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Autore: Tielyannawen    11/10/2015    4 recensioni
Sotto il cielo di Arda accade a volte che alcuni cammini si incontrino, legando indissolubilmente destini altrimenti separati.
Dal testo:
«Tu non dovresti essere qui... perché sei tornato indietro?», chiese con un filo di voce, lottando per non lasciarsi avvolgere dalle ombre.
«Perché non potevo abbandonarti. Tu ci hai mostrato la via quando la credevamo perduta e hai lasciato la tua casa, rischiando la vita per salvarci. È ora di pagare il nostro debito».

Dicono che la storia sia fatta da eventi straordinari, ma a volte sono proprio le piccole cose quelle di cui dobbiamo serbare ricordo.
Queste pagine ne sono memoria... perché in fondo tutti cerchiamo la nostra strada nel mondo.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bilbo, Elfi, Gandalf, Nani, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Un’improbabile melodia

Bianche colonne salivano verso l’alto, piegandosi in archi sottili che davano vita a morbidi intrecci sulla volta del soffitto. Thorin apprezzò la semplicità delle linee e ammirò la maestria con cui una simile dimora era stata realizzata. Tutto attorno a lui esprimeva armonia e purezza. Eppure, non seppe trovare in quelle opere nemmeno la metà della profonda devozione che, con un solo colpo di scalpello, un nano era in grado di imprimere nella pietra.
Thorin sedeva al tavolo d’onore, insieme a Gandalf e al Signore di Gran Burrone, Elrond il Mezzelfo. Si sforzò di apparire cortese e imperturbabile, come gli aveva caldamente suggerito Balin. Il vecchio nano era un abile diplomatico, dote che lui invece non possedeva. Il suo animo si infiammava con facilità, facendolo scattare contro chiunque avesse di fronte.
«Queste non sono spade elfiche qualsiasi», stava dicendo Elrond, mentre osservava alla luce delle lanterne le due lame che avevano trovato nella caverna dei troll. «Sono armi molto antiche, forgiate a Gondolin [1] nelle fucine dei Noldor, la mia famiglia. Furono create nella Prima Era per le guerre contro gli Orchi. Come ne siete entrati in possesso?».
Gandalf fece un sorrisetto e si versò un bicchiere di vino prima di rispondere. «Facevano parte di un bottino troll. Giacevano dimenticate e piene di ragnatele in una grotta fetida, non lontano dalla Grande Via Est.»
«E cosa ci facevate sulla Grande Via Est? Uno stregone, tredici nani e un mezzuomo. Davvero una bizzarra compagnia. Quale motivo vi ha spinto a viaggiare insieme?», chiese Elrond con interesse, i brillanti occhi grigi fissi sullo stregone.
Apparentemente colto alla sprovvista dalla domanda mentre sorseggiava il vino, Gandalf iniziò a tossire emettendo strani versi soffocati.
Elrond sospirò e tornò a studiare le lame. Si soffermò prima su quella scelta da Gandalf: era diritta, lunga sei spanne e affilata su entrambi i lati, con l’elsa riccamente decorata da piccole pietre grezze color del mare profondo. Sfiorò la guardia e sotto la patina lasciata dal tempo comparvero delle rune. «Questa è Glamdring, la Battinemici», esclamò traducendo l’iscrizione. «“Turgon[2] Re di Gondolin brandisce, possiede e maneggia la spada Glamdring. Nemica del reame di Morgoth, martello dell’orda chiassosa”. Apparteneva al nonno di mio padre, ma si credeva perduta da secoli. Abbine cura Mithrandir; grande è la sua potenza e sento che il tempo delle sue valorose imprese non è ancora terminato». La ripose nel fodero d’avorio e la restituì allo stregone, che la accettò con un cortese cenno del capo.
Spinto da un’intuizione, Elrond esaminò la seconda spada, un’arma fendente con un solo lato affilato e molto ricurvo; sul pomolo erano incastonati alcuni diamanti. «E questa è Orcrist, la Fendiorchi, compagna di Glamdring. È una spada famosa. Centinaia di orchi e creature malvage caddero sotto i suoi colpi. Secondo la leggenda fu brandita da Ecthelion [3] durante l’assedio di Gondolin», disse con ammirazione. Passò un lembo della manica sulla lama, rivelando nuovamente delle rune, che lesse con voce profonda. «“Orcrist, il dente del serpente. Nata dalle fauci dei draghi, sono sempre affamata”. Uno strano destino l’ha condotta fino a te, Thorin figlio di Thrain».
«Perché dici questo?», chiese Thorin, corrugando la fronte mentre il cuore gli martellava nel petto.
«Perché l’impugnatura di questa spada fu realizzata dalla zanna di uno dei primi draghi comparsi nella Terra di Mezzo, appartenente alla stessa razza maligna che ha causato tanta sofferenza alla stirpe di Durin. Possa questa lama servirti bene, Thorin Scudodiquercia, e possa essere un auspicio per un futuro di amicizia tra i nostri popoli».

