triste. Mi fissa: «Il nostro Sid suona la chitarra, sai?»  John fa un cenno d’assenso, si sta sforzando per farsi passare il cattivo umore.
«Glielo insegnato io.»
«Gliel’hai insegnato bene» conclude Olivia. Un sorriso nostalgico affiora tra le sue labbra e anch’io sorriderei se non sapessi a cosa sta pensando in questo preciso momento. A chi ha insegnato a suonarla a me, la chitarra.
«Sono  il migliore, in tutta piazza» dice John.
Potrei annegare nei ricordi.
*
*
*
C’è John che si lascia trascinare da una ragazza in mezzo alla pista semivuota dell’Endless.
Una ragazza bassa, dall’aspetto trasandato, bruttina, balla con John scatenandosi come una pazza, mimando il gesto di far vibrare le corde con il plettro. John sorride.
Suona un assolo di chitarra elettrica dalla casse. Non riesco a riconoscere la melodia.
John ride, ride. E, mio Dio, quanto è bello quando ride!
Mi verrebbe da ricoprirti di baci.
Non sono fissata con lui. Forse. È l’alcool che mi fa quest’effetto. È lui che salva ogni giorno la mia vita.
Poi c’è John che mi dice: «Sei stanca?»
Sì, sì, so. So di essere stanca.
«Ti è dispiaciuto tanto che ti abbia portato qui?» dice.
Non sai quanto: questo non lo dico.
No, è stato bello alla fine. Una vecchia chiacchierata con i miei vecchi amici.
Voglio tornare a casa.
Guardo che guarda la ragazza che ci sta guardando.
Tu puoi rimanere.
Ma lei non mi piace, lei non fa per te: questo non lo dico.
Vedo il modo in cui vi guardate e quindi non lo dico, ma tu prima o poi sceglierai Marjory. Perché lei non è… Perché.
Infilo le mani in  mezzo al seno e tiro fuori un paio di banconote, gliele ficco in mano.
Non sprecarli per bere! Se non ce la fai a tornare a casa alloggia al Bed & Breakfast qui accanto.
«Non ti preoccupare, mi riaccompagna Olivia» John interrompe.
Ok, so che lei ti piace ma devi sapere che è una gran stronza e… punto, e penso che invece di starle appresso e seguire i suoi consigli dovresti ringraziare il cielo di aver una ragazza come Marjory: questo non lo dico.
Devo uscire di qui, devo uscire di qui, scusa, John, ma devo uscire di qui prima che mi salga la nausea.
Per i troppi ricordi: questo non lo dico.
«Sei sicura di riuscire…»
«L’accompagno io fuori, tesoro.»
Olivia mi cinge la vita.
Ma non la voglio toccare, ti prego levati prima che ti dia un pugno in faccia, prima che ti vomito addosso.
Riesco a arrivare alla porta, non so come, poi riesco a respirare l’aria fredda e fetida.
Chi è quella?
Apro gli occhi, ho voglia di dormire. Le buste nere dei rifiuti dell’Endless mi faranno da letto, se ti ci appoggi sembrano quasi morbidi e una volta che ti abitui alla puzza non è tanto male.
«Non puoi dormire qui, Marilyn Fay» Olivia disturba. Sento degli schiaffetti sul viso. «Alzati, o vuoi  che ti arrestino per disturbo al come diavolo si dice… decoro! Alzati…» Olivia molesta. Pizzichi lieve alla guancia. «Cazzo, Marilyn Fay, non puoi dormire su dei rifiuti! Non lo vedi come sei messa?»
Sono stata peggio, molto peggio, e non sarebbe la prima volta.
«E Sid? Che mi dici di Sid, non sarebbe la prima volta che ti vede così?» Olivia mi scuote il braccio e cerca di tirarmi su.
John.
Ecco perché vedi, io non volevo venirci all’Endless, non volevo entrare mai più in questo posto.
«So che non volevi venire, da quando ti ho vista ho capito che non potevi essere qui di tua spontanea volontà, Marylin Fay» sussurra al mio orecchio. «So che questo è niente rispetto a come ti riducevi vent’anni fa. Ma il ragazzo… lo sa? Dal nostro Sid vuoi farti vedere così?»
No, non posso, John è il mio punto debole.
Mi tiene bloccati i polsi con le mani, e mi tira su con uno strattone.
Il mondo mi gira atttttttorno.
Chi è la ragazza che balla con John? Il mio John?
«Lisa» dice Olivia. «La piccola Lisa».
No, ti prego, non può piacere a John, è brutta, bassa, e non mi assomiglia per niente. È troppo allegra.
«Tu dici? Gliel’ho presentata io, e a Sid piace il suo atteggiamento.»
Ho la nausea.
Gliel’hai presentata tu?
Ho voglia di strangolarti con le braccia con cui ti ho cinto il collo, ma non posso.  Gli anni passano ma te, Olivia White, tu rimani sempre stronza come la prima volta che ti incontrai. Stronza come poche persone ho mai conosciuto nella mia vita, altrimenti non avresti mai lasciato che quella ragazzina provasse ad avvicinarsi a John.
«E tu continui ad avere qualche rotella fuori posto» ribatte Olivia tranquilla, con una manata toglie le mie mani dal suo collo e quasi rischio di cadere. «L’unico motivo per cui non ti piace Lisa è che sei malata e hai deviato Sid in non so quale modo, manipolatrice del cazzo.»      
E non so come, trovo il colletto della sua faccia e poi trovo un muro su cui appiccarla con tutte le mie forze.
Olivia tu sei una gran stronza, sappilo, e John è già abbastanza incasinato senza che ci si metta una ragazzina dal fascino drammatico.
Prendo grandi boccate d’aria, ispiro ed espiro, perché non posso vomitare adesso.
Io voglio bene a John, giuro, gli ho sempre voluto bene. Voglio solo il meglio per lui, non la mia fine… lui si merita di finire così.
Olivia non ribatte, mi guarda e basta. Deve pensare che io sia pazza.
Ho la vista momentaneamente appannata, ma riesco a vedere riaffiorare dai suoi occhi tutto l’odio degli anni passati, e se non fosse per John, se non fosse per John sono sicura mi avrebbe già dato un pugno in faccia.
Lui non glielo perdonerebbe mai, e lei gli vuole bene sebbene sia una stronza.
Succede qualcosa di strano.
I suoi occhi, gli occhi di Olivia, si illuminano. Sorride.
Sorride sebbene l’abbia appena sbattuta al muro e detto quanto è stronza.
«Figlio di una buona donna… Edward Nicholson!» urla.
Sta guardando oltre le mie spalle.
Con uno spintone mi manda di nuovo tra le buste della spazzatura, mi sorpassa.
«MA COSA CAZZO… Avete deciso tutti OGGI, voi testa di cazzo, per una rimpatriata in gran stile?» Olivia strilla.
Non oso muovermi. Non oso aprire gli occhi.
Ha detto Nicholson, quell’Edward Nicholson.
*
*
*
Conobbi Edward Nicholson in un locale a Villiers Street, in un giorno di Dicembre del 1976, quando ancora l’Endless di Trafalgar Square non era posto di ritrovo per noi derelitti. C’erano tre cose di cui Edward Nicholson era amante nel 1976:  la cocaina, Wagner e il Duca Bianco.

 
   
 
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