 

2770 T.E. – MONTAGNA SOLITARIA
Thorin non amava gli Elfi. Nonostante la sua giovane età, ne aveva incontrati molti e aveva osservato i loro sovrani porgere ossequi al padre di suo padre, Thror, Re sotto la Montagna. Inchini eleganti, vesti scintillanti e parole cortesi. Ma la fiducia di un nano non era facile da conquistare. La loro compostezza lo irritava e dietro i sorrisi garbati non scorgeva altro che presunzione; alcuni occhi poi celavano vanità e avidità.
«Non devono piacerti, nipote, ma un regno ha bisogno di alleati. E nulla attira sostenitori come la ricchezza. E la nostra ricchezza è grande», gli disse una volta suo nonno, mentre vagava bramoso tra cumuli di monete e pietre preziose.
Tuttavia quel giorno, mentre il suo mondo bruciava e il fuoco inceneriva la sua gioventù, il cuore di Thorin esultò vedendo comparire in lontananza la luccicante armata di Bosco Atro. Si alzò in piedi, pieno di speranza, ma un moto di incredulità lo assalì quando li vide voltarsi e allontanarsi ordinatamente.
Crollò in ginocchio e si guardò le mani: erano vuote e senza difesa, private del suo tesoro più prezioso.
Fu allora che Thorin capì che nessun aiuto sarebbe giunto. Era solo e lo sarebbe stato per sempre.

 

E mentre i suoi compagni ridevano e battevano le mani, impegnati in un lancio di verdure senza quartiere, nella mente dell’erede di Durin risuonarono gli echi dell’attacco di un drago.
 

Helan sedeva tra Elladan ed Elrohir, poco distante dal tavolo d’onore, dove suo padre stava esaminando due spade di meravigliosa fattura. Vide gli occhi color ghiaccio del nano a capo della compagnia farsi sempre più scuri, come agitati da una tempesta, e si chiese in quale luogo lontano l’avesse condotto il fiume dei ricordi.
«Non mi piace il cibo verde. Secondo voi conoscono la carne e le patate croccanti?».
La voce che aveva parlato era timida ma acuta e le ricordò i capricci di Estel. Con un sorriso si voltò per cercarne il proprietario e scoprì che apparteneva ad un giovane nano, infagottato in una spessa sciarpa di lana e con le dita macchiate d’inchiostro. Stava lottando, con scarsi risultati, per impedire che un altro nano lo imboccasse con una generosa porzione di insalata.
Osservando con più attenzione i due bassi tavoli al centro della sala, l’elfa notò che molti dei nani erano contrariati. Conosceva ben poco della loro cultura e delle loro usanze, ma il disappunto sui loro volti era palese. Si guardò intorno e incrociando l’espressione soddisfatta di Erestor sospettò che la decisione di tenere un banchetto a base di soli frutti della terra si dovesse a lui. Il pensiero che gli ospiti fossero stati messi in difficoltà volutamente la intristì, perché Imladris era una terra di accoglienza.
Anche Mithrandir doveva aver percepito la tensione tra i convitati, perché si affrettò a lodare con parole forbite la nobiltà e la grandezza della stirpe di Durin, nonché la profonda saggezza dei suoi discendenti. Stava giusto elogiando il sorprendente amore dei Nani per l’arte e la musica, quando un lamento si alzò alle sue spalle.
«Cambiate musica per favore! Con questa lagna sembra di essere ad un funerale!».
Per un lunghissimo istante nella sala risuonarono solo le delicate note dell’arpa, scaturite dalle mani esperte di Gaellin. Lei e la sorella Uiallin erano state convocate per allietare la serata con il loro talento, ereditato dal padre, Ningannel [4], il più grande arpista che la Terra di Mezzo avesse mai conosciuto. Egli era cresciuto sulle rive del mare, cullato dal canto delle onde, ma la sua grande amicizia con Celeborn lo aveva portato a dimorare nei boschi di Lorien. Si diceva che la sua musica potesse toccare l’animo di qualsiasi creatura e che Ulmo in persona lo avesse istruito.
«Va bene ragazzi, c’è una sola cosa da fare!». Un nano dai lunghi baffi arricciati si alzò e si avviò con decisione verso un piedistallo di marmo, posto proprio davanti al tavolo d’onore.
I musicisti fecero tacere gli strumenti; Gaellin si allontanò dall’arpa e Uiallin posò il flauto d’argento. Entrambe le sorelle avevano lunghi capelli color mogano, che incorniciavano due volti luminosi e animati da temperamenti molto diversi: fiera ed esuberante la prima, schiva e benevola la seconda.
Incurante del silenzio che lo circondava, il nano salì con un balzo e fece un profondo inchino toccandosi il cappello. Poi prese un ampio respiro e iniziò a cantare.
«There is an inn, a merry old inn
beneath an old grey hill,
and there they brew a beer so brown
that the man in the moon himself came down
one night to drink his fill
[5]».
La sua voce era ruvida ma allegra ed Helan notò quanto si sforzasse di coinvolgere i presenti, tenendo il tempo con un piede e senza mai smettere di sorridere. Non aveva nulla in comune con i soavi componimenti tanto amati a Imladris, ma il ritmo era brioso e incalzante.
«Cosa hai in mente?», le chiese Elladan quando la vide alzarsi all’improvviso.
«Lo vedrai», sussurrò l’elfa allontanandosi.
Mentre si avvicinava al piedistallo, Helan ne approfittò per assestare una lieve gomitata a Lindir, che la fissò di rimando con aria interrogativa. In tutta risposta ella indicò la cetra e gliela mise tra le mani senza permettergli di rifiutarsi.
«Avanti», lo incitò. «Sarai l’unico musicista della Terza Era che potrà dire di aver interpretato le tipiche sonorità naniche. È un’occasione più unica che rara. E sono davvero certa che la impressionerai», concluse, ammiccando in direzione della flautista.
Le guance di Lindir si fecero rosate mentre si voltava verso Uiallin. Restò un momento a contemplarla, prima di riscuotersi e iniziare a suonare, accompagnando con abilità le parole del nano.
Con un sprazzo di soddisfazione dipinto sul volto, Helan raggiunse la sua meta ed eseguì una piccola riverenza, conscia di come l’attenzione si fosse spostata su di lei. Non le importava. Avrebbe fatto la sua parte, per quanto modesta potesse risultare, affinché nessuno si sentisse isolato o rifiutato. Le era stato insegnato a vivere con bontà e gentilezza, nella speranza di creare un mondo migliore, e mai avrebbe rinnegato tali ideali.
Se il cantante trovò strano il suo gesto non lo diede a vedere. Si calcò con forza il cappello sulla testa e allargò le braccia, invitandola a seguirlo in una danza composta da salti e passi intrecciati, che l’elfa imitò con grazia. Quasi senza rendersene conto, Helan si ritrovò a piroettare al centro della sala, mentre sempre più voci si univano al canto e le verdure volteggiavano festose nell’aria, sotto lo sguardo allibito di Erestor.
«The round moon rolled behind the hill,
 as the sun raised up her head.
 She hardly believed her fiery eyes;
 for though it was day, to her surprise
 they all went back to bed
».

 

Balin si accomodò meglio sui cuscini e annuì soddisfatto di fronte al sorprendente spettacolo di Bofur che danzava insieme all’elfa a cui tutti loro dovevano la vita. Non era che un piccolo passo, ma lui era in grado di vedere oltre. Forse esisteva davvero una possibilità per cambiare, una possibilità per superare il passato. E, per una notte soltanto, un vecchio guerriero poteva anche permettersi di sognare, mentre note elfiche si fondevano con canzoni naniche in un’improbabile armonia.
 

*****
 

Bilbo non riusciva a credere ai propri occhi. Girovagando per il palazzo dopo il vivace banchetto che si era tenuto in loro onore, si era imbattuto in un luogo straordinario. Eleganti scaffali di legno scuro si alzavano dal pavimento color muschio e riempivano le pareti, creando corridoi e piccoli spiazzi, cosicché si poteva avere la sensazione di camminare in una bizzarra foresta. Ma era il loro contenuto che lo aveva lasciato senza parole per l’emozione. Migliaia di libri e pergamene lo circondavano, così numerosi che non gli sarebbe bastata una vita intera per sfogliarli tutti.
Sfiorò con delicatezza il dorso di alcuni volumi, desiderando ardentemente di possedere le conoscenze necessarie per comprendere quelle rune. Era talmente immerso nella contemplazione da non accorgersi di una figura solitaria seduta alla sua sinistra.
Un fruscio lo fece sobbalzare ed estrasse la spada con un grido, sentendosi immediatamente uno sciocco quando riconobbe l’elfa che li aveva aiutati a fuggire dai mannari nella brughiera e che aveva ballato con Bofur poco prima.
«Oh cielo, mi dispiace!», esclamò lo hobbit, rinfoderando l’arma e portandosi una mano al petto, che sussultava per colpa dei battiti accelerati del suo cuore. «Un comportamento assolutamente inadeguato, vi chiedo perdono mia signora. Temo che la vista di una simile meraviglia mi abbia incantato, facendomi dimenticare le buone maniere».
Ella gli rivolse un sorriso sincero e si alzò, posando il manoscritto che stava leggendo. «Non scusatevi Mastro Baggins. È una gioia vedere come, nonostante la stanchezza del viaggio, apprezziate tanto questo luogo, che anche a noi è così caro. Ditemi dunque, amate i libri?», chiese Helan, osservando lo hobbit con curiosità.
«Fin da quando ero bambino» rispose Bilbo infervorandosi. «E ho un debole per le mappe, colpa del mio lato Tuc, o almeno questo era quello che pensava mio padre. Chissà cosa direbbe se mi vedesse alle prese con questa avventura, e con dei nani per di più! Ma sto divagando, in realtà ero venuto in cerca di qualche foglio di pergamena. Purtroppo sono dovuto partire di fretta e il mio bagaglio è assai scarno».
«Se vi interessa la cartografia dovreste parlare con Erestor. In qualità di bibliotecario saprà di certo indicarvi i testi più interessanti. Riguardo alla vostra richiesta invece, credo che qui potrete trovare tutto quello che vi occorre», disse Helan, mostrandogli uno scrittoio su cui erano ordinatamente impilati fogli di svariate dimensioni. Dai ripiani facevano capolino pennini e inchiostri colorati.
Gli occhi dello hobbit brillarono eccitati. «Vi ringrazio mia signora. Sono riuscito a convincere i nani a farmi sentire di nuovo la loro canzone sui nebbiosi monti gelati e stavolta vorrei appuntarmela, se riesco. Ho provato a chiedere della pergamena a Ori, ma mi ha letteralmente incenerito con lo sguardo. Se un nano mite come lui reagisce così per un semplice taccuino, non oso pensare cosa farà il drago quando ci avvicineremo alla Montagna Solitaria».
«La Montagna Solitaria… Erebor [6]! Dunque è quella la vostra meta!», esclamò Helan turbata, fissando le pagine ingiallite del volume che aveva trovato.
Ben poco si conosceva della storia e della cultura dei Nani, creature estremamente diffidenti e gelose delle proprie tradizioni. Uno dei pochi libri presenti nella biblioteca in cui fossero nominati era una trascrizione di dispacci ufficiali, un mero elenco di notizie brevi e concise provenienti da ogni angolo della Terra di Mezzo. Tra resoconti di esploratori e dati commerciali, l’elfa si era imbattuta in un nome, Thorin, appartenente ad uno dei nipoti di Thror, Re Sotto la Montagna nell’anno in cui un drago giunto dal nord aveva distrutto la città di Dale e conquistato il regno di Erebor. E dopo le parole dello hobbit, Helan non poté più ritenere una coincidenza il fatto che il nano a capo della compagnia portasse lo stesso nome.
Nel frattempo, Bilbo era sbiancato. «Giorni celesti! Non avrei dovuto dire nulla, erano stati tutti molto chiari sulla segretezza… persino un intero stormo di taccole [7] sarebbe stato più discreto. Oh, Thorin non ne sarà affatto felice e tantomeno Gandalf!».
L’agitazione dello hobbit riscosse Helan dai suoi pensieri. Era pallido e sembrava sul punto di cadere a terra svenuto. L’elfa si chinò e gli poggiò una mano sulla spalla, avvertendolo tremare come una foglia nel vento autunnale. Voleva tentare di rassicurarlo e, nonostante non fosse del tutto certa della sua decisione, disse: «Non temete Mastro Baggins, nessuno saprà ciò che ho scoperto. Avete la mia parola».
Bilbo sospirò sollevato e iniziò a profondersi in ringraziamenti, mentre il suo viso lentamente riprendeva colore. Stringeva a sé alcuni fogli di pergamena, eppure non accennò ad andarsene e restò di fronte all’elfa, dondolandosi leggermente avanti e indietro.
«C’è forse altro che vorreste chiedermi?», domandò Helan con gentilezza.
«Sì, ecco, in realtà ci sarebbe…», iniziò Bilbo titubante, «ma è una sciocchezza e quasi mi vergogno a parlarne. Non ho voluto disturbare Mastro Elrond, così ho pensato che forse voi avreste potuto…».
«Non possiedo certo la saggezza o l’esperienza del Signore di Imladris, ma farò del mio meglio per esservi d’aiuto», rispose Helan.
Lo hobbit parve soppesare le sue parole, poi finalmente estrasse la spada dal fodero e parlò. «Ho sentito che le armi di Gandalf e Thorin hanno un nome, derivato dalle grandi azioni compiute nelle guerre delle ere passate. Secondo i miei compagni la spada che lo stregone ha scelto per me non ha mai visto battaglie. A dirla tutta non credono nemmeno che sia una spada, Balin l’ha definita tagliacarte».
Helan osservò l’arma con attenzione. Un elfo o un uomo l’avrebbe considerata al massimo un pugnale, ma per lo hobbit era un’ottima spada corta. La lama era a guisa di foglia lanceolata, su cui era inciso un motivo a svolazzo, e nell’elsa spiccavano delicati inserti d’argento che ricordavano il fogliame di un bosco. La fattura elfica era evidente, ma nessuna iscrizione ne indicava la storia o il precedente proprietario. Ciononostante l’elfa avvertì una sorta di tensione imprigionata nel metallo; a discapito delle dimensioni quella spada doveva racchiudere una certa forza.
«Mi dispiace Mastro Baggins, non so dirvi se questa lama sia stata protagonista di nobili imprese. Credo però che non abbia un nome e questo, a ben pensarci, potrebbe essere una fortuna».
«Una fortuna?», chiese Bilbo perplesso, mentre riponeva la spada nel fodero di pelle scura.
«Sì, perché quando verrà il momento, sarà vostro diritto scegliere il nome più consono alle avventure che avrete vissuto insieme», concluse Helan.

 

«Bilbo! Bilbo!».
«Ma dove si sarà cacciato quello hobbit?».
Le voci di Bofur e Dori risuonavano energiche nella pace del crepuscolo, rincorrendosi lungo i corridoi silenziosi di Gran Burrone. Bilbo scosse la testa. Erano davvero troppo rumorosi. Si sporse dalla balaustra e agitò una mano per richiamare l’attenzione dei due nani che si trovavano al piano inferiore.
«Bilbo! Eccoti finalmente!», esclamò Bofur allegramente.
«Ti abbiamo cercato ovunque, si può sapere dove eri finito? Per la barba di Durin, inizi ad assomigliare a mio fratello Nori, un vero esperto quando si tratta di sparire all’improvviso», lo rimproverò Dori.
Bilbo scese in fretta le scale e stava per spiegare della sua visita alla biblioteca, ma Bofur lo interruppe ancor prima che potesse iniziare a parlare: «Di certo si tratta di una storia avvincente, ma ce la racconterai più tardi. Abbiamo trovato il posto perfetto per uno spuntino notturno e se non ci muoviamo Bombur non ci lascerà neppure le briciole».
Lo hobbit avrebbe voluto ribattere che era oltremodo scortese preparare spuntini in casa d’altri dopo che era stato organizzato un banchetto in loro onore, ma proprio in quel momento il suo stomaco brontolò scontento e Bilbo si disse che in fondo non c’era nulla di male in una seconda cena.

 

Helan li seguì da vicino, restando nascosta tra le ombre, in modo che non potessero accorgersi della sua presenza. Voleva saperne di più sui nani che aveva salvato dalle grinfie dei lupi selvaggi e capire se potevano rappresentare una minaccia per Imladris. Non aveva esitato a correre in loro aiuto e il suo istinto le diceva di fidarsi, nonostante la freddezza e l’avversione che avevano mostrato nei suoi confronti, puntando le armi contro di lei nella brughiera. Aveva promesso allo hobbit che non avrebbe riferito quanto aveva sentito, ma doveva essere certa che fosse la cosa giusta. Anche a costo di spiare gli ospiti di suo padre.
«Gli insegnamenti di Elladan ed Elrohir hanno dato ottimi frutti. Devi esserne orgogliosa».
Non fu più di un sussurro, eppure la melodiosa voce di Glorfindel giunse soave fino alle sue orecchie. Egli sedeva accanto ad una fontana, gli occhi fissi sul cielo stellato e i lunghi capelli d’oro lucente sciolti sulle spalle.
«Sono stata fortunata», rispose Helan quando lo ebbe raggiunto nel piccolo giardino. Con un gesto accorto controllò che le ampie maniche color pervinca dell’abito le coprissero le braccia. Lividi e graffi stavano già svanendo dalla sua pelle, ma lo sguardo attento dell’elfo li avrebbe sicuramente notati.
«Molto fortunata», ribadì Glorfindel, mostrandole un arco tranciato di netto.
Il cuore di Helan balzò per la sorpresa ed ella rimase immobile, ricordando il momento in cui la lama dell’orco era calata su di lei.
«Un’esploratore l’ha trovato nella gola, vicino ad alcuni cadaveri», continuò Glorfindel, apparentemente ignaro del turbamento dell’elfa, «eppure non appartiene a nessuno dei nostri guerrieri. Oltre a loro, tu eri l’unica a trovarsi all’esterno dei confini durante l’attacco. Fortunatamente l’arco è stato consegnato a me e non a Erestor, o peggio a Mastro Elrond. Sei stata incauta, Helan».
«Cosa avrei dovuto fare? Voltarmi e lasciarli morire?», domandò Helan con improvviso fervore.
«Non ho mai detto che tu abbia fatto la scelta sbagliata», ribatté Glorfindel posandole le mani sulle spalle. «Io stesso non avrei agito diversamente. Ma devi essere prudente. Tuo padre ti è molto affezionato ed è uno dei miei più cari amici. Non desidero vederlo soffrire e sono certo che non lo voglia neppure tu».

 

«Bombur non credi di aver mangiato abbastanza?», chiese Bofur, osservando il fratello divorare in un batter d’occhio l’ennesima coppia di salsicce abbrustolite.
«Mi dispiace, temo che l’emozione del combattimento mi abbia messo appetito», si scusò il nano, cercando di spazzolare via le briciole che cospargevano la sua barba color carota.
«Se così fosse, la tua vita sarebbe un perenne combattimento», borbottò Dwalin, ritto accanto ad una delle porte, la mano che stringeva l’impugnatura del suo martello da guerra, come se si aspettasse un attacco da un momento all’altro.
Bombur sospirò, battendosi le mani sulla pancia. Non era nuovo a questo genere di battute, ma sapeva che non era il caso di offendersi. Certo, la sua notevole stazza poteva essere d’intralcio in diverse circostanze, ma contro i troll aveva lottato furiosamente, dando loro parecchio filo da torcere e dimostrando ai compagni le sue qualità come combattente. Loro lo rispettavano e lui tollerava la loro bonaria spiritosaggine.
Addentò un grosso tozzo di pane e si guardò intorno. Sottili colonne scolpite con motivi floreali correvano lungo i fianchi dell’ampia sala e nel mezzo ardeva un grande fuoco, di fronte al quale persino Oin e Gloin avevano annuito soddisfatti. Si era imbattuto in quel luogo per caso, ma l’aveva immediatamente ritenuto perfetto per uno spuntino notturno con le provviste che si erano procurati nella caverna dei troll: pane, formaggio, salsicce e persino pancetta da friggere sulle braci. Non c’erano tavoli, ma a nessuno di loro dispiaceva mangiare stando seduti per terra e lui era addirittura riuscito a trovare uno sgabello assai comodo, eccezion fatta per qualche scricchiolio.
«Al volo Bombur!».
Bombur afferrò con facilità una salsiccia lanciata da suo fratello, ma prima di poterla gustare lo sgabello cedette sotto il suo peso e con un tonfo il povero nano si ritrovò sul pavimento, tra le risate generali.

 

«E adesso un po’ di musica!». La voce allegra del cantante spense le risate.
Dopo l’incontro con Glorfindel, Helan si era affrettata a raggiungere i nani. Guidata dagli schiamazzi e dall’odore di carne arrostita, aveva scoperto che si erano accampati nel Salone del Fuoco. In genere era un luogo tranquillo e silenzioso, dove gli abitanti di Imladris si recavano in cerca di pace e concentrazione; il fuoco rimaneva sempre acceso, giorno e notte, e rappresentava l’unica fonte di luce nell’intera sala. Solo nei giorni di festa la stanza si animava, riempiendosi di canti e racconti sui tempi antichi. Molti avrebbero storto il naso, sapendo che veniva usata per banchettare.
Con agilità l’elfa si arrampicò sull’albero più vicino alle finestre e quando fu giunta abbastanza in alto sedette su un grosso ramo, nascondendosi tra le foglie per poter scrutare all’interno.
Vide comparire flauti, violini, clarinetti, viole e persino un tamburo; c’era anche una splendida arpa dorata che rimase però muta, avvolta in un panno verde accanto al nano che rispondeva al nome di Thorin. Egli non si mosse quando i suoi compagni iniziarono a suonare e continuò a fissare le fiamme che danzavano nel braciere.
«Far over the Misty Mountains rise
leave us standing upon the heights
what was before, we see once more
our kingdom a distant light.
Fiery mountain beneath the moon
the words unspoken, we’ll be there soon
for home a song that echoes on
and all who find us will know the tune.
Some folk we never forget
some kind we never forgive
haven’t seen the back of us yet
we’ll fight as long as we live
all eyes on the hidden door
to the Lonely Mountain borne
we’ll ride in the gathering storm
until we get our long-forgotten gold.
We lay under the Misty Mountains cold
in slumbers deep and dreams of gold
we must awake, our lives to make
and in the darkness a torch we hold.
From long ago when lanterns burned
till this day our hearts have yearned
her fate unknown the Arkenstone
what was stolen must be returned.
We must awake and make the day
to find a song for heart and soul.
Some folk we never forget
some kind we never forgive
haven’t seen the end of us yet
we’ll fight as long as we live
all eyes on the hidden door
to the Lonely Mountain borne
we’ll ride in the gathering storm
until we get our long-forgotten gold.
Far away from Misty Mountains cold
[8]».
La musica si sprigionò all’improvviso, profonda e impetuosa, tanto che ad Helan parve di essere trascinata lontano, oltre fiumi e montagne, in terre remote e sconosciute. Voci roche la condussero nell’oscurità delle miniere, dove cantavano le piccozze, e le mostrarono tesori favolosi, in cui era facile smarrirsi per sempre. Conobbe il rancore e la sete di rivalsa di un popolo che aveva sofferto tanto, ma senza mai piegarsi. Sentì vibrare dentro di lei l’amore fiero e geloso per ciò che le proprie mani erano in grado di costruire. Ma ciò che davvero permeava quelle note era la tristezza, dolorosa e indescrivibile, perché l’autentico desiderio sepolto nel cuore dei nani era di poter tornare finalmente a casa. Insieme a loro, anche l’elfa si ritrovò a sperare di poter un giorno rivedere la Montagna Solitaria e una lacrima solcò il suo volto.

 

Mentre gli ultimi accordi si diffondevano nell’aria, Kili sollevò gli occhi dalle corde del violino. Nella penombra che li circondava, un bagliore scarlatto aveva catturato la sua attenzione, spingendolo a scrutare fuori dalle finestre; là, seduta tra le foglie, c’era la dama intrepida della brughiera. Accortasi di essere osservata, l’elfa portò un dito alla bocca, una silenziosa richiesta alla quale Kili rispose con un lieve cenno d’assenso. Quando rialzò lo sguardo era scomparsa.
Accanto a lui, Fili allontanò il mento dal bordo del suo strumento e poggiò l’archetto, stiracchiando le braccia indolenzite al termine della canzone. Possibile che suonare fosse diventato così spossante dopo l’inizio del viaggio, quando fin dall’infanzia gli era sempre risultato naturale come il respirare? Il nano biondo sbuffò e si accese la pipa, disegnando figure di fumo che salivano placide verso il soffitto. Forse era solo il animo ad essere diventato più pesante.
In quel mentre, Thorin si mise in piedi. «Scusatemi…», mormorò prendendo il mantello e allontanandosi.
Fili seguì i movimenti stanchi di suo zio, incrociando l’espressione preoccupata del loro scassinatore.

 

2941 T.E. – HOBBIVILLE
Fili vagava per i corridoi di Casa Baggins, cercando Nori. Lo aveva sorpreso a riempirsi le tasche di cucchiaini d’argento e lo aveva costretto a rimetterli al loro posto, ma voleva controllare che non provasse ad arraffare altro.
«Forse è meglio così, le probabilità erano tutte a nostro sfavore».
La rassegnazione in quella voce sussurrata lo sorprese. Si appiattì accanto a una credenza, riconoscendo le due sagome che discutevano poco più avanti.
«Il compito sarebbe già arduo con un esercito alle spalle, ma siamo solo tredici, e non i tredici migliori né i più svegli. Dopotutto cosa siamo? Mercanti, minatori, stagnai, giocattolai. Non certo materiale da leggenda» disse Balin sconsolato.
«Ci sono alcuni guerrieri tra noi», rispose Thorin, con un’insolita nota di affetto nella voce.
«Vecchi guerrieri», sospirò il saggio nano.
«Io sceglierei uno qualunque di questi nani, invece di un esercito dei Colli Ferrosi! Perché quando li ho convocati hanno risposto. Lealtà, onore, un cuore volenteroso. Non posso chiedere più di questo», replicò Thorin stringendo i pugni.
Ci fu un momento di silenzio prima che Balin riprendesse a parlare. «Non sei costretto a farlo, tu puoi scegliere Thorin. Ti sei comportato con giustizia verso la nostra gente. Ci hai costruito una nuova vita sulle Montagne Blu. Una vita di pace e prosperità. Una vita che vale più di tutto l’oro di questo mondo».
«Mio padre, e mio nonno prima di lui, sognavano il giorno in cui avrebbero reclamato la loro patria. La mappa e la chiave sono un segno. Non c’è scelta Balin, non per me», ribatté Thorin.
«Siamo con te ragazzo. Faremo in modo che avvenga» lo rassicurò Balin posandogli una mano sulla spalla.
Fili indietreggiò e scorse due paia di occhi che lo fissavano. Il primo naturalmente apparteneva a Kili, il cui volto serio e corrucciato esprimeva meglio delle parole quanto fosse rimasto colpito da ciò che aveva sentito. Fu decisamente più inaspettato scoprire che il terzo spettatore era lo strambo padrone di casa, che Gandalf aveva consigliato come scassinatore. Eppure qualcosa era cambiato in lui, anche se Fili non avrebbe saputo dire con esattezza cosa; sembrava più vecchio e consapevole, in un certo qual modo, l’ombra di un’espressione risoluta disegnata sul viso. Durò solo per un istante. In un battito di ciglia tornò lo hobbit pacato che gli aveva aperto la porta balbettando e si allontanò con una pila di coperte tra le braccia. Un droghiere, così lo avevano definito. “Un droghiere molto silenzioso”, pensò Fili.




 

NOTE:
[1] Fortezza elfica distrutta nella Prima Era, in Sindarin significa Rocca Nascosta.
[2] Re Supremo dei Noldor a Gondolin; sua figlia Idril diede alla luce Eärendil, padre di Elrond.
[3] Elfo della stirpe dei Noldor, Signore del Popolo della Fonte, una delle dodici casate di Gondolin.
[4] Elfo della stirpe dei Falathrim, il cui nome in Sindarin significa Lacrime dell’arpa. Gaellin e Uiallin sono le sue figlie, i loro nomi in Sindarin significano rispettivamente Musica scintillante e Musica vespertina. Tutti e tre i personaggi sono di mia invenzione.
[5] Canzone composta da Bilbo Baggins. Nel libro “Il Signore degli Anelli” è cantata da suo nipote Frodo a Brea, mentre nel film “Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato” è cantata da Bofur a Gran Burrone.
[6] Nome elfico della Montagna Solitaria, in Sindarin significa proprio Montagna solitaria.
[7] Dal detto “pettegolo come una taccola”. La taccola è un corvide e si riunisce in stormi molto numerosi; emette un verso continuo e articolato, che, dato il gran numero di uccelli, appare come un chiacchiericcio ininterrotto.
[8] Canzone “Song of the Lonely Mountain” di Neil Finn.

DATE:
510 P.E. : caduta di Gondolin.
2770 T.E. : Smaug devasta Dale e conquista la Montagna Solitaria.
2941 T.E. 29 maggio: la Compagnia viene catturata dai troll.
2941 T.E. 4 giugno: arrivo della Compagnia a Gran Burrone.

 

ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti,
di nuovo devo scusarmi per l’imbarazzante ritardo con cui ho aggiornato, spero almeno che il capitolo valga la pena dell’attesa!
Alcune precisazioni. La descrizione delle spade è un mio personale miscuglio tra ciò che appare nei film e come vengono descritte nei libri; che Orcrist sia stata brandita da Ecthelion durante la caduta di Gondolin è una delle ipotesi che sono state formulate negli anni, ma non è assolutamente confermata. Ciò che accade ad Helan mentre ascolta la canzone dei nani ricalca quanto succede a Bilbo durante la riunione inaspettata; essendo gli elfi grandi amanti della musica, ho pensato fosse un buon modo per farle comprendere i sentimenti di un popolo che in fondo non conosce quasi per niente. Infine, in questo e nel prossimo capitolo, trattando del soggiorno della Compagnia ad Imladris, renderò volutamente i rapporti tra elfi e nani leggermente più distesi, rifacendomi al libro secondo cui la permanenza fu piacevole e animata da cortesia reciproca.
Come sempre ringrazio di cuore quanti leggono e seguono la storia, se vorrete farmi sapere cosa ne pensate ne sarò felice!

Possa la strada alzarsi per venirvi incontro e possa il vento soffiare sempre alle vostre spalle
Tielyannawen

   
 
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